In un suo precedente libriccino, Il canto del viaggio, Sonnet ci spiegava con grazia ed acume come la Bibbia sia sostanzialmente un libro di partenze e di ripartenze. Qui invece (ma neanche poi tanto) ripercorre la medesima trama attraverso la simbolica della generazione, lasciando emergere la modalità con cui le voci dei padri e delle madri di Israele, sollecitati dalla domanda dei figli, si intrecciano nell’elaborazione di un racconto il cui eroe è un Dio estremamente ingegnoso nel riallargare sempre le strettoie apparentemente cieche in cui va a cacciarsi di continuo il suo popolo – e che proprio per questo merita non meno di Odisseo l’appellativo di polytropos. Non deve scandalizzare che si parli di Dio come di un personaggio letterario. Il punto saliente mi sembra infatti proprio questo: che un simile volto dinamico di Dio non può essere pietrificato in una definizione, ma colto solo nello sviluppo di un racconto, e dunque secondo le regole del racconto. L’unica teologia realmente rispettosa del suo protagonista sarebbe cioè una teologia narrativa, inesauribile in quanto capace di generare e insieme di preservare il segreto sul suo conto, tollerante verso sovraletture e sottoletture ma incompatibile con letture contrarie al senso complessivo che, nel racconto stesso, si dipana. Una teologia che si manifesta come storia, però, non è che il riflesso di quella teologia che si produce nella storia, intesa a sua volta come cammino di libertà aperto a ogni contingenza, e dunque anche a regressioni e smarrimenti, esattamente come avviene nelle relazioni transgenerazionali. In questo senso Dio è padre (e madre). Non già in quanto icona di un’autorità arbitraria o della Legge, ma in quanto affida ai figli una promessa di nascita e di vita che accoglie la possibilità insidiosa ma feconda dell’allontanamento (dalla recisione del cordone ombelicale in poi, solo il trauma di una separazione può generare una vita davvero nuova: siamo all’opposto di Cronos che divora i suoi figli) e finanche quella del rifiuto, ma non abbandona mai la speranza di un ritorno e di un reciproco riconoscimento, “faccia a faccia”. Non siamo lontani dal Dio-misericordia di cui si parla tanto oggi, dove la misericordia non è solo una prescrizione morale, ma prima ancora un metodo di lavoro. Quello impiegato da un Dio che imbastisce un programma complesso senza avervi nascosto dentro le patch per garantirne il successo, che non possiede perciò le chiavi della creazione ma solo quelle dell’elezione, e che da sempre ci chiede di imitarlo, rinnegando la tentazione di una religiosità dottrinaria con cui incasellare il reale in schemi tanto facili da manovrare quanto sordi alle buone nuove che sempre irrompono nella storia e ne spezzano la mortifera ricorsività. Per questo (e chiudo il cerchio), da Abramo in poi non si può smettere di ripartire.
(finito il 20 settembre 2016)
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