sabato 23 agosto 2025

La guerra

Tanti anni fa, più o meno all’inizio del mio percorso da studente universitario, lessi il libretto di Maurizio Ferraris proposto in questa stessa invitante collana denominata “Biblioteca essenziale”, sperando che in poche parole mi spiegasse (proprio nel senso di erklären) che cosa mai fosse l’ermeneutica, e ne uscii invece con le idee ancora più confuse di prima, non tanto per la difficoltà dell’argomento in sé, quanto perché, - ma lo scoprii solo dopo -, quel testo un po’ subdolamente presentato come riassunto dello status quaestionis segnava invece l’avvio di una presa di distanza intellettuale verso quella pratica filosofica da parte di un pensatore che dell’ermeneutica aveva anche scritto un’importante storia, ma ora sottoponeva a critica caustica ciò che avrebbe dovuto introdurre, lasciando frastornato chi, come il sottoscritto, doveva ancora capire bene che cosa fosse ciò che lo si invitava caldamente ad abbandonare, con l’argomento principe secondo cui la celebre espressione niciana “non esistono fatti, solo interpretazioni” risulterebbe immediatamente fallace ad ogni uomo di buon senso se la si trasformasse in “non esistono gatti, solo interpretazioni”. Nonostante questa piccola delusione, a distanza di molto tempo, sono tornato a riporre le mie speranze in un testo di quella stessa serie, confidando che l’illustre accademico di turno mi aiutasse questa volta a capire che cosa mai fosse la guerra - e non è che sia andata molto meglio.

Forse sono io, o forse è un rischio congenito in tutte le opere che provano a fare il punto su questioni molto complesse e che, proprio per questo, contrariamente a quanto ci si aspetterebbe e al motivo per cui sono state scritte, finiscono per essere più utili a chi le cose un po’ già le sa e riesce perciò a capire anche solo da sfumature o variazioni d’accento dove si indirizza davvero il discorso, a differenza di chi invece ne sa poco o niente ed è lì per imparare tutto quel che c’è da sapere. Va detto, a mia parziale discolpa, che di un possibile «risultato deludente», sia pure in forma interrogativa, rispetto al nocciolo della questione, parla lo stesso Bonanate, persino dopo tre densissimi capitoli e un centinaio di pagine di analisi, citazioni, confronti storici e l’articolazione di un dettagliato “catalogo delle guerre” che fa spavento, perché una tale vastissima fenomenologia (la guerra può infatti essere internazionale o civile, diadica o coalizionale, partigiana, regolare o irregolare, convenzionale o non-convenzionale, di movimento, di posizione, aerea, marina, terrestre, “stellare”, di liberazione, dinastica, di religione, rivoluzionaria o di difesa, eccetera eccetera) lascia pensare che l’inventiva umana non abbia davvero mancato di esplorare nessuna possibilità di questa sua specifica perversione, come se si trattasse di un immenso repertorio del fetish più estremo. D’altra parte, più la casistica è ricca, più è facile che si trasformi in puro fumo negli occhi, come quando si discetta sul fatto che a Gaza la gente, sì, mangia pochissimo e muore tantissimo, ma che non si parli, per carità, di “carestia” o di “genocidio”, perché la storia – in questo davvero cattiva maestra – ci presenta esempi ben peggiori che in quest’occasione non sarebbero (ancora) stati raggiunti. Ci sarebbe pure da rallegrarsi, se dopo millenni di assuefazione alla violenza, oggi provassimo un sincero ribrezzo anche solo a pronunciare le parole della pura forza, perché potrebbe essere indizio che la nostra specie starebbe costruendosi un nuovo e meritevole tabù; magari in parte è anche così, ma la conseguenza più immediata, per ora, è che uomini indegni si appellano ai cavilli per giustificare il mancato rispetto di quegli impegni condivisi che con estrema fatica siamo comunque riusciti ad assumerci dopo i grandi cataclismi novecenteschi (vale anche per noi italiani, che per Costituzione dovremmo ripudiare la guerra e dobbiamo perciò preoccuparci sempre di sottolineare che i nostri militari in giro per il mondo sono lì semplicemente a “portare la pace”). I discorsi, insomma, sono ingannevoli. Bonanate osserva a un certo punto che, sia pure paradossalmente, la politica internazionale della seconda metà del XX secolo, si sarebbe progressivamente pacificata, «ponendo tuttavia la guerra al centro della sua realtà». Quando c’era la guerra fredda, il mondo sarebbe cioè stato più in pace di quanto lo sia ora, in un’epoca in cui nessuno vuole più nominare la parola “guerra”.

Ho usato il condizionale, perché queste comparazioni mi sembrano sempre parecchio azzardate, ma assumono un senso – mi pare – se ci si pone dal punto di vista adottato dall’autore, che è quello di un docente di relazioni internazionali (disciplina nata anche per provare a dare una risposta secolare all’antica questione teologica dell’origine del male). Se ho capito bene, il perno del suo ragionamento è la tesi secondo cui «ciò che accomuna tutte le guerre è che esse sono combattute non per se stesse, ma per il loro fine, ovvero per la determinazione di una regolamentazione autoritativa dei rapporti tra stati». Si può dunque concordare con von Clausewitz quando sostiene che la guerra è sempre uno strumento della politica e che, appunto per questo, ha una propria grammatica, ma non una logica propria. Checché ne possano pensare tutti coloro che, da Omero a Junger, in forme diverse, l’hanno cantata come un’esperienza essenziale della natura umana, «pur essendo l’evento più drammaticamente coinvolgente grave e doloroso tra tutti quelli a cui l’umanità possa dare vita, la guerra non è la regolatrice massima ed estrema delle sorti del mondo e resta tributaria e ancella della politica, alla quale, comunque e sempre, dovremo guardare per trovare la guerra». Nella fattispecie – continua l’argomentazione – «una nuova guerra scoppierà (cioè, è scoppiata) ogni qual volta la struttura di dominio internazionale esistente si sarà sgretolata (sotto i colpi di forze emergenti contestatrici, della volontà di sopraffazione di una potenza su un’altra, ecc.). Diremo, in termini quasi paradossali, ma tutt’altro che insensati, che la guerra serve a realizzare la pace. Quest’ultima sarà infatti raggiunta quando il vincitore avrà plasmato l’ordine internazionale secondo le sue intenzioni – ecco che la tradizionale concezione della pace come intervallo tra due guerre perde la sua apparente solidità: la guerra è lo strumento della pace».

Questo libro uscì in prima battuta nella seconda metà degli anni ‘90, in quel battito di ciglia durante il quale qualcuno pensò che, dopo il cedimento strutturale di una delle due superpotenze e del suo impero, le guerre sarebbero state un fenomeno sempre più residuale e minoritario. Bonanate sentì tuttavia l’esigenza di riprenderlo in mano e aggiornarlo all’inizio del nuovo Millennio, perché, nonostante continuasse a provare buone sensazioni («se si confronta l’età attuale con qualunque altro periodo della storia internazionale degli ultimi cinque secoli, si può facilmente verificare che il mondo non è mai stato altrettanto poco in guerra come in questi ultimissimi anni»), l’attacco alle Twin Towers aveva introdotto una novità assoluta che sembrava capace di rimescolare totalmente il mazzo delle possibilità e vanificare ogni scenario idilliaco, «con un colpo di coda, tipico di fenomeni immensi e incontrollabili tra i quali siede certo la guerra». In particolare, in quel primo scorcio di secolo (che per noi vuol dire fino all’altroieri, l’epoca ormai lontanissima della “giustizia infinita” contro il terrorismo), «in assenza di grandi progetti politici, sembra che la guerra si renda autonoma dalla politica ed essendo entrata in una sorta di perversa autoreferenzialità risulti fine a se stessa, facendo inutilmente del male senza inseguire alcun bene». Oggi, però, la situazione sembra nuovamente cambiata, con il prepotente ritorno di attori e dinamiche apparentemente più tradizionali, e ci tocca nuovamente riadattare le nostre categorie – come del resto è inevitabile che sia, se ci si dà come regola di interrogare «la politica per capire la guerra», giacché senza una comprensione adeguata della politica retrostante, di guerra si può parlare fino alla noia senza arrivare mai a nessun risultato soddisfacente (conclusione che spiega, appunto, perché qualsiasi trattazione sulla guerra che pretenda di incentrarsi solo sulla guerra, per quanto colta, risulti o espressamente tecnica o alla fine del tutto inconcludente). E allora, chiediamocelo: siamo alla vigilia di una nuova spartizione della terra? Bonanate cita di sfuggita la teoria avanzata dal suo collega americano Joshua Goldstein in un volume di fine anni ‘80 intitolato Long Cycles, secondo cui, studiando le caratteristiche macrostrutturali che caratterizzano i grandi cicli egemonici della storia moderna e proiettando sul futuro le tendenze del passato, «la prossima guerra mondiale [...] dovrebbe scoppiare verso il 2030». Né lui né altri, in realtà, lo possono sapere, e queste previsioni servono solo a conferire un postumo e arbitrario carisma profetico a chi ha avuto la ventura di estrarre il numero giusto, ma se in altri momenti avremmo solo fatto spallucce con sufficienza, chi si sentirebbe oggi di escludere con assoluta certezza questa possibilità?

(finito il 23 luglio 2022)

Ho parlato di


Luigi Bonanate
La guerra
(Laterza 2011)

172 pp. | 12 €

domenica 10 agosto 2025

Morsi

Memore dell’apologo di Carlo Fruttero sulla scarsa credibilità che avrebbe un disco volante se atterrasse a Lucca o in Val Padana, anziché in Texas (vuoi mettere? Là arriverebbe subito lo sceriffo in jeep col suo bel fucile a pallettoni a risolvere la situazione, qui da noi bisognerebbe attenzionare il questore, smuovere il brigadiere dei carabinieri, inviare il messo comunale…), uno potrebbe essere tentato di trasporre lo stesso ragionamento dalla fantascienza all’horror – e prenderebbe un enorme abbaglio, non solo perché l’Italia vanta una consolidata tradizione come luogo d’elezione per storie macabre sin dai tempi dei primi romanzi gotici settecenteschi, ma anche e soprattutto perché, per quanto sia celebrato fino alla nausea come l’incarnazione stessa della bellezza, il nostro paese di campanili, se lo si guarda all’ora giusta, non è poi meno inquietante di quanto lo sia, sotto la quiete sonnacchiosa della provincia, la Nuova Inghilterra che i Lovecraft e gli Stephen King hanno popolato di mostri terrificanti, senza bisogno di farli arrivare dalla Transilvania. Un po’ questo si spiega con banali ragioni psicologiche: in fondo, la paura dell’ignoto si è fatta per la prima volta strada in quasi tutti noi quella volta che da bambini abbiamo esplorato qualche vecchio cascinale abbandonato ai margini della nostra consueta area di giochi, dove ci si diceva appunto di non andare a cacciarci. Non credo sia un caso che effettivamente uno dei libri più spaventosi che abbia mai letto è L’estate di Montebuio di Danilo Arona, ambientato in gran parte nel luogo meno esotico che potresti supporre, ovvero l’Appennino alessandrino sormontante Genova. Ci sarebbe qui un gran potenziale su cui lavorare. Poiché, però, siamo un popolo più pettegolo che fantasioso, ci accontentiamo per lo più degli interminabili feuilleton propinati dalla cronaca nera, che tuttavia riducono a chiacchiericcio, e quindi infine stemperano e sviliscono l’orrore annidato a due passi da casa; e se proprio ne vogliamo effettuare una trasposizione letteraria, lo facciamo piuttosto attraverso il giallo, che tendenzialmente è risolutivo, quindi consolatorio, e - dando lavoro a tutta quella pletora di commissari, procuratori, religiosi detective distribuiti pressoché in ogni chilometro quadrato del nostro frastagliato territorio -, col pretesto dell’indagine, offre anche una certa idea di mondo riconducibile a colori, odori e sapori tipici di quello spicchio di terra, contribuendo in fin dei conti ad alimentare il turismo enogastronomico. Basterebbero solo due righe di Pavese o di Fenoglio per intuire invece quanto profonda sia l’oscurità ancestrale che offusca certe nostre ridenti borgate. Ma lo stesso tema si può trattare anche con toni più pop, se così si può dire, e probabilmente è anche stato già fatto; non essendo, però, così aggiornato in materia, quando ho intuito che questo libro proponeva qualcosa di simile, l’ho immediatamente fatto mio accogliendolo come una piacevole novità.

Gli ingredienti sono in effetti esattamente quelli che potrebbe riportare un manuale di sceneggiatura dopo averli estrapolati da un repertorio che ha in Strangers Things la sua variante più recente. Si prende un gruppo di ragazzini non esattamente popolari, colti in quel limbo di transizione appena prima dell’adolescenza, «quell’età», per intenderci «in cui si è ormai grandi per credere a Babbo Natale o a Gesù Bambino, ma si è ancora con un piede impigliato nell’infanzia per ammetterlo in modo schietto». Fra di loro si isola una ragazzina in particolare, con una famiglia disfunzionale alle spalle, perennemente sull’orlo della separazione soprattutto a causa dell’incapacità del padre, mezzo alcolizzato, di tenersi a lungo un lavoro, e costretta perciò a spostarsi di qua e di là, in un areale poi non così vasto, ma che per una tredicenne vuole dire comunque rimettersi in gioco ogni volta da capo. Al suo fianco si mette l’immancabile maldestro bambino cicciottello, abituato a esprimersi più spontaneamente in dialetto che in italiano, di quelli che vanno a scuola solo in felpa e vengono inevitabilmente presi in giro dai compagni, e che, pian piano, nel suo modo tenero e impacciato, finirà per innamorarsi dell’amica fino al sacrificio di sé. Si aggiunge quindi un elemento sinistro nell’ascendenza familiare della ragazzina, una nonna non proprio convenzionale, che in paese è nota come guaritrice, e alla quale perciò ci si rivolge per curare malanni di vario tipo, il più delle volte sanati «grazie a precisi movimenti delle dita, a una serie di formule sussurrate a mezza bocca, a frizioni o impacchi di erbe dalle proprietà medicamentose», e che dunque gode del rispetto, sì, degli abitanti del luogo, come se fosse una specie di sciamano del villaggio, ma proprio per lo stesso motivo è anche oggetto di sacro timore e di diffidenza da parte loro, atteggiamento non dissimile da quel misto di affetto e sospetto che anche la nipote prova in modo contrastante verso quella strana nonna e la sua strana casa, dove si sente più che mai protetta, ma in cui riconosce che c’è «qualcosa di sbagliato», sebbene non sappia dire esattamente cosa.

Tutto liscio, dunque, senonché i due ragazzini in questione non si chiamano Will o Beverly, ma Sonia e Matteo, e quel che ci viene raccontato non avviene a Derry o a Hawkins, bensì nella ben più prosaica Lanzo Torinese, che avrà pure il suo bel ponte del diavolo, ma difficilmente immagineresti davvero come l’anticamera dell’inferno. Nulla di prodigioso può infatti arrivare da Nazareth. Quali misteri reconditi nasconderà mai quel borgo di mezza montagna, da dove anche un centro minore come Cirié, che non arriva a ventimila abitanti, laggiù in fondo alla valle, sembra già una metropoli, e la cui principale attrazione – a metà degli anni Novanta, quando si immaginano svolti i fatti qui narrati – è il bar della stazione, col gabbiotto del flipper, il cassone del videogioco (uno, ovviamente) e un vecchio jukebox? Eppure proprio in questo capoluogo dell’ordinarietà, dove sono ricorsivi persino i pochi diversivi – i fuochi d’artificio per la Madonna di settembre, le scarne giostre in occasione della festa del patrono -, un giorno come un altro si verifica qualcosa di veramente insolito e disturbante, così tanto disturbante da essere divulgato dai media in modo insolitamente sobrio solo come “l’incidente”. Accade cioè che una mattina di novembre, la professoressa di italiano del glorioso istituto comprensivo “Luigi Perona” – una donna di cui nessuno saprebbe dire esattamente l’età, perché «tutti i lanzesi la ricordavano già vecchia e prossima alla pensione», anche se lei «continuava imperterrita a insegnare» (e a lamentarsi di anno in anno del comportamento sempre più insostenibile delle giovani generazioni) -, mentre i suoi studenti di seconda media stanno svolgendo un tema in classe condotto a porte chiuse (per uno di quei vezzi inspiegabili che hanno appunto certi professori), dopo essersi arrotolata lentamente le maniche del vestito, in tutta tranquillità e senza scomporsi, comincia ad azzannarsi un braccio e a divorarselo brano a brano. Una scena raccapricciante, che in un primo momento viene in qualche modo circoscritta, non senza qualche conseguenza traumatica, ma che fa appena da preludio alla vera e propria ecatombe destinata a scoppiare durante le vacanze di Natale tra il 1996 e il 1997, quando una nevicata particolarmente abbondante come oggi non ce ne sono più isola praticamente il paese dal resto del mondo, avvolgendolo in un silenzio ovattato dove può capitare di tutto. In quei giorni di totale sospensione dell’abituale realtà, Sonia e Matteo vivranno la loro iniziazione alla vita e in qualche modo, pagandone il giusto prezzo, salveranno quel che sarà possibile salvare di capra e cavoli. Fine, titoli di coda, prodotto e diretto da Steven Spielberg.

Tocca fare un doppio inciso, anagrafico e ambientale. Primo: io ho chiarissimo quel momento lì, perché, sebbene sia un pelo più vecchio di Sonia e Matteo e un pelo più giovane dell’autore del libro, il capodanno del ‘97 è stato un piccolo rito di passaggio anche per me, alla prima festa di San Silvestro fuori di casa e lontano dalla mia famiglia. Dirò di più. A un certo punto si fa riferimento alla finale di Champions del maggio precedente – quella vinta dalla Juve sull’Ajax, per capirci – perché Matteo rievoca una terribile serata con dei suoi compagni di classe in cui con suo grande spavento si finisce a fare a gara a chi ce l’ha più lungo, ed anch’io so dire con precisione a casa di quale amico ero proprio quella sera lì e quali goffe scemenze da quindicenni abbiamo combinato, a contorno di una partita che a qualcuno interessava certo un po’ di più, ma era soprattutto un pretesto per trovarsi insieme e costruire ricordi da poter rievocare ancora in una cena di trent’anni dopo. Secondo: tutto ciò che vale per Lanzo Torinese potrebbe valere tranquillamente anche per Mondovì. A casa della nonna si mangiano infatti rubatà, paste di meliga e fricieuj, nelle cucinette di alcune case sbuffano i putagé, le signore anziane offrono ai bambini non semplici caramelle ma i sukaj, alla base delle finestre si distendono i salami di stoffa per bloccare gli spifferi, sulla nonna di Sonia aleggia il sospetto che sia una masca, con tutto il carico di suggestioni popolari che un tale termine si porta dietro – e tutto questo retroterra atavico si mescola, senza soluzione di continuità, ai videogiochi portatili, ai video di MTV, ai Ringo al cacao, al 486 con su installato Quake, ai Pokemon, al Televideo, mentre alla melodia di Madonnina dai riccioli d’oro si sovrappone l’ultima hit di Bon Jovi ascoltata rigorosamente al walkman. Ogni generazione vive, in un modo o nell’altro il suo momento di trapasso, ma quel trapasso lì, con quella mescolanza tra un’eredità contadina al sapor di bagna caòda e i primi assaggi di una modernità che comunque, nella provincia piemontese, sembrava arrivare per la prima volta come se fosse già un po’ di seconda mano, è esattamente il trapasso che ho vissuto anch’io, tale e quale.

Tutto questo per dire che uno come me rientra senz’altro fra i lettori ideali in grado di raccogliere praticamente tutti gli ammiccamenti disseminati pagina dopo pagina, compresi quelli alle pubblicità più idiote del tempo. Non era forse proprio questo ciò che volevo? L’orrore a portata di mano, che si materializza là dove ti senti più al sicuro, appena dietro l’uscio di casa del natio borgo selvaggio? Se però all’inizio è stato divertente stare a questo gioco, alla lunga confesso di esserne rimasto sopraffatto. Cosa ho provato di fronte a questo libro me l’ha spiegato, senza volerlo, perché parlava d’altro, un mio zio musicista quando mi ha raccontato del suo primo saggio di composizione in conservatorio, perfetto da un punto di vista formale, ma che il suo maestro di allora, pur riconoscendone la tecnica soggiacente, commentò dicendo “ottimo lavoro, ma questa non è musica!”. Potrei dire lo stesso: qui ci sono tutti i pezzi necessari affinché il corpo viva, tranne la vita stessa. Perfino la morale è esibita, come un’autoesegesi, quando si conclude che «insieme [Sonia e Matteo] hanno vissuto la più crudele delle esperienze. Il verbo del cambiamento, spietato e necessario, è sceso su di loro come una benedizione: crescere. Inizia il vero orrore». La vita morde e può anche far molto male; in qualche modo bisogna imparare a baciarla senza farsi sbranare. A conti fatti, vien la sensazione che sia un libro scritto per ragazzi – e non ci sarebbe niente di male – rivolto però a chi ragazzo non lo è più. Forse l’idea era di risvegliare lo young adult (come si dice oggi) che c’è ancora dentro noi diversamente giovani, esprimendosi come se si parlasse direttamente a lui, ma con la calvizie e l’incipiente canizie si diventa anche un po’ più esigenti e si vorrebbe qualcosa in più di un prodotto quasi totalmente derivativo. Plaudo perciò al tentativo, che meritava la dovuta attenzione, ma la prossima volta gradirei qualcosa di più forte.

(finito il 16 luglio 2022)

Ho parlato di


Marco Peano
Morsi
(Bompiani 2022)

186 pp. | 17 €

sabato 26 luglio 2025

Dio al plurale

Da quando, non troppo tempo fa, ho capito che il problema posto dalla coesistenza di diverse religioni nell’umanità non è esattamente lo stesso di come rendere fattibile la loro convivenza, l’approccio che ho trovato intimamente più congeniale è quello di intendere ciascuna di esse non come un sistema compiuto, bensì come un movimento intrapreso verso un Dio trascendente per una propria particolare via, percorrendo la quale è impossibile raccogliere compiutamente la ricchezza che da Lui promana, in quanto il Divino si manifesta proprio attraverso la diversità di questi itinerari, ovvero come un fascio di luci complementari o come l’insieme dei diversi versanti che restano chiaramente distinti pur disegnando il profilo della stessa montagna verso cui si sta salendo. Poiché, però, non c’è figura peggiore dell’ingenuo animato da buone intenzioni che finisce involontariamente per avallare la causa opposta a quella che intende sostenere, sono grato a questo libretto di Rémi Chéno (domenicano, professore di dogmatica, una vita spesa in prima linea nel dialogo interreligioso, quindi fonte attendibile) per avermi aiutato a mettere meglio a fuoco alcuni possibili limiti di quella posizione – che nella buona società teologica è chiamata solitamente “pluralismo” – confermandomene, con gli adeguati correttivi, la sostanziale bontà (al di là dei nomi che si possono usare per indicarla).

Adottare una posizione pluralista può in effetti aiutare a superare l’alternativa secca tra l’esclusivismo di chi ritiene che al di fuori della propria fede non ci sia salvezza (compresa la versione «senza trionfalismi» di Barth, secondo cui pure il cristianesimo, nella misura in cui si riduce a mera “religione” e pretende di ingabbiare nei suoi schemi il totalmente Altro, non può vantare nessuna superiorità - che invece ha solo finché si autointerpreta come rimando a qualcosa che le starà sempre oltre, spiazzandola di continuo) e l’inclusivismo di chi pensa invece che tutti coloro che sono onestamente in cerca di Dio condividano di fatto la medesima esperienza, qualunque siano poi le forme e le parole che concretamente useranno per definirla (compresa la versione raffinata di Rahner, con la sua categoria di “esistenziale soprannaturale” introdotta per sostenere che un uomo può essere considerato cristiano anche senza una confessione esplicita in tal senso) - due prospettive che, istituendo tra le religioni un rapporto di conflitto insanabile o di bonaria omogeneità, eludono, più che affrontare, la domanda posta dal loro stesso esistere (domanda teologica, intendo, non antropologica o sociologica). D’altra parte, accettare l’idea che Dio, nella sua pienezza, sia perennemente al di là di ogni nostra rappresentazione e costituisca una meta comune per le diverse religioni del mondo sembrerebbe un pilastro sufficientemente solido per reggere un ponte di natura mistico-spirituale oltre che etico-pratica fra di esse, nel momento in cui le si riconosce appunto tutte impegnate nel rispondere a una medesima, sebbene diversificata, vocazione.

Cosa c’è che non funziona in questo ragionamento? Secondo Chéno, centrare il discorso su un “terzo” al di sopra delle molteplici tradizioni religiose rischia innanzitutto, nonostante utte le apparenze contrarie, di riproporre surretiziamente un modello assimilazionista, se non imperialista, nella misura in cui si afferma implicitamente che al termine di un lungo percorso di autoriflessione “noi” avremmo capito che il senso autentico della religione consisterebbe nel non assolutizzare i nostri punti di vista e perciò, dall’alto di questa scoperta, ora imponiamo anche a “voi” di rinunciare ai vostri per poterci reciprocamente riconoscere, secondo quel frusto trucchetto per cui si disegna “l’umano” prendendo noi stessi a modello univoco di riferimento e si racconta che non si vuole affatto trasformare gli altri in noi, certo che no, ma renderli, appunto, “più umani”. D’altra parte - ed è un’obiezione ancora più cogente – non esiste e non può esistere qualcosa come una esperienza religiosa “universale”, disancorata dall’orizzonte simbolico e dal contesto storico entro cui essa è maturata, e se il riconoscimento reciproco dovesse passare attraverso la progressiva spogliazione del repertorio culturale di cui siamo fatti, alla fine non resterebbe proprio nulla da riconoscere, come accade all’allodola spiumata della nota canzoncina francese. A forza di dire che questo non si può dire prima o poi, infatti, si resta semplicemente con nulla da dire. Un conto, sembra concludere Chéno, è deporre le armi, un conto è suicidarsi collettivamente.

C’è da dire che il pluralismo che il teologo francese contesta è quello di matrice anglosassone che ha avuto in John Hick il suo principale promotore, e non la versione proposta per esempio da Jacques Dupuis, che curiosamente non viene mai citato, pur avendo quest’ultima molti punti in comune, mi sembra, con l’approccio sostenuto dallo stesso Chéno e da lui definito “post-liberale” (ed è per questo che, come dicevo in apertura, più che una sconfessione del pluralismo verso cui sono orientato, mi pare un contributo per puntellarlo meglio). L’aspetto che trovo più intrigante di questa posizione è il fatto di snidare gli odierni identitarismi sul loro stesso terreno, smascherandone le fallacie. Affermare l’irriducibile diversità delle religioni come un elemento costitutivo della società umana potrebbe infatti sembrare un modo per portare acqua al mulino di chi rivendica, alla maniera di Huntington, una radicale “regionalizzazione” del mondo in sfere di civiltà ermeticamente impermeabili le une alle altre e destinate per questo inevitabilmente a scontrarsi. Tuttavia, se è vero che ciascuno di noi impara a dire se stesso nella lingua in cui è stato cresciuto, non è meno vero che tale lingua non è mai un circuito chiuso, ma è perennemente sollecitata a ritrovare dentro di sé le risorse per far risuonare familiare alle orecchie di chi la parla concetti e immagini elaborati in altre lingue. In una parola, da quando ci siamo dispersi per il globo, non abbiamo mai smesso di inventare parole nuove e contemporaneamente però anche di tradurcele a vicenda, senza per questo disimparare quelle che ci erano state insegnate da bambini. Anzi, studiare la lingua dell’altro ci permette di conoscere meglio strutture, potenzialità e limiti della nostra, che senza quello stimolo esterno ci sarebbero sfuggiti, e in fin dei conti ci aiuta persino a parlarla meglio, oltre a farci capire, appunto, che ogni traduzione lascia sempre un residuo inespresso che si sottrae alla nostra presa, sia cognitiva e sia, per estensione, politica. Insomma, non poter non avere un linguaggio - e un linguaggio concreto, particolare, storico - non implica l’impossibilità del dialogo; tutt’al contrario, ne è la costitutiva premessa. Dunque, la difesa delle proprie radici non può essere un buon motivo per chiedere l’estirpazione di quelle altrui.

Ora, lo scopo di questo dialogo è di provare a integrare il punto di vista altrui nel mio, aiutandomi ad approfondirlo e ad estenderlo (mi torna in mente la maieutica di Socrate, che non impone uno schema univoco di comportamento, ma invita Lachete, Alcibiade, Eutifrone a capire come realizzare la virtù ciascuno nella propria vita). Per noi cristiani non dovrebbe essere così difficile da capire, visto che l’abbiamo sempre fatto. «La storia delle dottrine mostra in che modo esse sono messe alla prova dalla loro capacità di sostenere l’intelligibilità delle pratiche in nuovi contesti». Non è stato questo lo sforzo di Tommaso, dei grandi Concili, di Paolo? Le parole stesse del maestro di Galilea, pronunciate in aramaico, noi le possediamo solo in greco (con buona pace di quanti pensano che Dio pensi e parli solo in latino). Senza l’inculturazione nel mondo ellenistico, forse la nostra fede non sarebbe mai stata altro che un ramo morto dell’ebraismo. Abbiamo dialogato con i classici, e nessuno dubita che siamo rimasti cristiani (anzi, questo ci ha aiutato a comprendere meglio ciò che siamo, e se abbiamo travisato qualcosa, abbiamo anche acquisito degli strumenti per correggere quei travisamenti) – perché mai dovremmo fermarci lì? Lo stesso vale per gli altri: dovremmo smetterla di pensare di poter diventare degli astratti “umani” migliori e pensare un po’ di più ad essere, ciascuno, un uomo migliore in quanto cristiano, in quanto musulmano, in quanto ebreo o buddhista o quello che è. Dunque, si può avversare l’omologazione modellata sull’economia di mercato e non per questo esigere che si innalzino muri alle frontiere.

Però questo discorso oggi non paga molto. Di ragioni per cui questo accade ce ne sono tante, ma questo libro me ne ha suggerita una in particolare. A ben vedere, l’esercizio di traduzione avviene anzitutto dentro di noi, e avverrà sempre di più in un mondo in cui i discorsi tendono a moltiplicarsi e ad intrecciarsi. «[Io] sono già in dialogo fra parecchi territori che per me costituiscono significati e visioni del mondo senza dubbio incommensurabili, ma che riesco ad abitare simultaneamente». Il che vuol dire che ciascuno di noi è già da sempre uno e anche un po’ un altro, ma bisogna rendersene conto, e per farlo bisogna abituarsi a scendere un po’ in profondità, a sondare se stessi. Guarda caso, invece, i profeti contemporanei dell’identità, proprio quelli che dovrebbero apprezzare questo esercizio di introspezione, sono però anche quelli per i quali l’identità è al contrario una corazza iperprotettiva indossabile a piacimento dall’uno o dall’altro perché formata da pochi pezzi assemblati fra loro che vengono ossessivamente esposti al nemico perché probabilmente si ha il terrore di mostrare che, sotto quell’uniforme (questo, sì, simbolo di omologazione), non c’è nulla. Ma se mi riduco a ripetere a voce sempre più alta degli slogan per non ascoltare ciò che gli altri hanno da dire, dato che dentro di me non troverei nulla da rispondere, il problema è davvero l’altro o non sarò forse io?

(finito l'8 luglio 2022)

Ho parlato di


Rémi Chéno
Dio al plurale. 
Ripensare la teologia delle religioni
(Queriniana 2019)

(Giornale di Teologia #418)

trad. di G. Romagnoli

128 pp. | 14 €

(ed. or.: Dieu au pluriel. Penser le religions, Paris 2017)

giovedì 10 luglio 2025

Adattamenti meravigliosi

Non avevo esattamente capito che genere di libro stavo comprando, quando ho comprato questo libro, anzi mi ero figurato qualcosa di un po’ diverso da quello che si è rivelato, ma ciò conferma indirettamente uno dei temi che questo libro ti aiuta a mettere a fuoco, quando poi lo leggi, ovvero che proprio là dove non te lo aspetti, o dove ti aspetti altro, magari di più scontato, si nascondono invece meraviglie che vanno ben oltre qualsiasi precedente immaginazione e che anche da quelli che sembrano errori di valutazione si finisce comunque per imparare qualcosa. Per spiegarlo, l’autore ricorre, tra l’altro, all’esempio della Ultra-Deep Field, lo scatto – chiamiamolo così – con cui il telescopio Hubble ha rivelato in «una porzione di cielo notturno banale e probabilmente priva di interesse» l’esistenza di diecimila galassie di cui prima non si aveva la minima percezione. Ma se da sempre il cielo stellato sopra di noi evoca quasi spontaneamente alla nostra fantasia la sensazione dell’ignoto, meno ovvio è che a suscitare analoghe emozioni possa essere il giardino di casa sotto di noi e quelle migliaia di piccolissimi eventi che ci accadono letteralmente fra i piedi, a prima vista infinitamente meno affascinanti rispetto, che so, alla collisione di due buchi neri. Si capisce ancora ancora l’attrattiva esercitata dai dinosauri oppure dai cetacei, dai grandi mammiferi, dalle scimmie: ma toporagni, insetti e lombrichi che cosa avranno mai da raccontarci di così interessante? E invece piegarsi su uno di questi animaletti e studiarlo al microscopio è esattamente «come spedire una sonda verso un pianeta lontano» (e curiosamente tocca prendere atto che alcuni mitemi tipici della fantascienza in apparenza più sfrenata hanno radici terrestri, troppo terrestri, senza bisogno di scomodare alieni o xenomorfi). Insomma, continuano ad esserci più cose nell’aiuola del basilico che in tutta la nostra filosofia e a ben vedere il mondo delle stranger things non è affatto il sottosopra, ma quello che solo per una questione di miopia ci ostiniamo a considerare “normale”.

Per farla breve, credevo di avere a che fare con una raccolta di saggi evoluzionistici alla Stephen Jay Gould e invece, anche se il retroterra è pressoché lo stesso, mi sono ritrovato per le mani un testo con un approccio decisamente più sperimentale – e per sperimentale intendo proprio da sporcarsi le mani e affondare fino alla vita nel fango delle paludi: non è un caso che parole di enorme apprezzamento siano qui riservate ad Alexander von Humbold, uno che se avesse potuto si sarebbe fatto ingoiare dalle balene per poterle osservare da dentro -, sebbene di taglio divulgativo, ossia sfrondato di gran parte dei grafici e dei dati che solitamente vengono riportati negli articoli scientifici e pieno zeppo, al contrario, di tutti quegli elementi narrativi e autobiografici che in quegli articoli non trovano mai spazio. Ed è probabilmente perché da quella letteratura spesso misurata potrebbe non emergere a sufficienza che dev’essere arrivato un momento in cui Kenneth Catania, docente di biologia all’Università di Nashville da quasi trent’anni (anche se con un passato da consulente dello zoo di Washington), ha avvertito l’esigenza di testimoniare a tutti in modo che più chiaro non si può come il sense of wonder non sia solo una prerogativa dei ragazzini che leggono fumetti, ma anche di chi, come lui, può vantare oltre un centinaio di pubblicazioni, premi, fellowship e tutto quello che serve a ingrassare un dignitoso curriculum accademico. Di qui il suo intento, dichiarato sin dall’inizio, di «cambiare la percezione di come avvengono le scoperte e di come si fa ricerca» - e per darcene un’idea il più incisiva possibile ha anche disseminato i bordi pagina del suo libro di qr code che, se debitamente inquadrati, ci collegano a video in cui possiamo vedere quello che ci viene raccontato, offrendoci un’autentica esperienza di lettura aumentata (qui pongo la mia pietra miliare e certifico che è stata la prima volta che mi è capitato in un volume non scolastico).

La morale della favola, corroborata da un’intera vita di studi, è che, per scoprire qualcosa di significativo, «pare che servano molta fortuna e serendipità», anche se bisognerebbe sempre ricordarsi di chiosare questa osservazione con il noto adagio di Pasteur secondo cui la fortuna aiuta le menti preparate, nonché con quello - non d’autore, ma non per questo meno vero - secondo cui i fallimenti sono «parte integrante della scienza, come della vita» (quindi niente paranoie se ci si imbatte di tanto in tanto in un vicolo cieco, perché non solo capita, ma deve capitare, e molto più di una sola volta). E il modo migliore per tenersi preparati è quell’«elemento chiave sottovalutato nel processo di scoperta» che consiste anzitutto nel «mantenere l’apertura mentale e non avere troppi pregiudizi», in quanto «essere incuriositi dai misteri fa parte della natura umana, ma i misteri ci portano solo sulla soglia. Non possiamo sapere cosa scopriremo varcandola». Dunque, attenzione estrema all’insolito e nessuna preclusione rispetto a ciò che ci può rivelare una qualsiasi esperienza, perché il mondo non si lascia mai chiudere in una teoria preconfezionata. Come avrebbe detto Sherlock Holmes, una volta eliminato l’impossibile, ciò che resta, per quanto improbabile, deve essere la verità. La scienza ci insegna, infatti, «a riconoscere leggi generali osservando i particolari più inconsueti» e «i dettagli più strani», tanté che «qualcuno ha detto che la cosa più bella da sentire, nella scienza, non è “eureka”, ma “che strano!”». Tutto questo Catania lo sa bene, essendosi costruito nell’ambiente la bizzarra fama di «studioso di strane appendici» soprattutto per via delle sue prolungate indagini sulle talpe dal muso stellato (Condylura cristata), esserini di cinquanta grammi appena che hanno però «l’abitudine di piombare nel bel mezzo di interessanti teorie e controversie scientifiche». Lo studio del funzionamento del corpo stellato che hanno sul muso e che si è rivelato essere l’organo tattile più sensibile tra tutte le creature del pianeta (con tanto di certificazione Guinness che riconosce a lei, e non – per dire – al ghepardo, il titolo di cacciatore più veloce tra i mammiferi, proprio in virtù di questa dotazione, grazie alla quale è in grado di individuare una preda, esaminarla, decidere di mangiarla, ingerirla e cercare un nuovo boccone in 230 millisecondi) è infatti una riprova del carattere non architettonico dell’evoluzione, che opera sempre e solo su ciò che già c’è, riciclando e riadattando alla bisogna; anzi è esattamente la stranezza dei risultati a costituire «una delle migliori prove dell’evoluzione» stessa (e qui Gould effettivamente torna in campo con uno dei suoi tormentoni).

Per questa via si viene, per esempio, a conoscenza di meccanismi sofisticati come la finissima tattica di caccia del serpente dai tentacoli (Erpeton tentaculatum Lacépède) e si fa i conti con la possibilità di una “percezione elettrica” del mondo, come quella delle anguille sudamericane (Electrophorus electricus), assai più estranea di quanto lo possa essere per noi la già complicata ecolocazione propria dei pipistreli, anche se probabilmente la più inquietante “meraviglia” qui descritta è quella riguardante la vespa gioiello (Ampulex compressa), «uno di quei casi in cui la realtà è molto più strana, interessante e agghiacciante della fantasia», dal momento che questa specie è solita paralizzare con una puntura gli scarafaggi, immobilizzarli in appositi luoghi cavernosi, nutrirsi di un tronco della loro zampa per assumere le proteine necessarie a deporre nel tenero moncherino una larva, la quale, a poco a poco, comincerà a nutrirsi del corpo ancora vivo, ma inerte, dell’insetto, finché lo dilanierà dall’interno, come in Alien, una volta raggiunta la maturità (sempre che non capiti nulla nel frattempo: basta anche solo un leggero movimento dello scarafaggio perché la larva cada fuori e muoia di fame, mentre la sua preda, esaurito, dopo circa una settimana, l’effetto inibitorio sui suoi sensi, riprenderà a muoversi liberamente – e tutto questo sotto il nostro naso!). Citando Feynman, Catania ne conclude che “la conoscenza scientifica non sottrae niente all’emozione, al mistero e alla meraviglia di un fiore. Non fa che aggiungere”. Qualche giorno fa mia moglie ha realizzato un acquarello in cui una bambina osserva un fiore gigante e una scritta sullo sfondo recita “coltiva lo stupore”. E questo non è altro che un ulteriore caso di felice adattamento tra lei, fisica, e me, filosofo.

(finito il 7 luglio 2022)

Ho parlato di


Kenneth Catania
Adattamenti meravigliosi. 
Sette irresistibili misteri dell'evoluzione
(Bollati Boringhieri 2021)

256 p. | 23 €

(ed. or.: Great Adaptations. Star-Nosed Moles, Electric Eels, and Other Tales of Evolution's Mysteries Solved, Princeton 2020)

domenica 29 giugno 2025

Chiesa, pace e guerra nel Novecento

Che un papa appena eletto si affacci dal loggione di san Pietro invocando per il mondo una pace «disarmata e disarmante», oggi, dopo il “mai più guerra!” strozzato in gola dell’ultimo Wojtyla, dopo l’angelus del 2007 in cui Benedetto XVI proclamò che la “nonviolenza”, per un cristiano è da assumere non come «un mero comportamento tattico», bensì come «un modo di essere della persona», dopo l’impegno profuso da Francesco per tutto l'arco del suo mandato, tutto sommato non fa più notizia, anzi pare persino un’ovvietà. Che vuoi mai che dica un papa? Eppure qui c’è assai poco di scontato. Il tema guerra/pace costituisce infatti uno dei casi studio più interessanti per misurare il rapido addomesticamento con cui è stata depotenziata la radicalità evangelica, quando la comunità dei credenti è scesa a patti con il precedente ordine pagano, ha trovato posto a corte, e anziché scardinare la logica mondana che la pervadeva e destrutturare così il dominio del principe di questo mondo, se n’è appropriata e l’ha battezzata, sostenendo ad esempio che, a ben vedere, il precetto evangelico di non opporsi al malvagio e di amare il nemico potrà forse valere per i santi - che non per nulla sono santi e i cui meriti garantiranno anche a noi poveri peccatori di salvarci -, ma non annulla la legge naturale, che impone invece l’autodifesa e l’adozione di tutti i mezzi necessari allo scopo, fossero anche violenti. Allo stesso modo, l’obiezione di coscienza è stata considerata degna di lode finché a praticarla sono stati gli apostoli dinanzi ai Sinedri e agli imperatori romani, salvo essere da un certo momento in poi bollata come una pericolosissima devianza soggettivistica, attraverso cui il suddito si arroga presuntuosamente il diritto di opporsi ai legittimi governanti, dei quali bisogna invece pensare che sappiano sempre quello che fanno, e se non lo sanno peggio per loro, perché andranno all’inferno, trascinando però con sè – paradossalmente, e contrariamente a quello che penseremmo noi oggi – chi si è opposto alle loro inique ingiunzioni e non chi ha loro obbedito senza farsi domande. A livello magisteriale, peraltro, la posizione ufficiale della Chiesa resta tuttora saldamente ancorata al principio della guerra giusta. Dunque, da questo punto di vista, che cosa è cambiato, se qualcosa è cambiato, nell’arco del XX secolo? Il volume di Menozzi, uscito quando si era da poco concluso l’ultimo, lungo, pontificato novecentesco, prova appunto a fornire una risposta a questa domanda e la racchiude nel suo sottotitolo, a beneficio del lettore, anche se, come accade sempre nei libri di storia, la cosa interessante è in realtà seguire passo passo come ci si arriva, a quella conclusione.

L’esigenza di un ripensamento dottrinale sul tema della guerra ha cominciato a farsi strada, più o meno all’altezza della Prima Guerra Mondiale, con l’irruzione sulla scena della strumentazione bellica moderna, che rese d’un tratto obsoleto ogni possibile criterio di proporzionalità tra i mezzi e i fini – considerata da sempre un requisito minimo indispensabile per parlare di “guerra giusta”. E tuttavia l’accorato appello contro «l’inutile strage» lanciato nel 1917 da Benedetto XV, spesso citato proprio come spia di un nuovo orientamento “pacifista” della Santa Sede, conserva ancora un retrogusto intransigente. Magistero e apologetica del tempo, infatti, concordavano spesso nel considerare la Grande Guerra come la prova empirica della teoria secondo cui, venuto meno il riferimento univoco all’autorità normativa della Chiesa cattolica, a partire almeno dalla Rivoluzione Francese, la società europea non sarebbe più stata in grado di governarsi da sola e non avrebbe potuto far altro che autodistruggersi («“Fate pure da voi”, disse Dio – e il mondo andò in pezzi», come ebbe a scrivere De Maistre). Posizione, questa, che sarebbe stata certo più credibile se le conferenze episcopali nazionali, come quella francese o tedesca, non avessero indossato l’elmetto con sin troppa nonchalance, e, confondendo Dio con la patria, non avessero invitato a travolgere, rispettivamente, i nipotini di Lutero o di Robespierre – perché è sospetto lamentarsi che non c’è la pace, se poi sei tu stesso a fomentare il disordine, dimostrando per inciso che del Vangelo e del suo invito a non considerare più né Giudeo né Greco ci hai capito davvero poco. D’altra parte, e coerentemente con queste premesse, proclamare che solo la pace di Cristo può davvero salvare il mondo e al contempo boicottare tutti i tentativi laici finalizzati alla costruzione di organismi sovranazionali per promuovere la risoluzione non violenta dei conflitti, come la Società delle Nazioni, era tutto sommato un modo per rivendicare in modo esclusivo al Vicario di Cristo il ruolo di supremo arbitro internazionale, in conformità con una visione fortemente idealizzata del Medioevo, presentato nei termini di un sistema ordinato e armonico quale mai realmente esso fu. Che l’orrore suscitato dalla guerra non autorizzi a concludere che ogni pace sia di per sé “giusta” è un assunto da tenere bene a mente; meno condivisibile è invece far discendere da questo principio la conclusione secondo cui, piuttosto che finire sotto chi sembra minacciare i valori cristiani (soprattutto se “rossi”, con più indulgenza se “neri”), sia preferibile l’apocalisse. Neppure un evento che per altri aspetti costituì un punto di non ritorno nella discussione sulla liceità della guerra come l’invenzione della bomba atomica scalfì questa convinzione, se è vero come è vero che, in un radiomessaggio del 1956, Pio XII lasciò intendere, sia pure in felpato linguaggio diplomatico, che l’uso di tale arma sarebbe stato moralmente giustificabile qualora i comunisti, dopo l’intervento a Budapest, avessero seriamente minacciato di invadere l’Occidente.

Non che non ci fossero voci dissonanti, nel mondo cattolico - spesso provenienti da percorsi ecumenici -, ma fin qui trovarono poco ascolto. Lo snodo decisivo fu il papato di Roncalli, e in particolare le intuizioni consegnate alla quantomai profetica Pacem in terris, in particolare l’esortazione rivolta agli uomini di buona volontà, dietro la quale c’è il riconoscimento di un possibile impegno comune per la pace mondiale che non si risolva in una semplice ricapitolazione di tutte le cose sotto il vessillo della chiesa romana, e l’esplicita affermazione secondo cui, nell’era atomica, ricorrere alla guerra è assolutamente contrario alla ragione, e dunque anche alla stessa legge naturale, con buona pace del predecessore (e pazienza se l’incisiva versione latina alienum a ratione sia stata annacquata da qualche manina nella prodigiosa perifrasi italiana «riesce quasi impossibile pensare che la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia»). Questa progressiva circoscrizione dei margini di legittimità della guerra giusta non significava però eliminare del tutto la liceità del principio; al contrario, lo sfocarsi dei parametri tradizionalmente presi in considerazione rendeva, se possibile, ancora più necessaria la funzione interpretiva del papato, che – con Montini – parve nuovamente avocare a sé il potere di dirimere tra conflitti “buoni” e “cattivi”. Erano, del resto, anni problematici, segnati in primo luogo dagli eventi del Vietnam, ma più in generale da tutte quelle lotte per l’emancipazione del mondo coloniale che, seppur animate dalle ineludibili esigenze di giustizia che lo stesso Paolo VI riconosceva nella Popolorum progressio, nel momento in cui si andavano a porre sotto la tutela sovietica, rischiavano anche di rafforzare il campo del materialismo ateo comunista, oltre che di mettere in discussione la tradizionale e rassicurante centralità di un’Europa concepita come facente tutt’uno con la Cristianità. D’altra parte, come non appoggiare invece analoghi moti di ribellione in nome della libertà contro i regimi del sedicente socialismo realizzato?

Tali tensioni esplosero, com’era naturale che fosse, con l’avvento del papa polacco, il quale però, convinto com’era che tutte le contraddizioni potessero riconciliarsi nella sintesi superiore del suo carisma personale, anche sul tema della guerra e della pace disseminò il suo pontificato di parole e azioni diversissime, in grado di poter offrire facile supporto a chi volesse garantire una copertura petrina a posizioni anche significativamente diverse fra loro. Nonostante queste oscillazioni, restano però dei punti che, considerati retrospettivamente, sembrano più fermi di altri. Dagli incontri interreligiosi di Assisi fino alla freddezza manifestata nei confronti della retorica della crociata impiegata da Bush figlio e dai suoi consiglieri neo-con ai tempi dell’intervento in Afghanistan e in Iraq, passando per le richieste giubilari di perdono, una delle perle di Giovanni Paolo II è stata infatti senz’altro quella di aver tolto ogni sostegno all’idea che si possa fare la guerra “in nome di Dio”. E quand’anche si fosse trattato, almeno in parte, di una mossa estrema per salvaguardare il primato del sacro nell’ordine politico, nondimeno sembra che l’idea abbia attecchito e prodotto già qualche primo germoglio positivo. Sarà poca roba, ma in un’epoca nella quale stanno riemergendo pulsioni belliciste che pensavamo ormai superate, si può sperare che almeno su questo punto non si torni più indietro.

(finito il 2 luglio 2022)

Ho parlato di


Daniele Menozzi
Chiesa, pace e guerra nel Novecento. 
Verso una delegittimazione religiosa dei conflitti
(Il Mulino 2008)

336 p. | 27 €

martedì 17 giugno 2025

Le avventure di Gordon Pym

Tra le innumerevoli ragioni per cui mi sento profondamente riconoscente alla vita, non considero certo secondario l’aver avuto accanto alcuni amici che - all’epoca delle primissime scelte autenticamente personali, quando si comincia a delineare in modo più netto il profilo della propria identità - non solo non mi hanno fatto pesare la passione per la lettura come qualcosa di cui vergognarmi, ma l’hanno anzi condivisa con me, sostenendola e nutrendola attraverso scambi, consigli, prestiti e discussioni, che potevano riguardare libri, certo, ma pure fumetti o riviste, come accadeva fino a quattro minuti prima che arrivasse anche da noi internet. Devo, appunto, a uno di loro (chissà se si riconoscerà in questo ricordo?) e al fatto che mi abbia un giorno messo in mano un volumetto economico contenente alcuni racconti di Poe (quelli “del terrore” – recitava il titolo: e c’era sicuramente dentro Il gatto nero e poi Il cuore rivelatore, La maschera della Morte Rossa e, ovviamente, il più agghiacciante e amato di tutti, Il pozzo e il pendolo), se nel volgere di un pomeriggio appena di prima media acquisii così tanti punti esperienza da sbloccare un livello di crescita del mio personaggio e ritrovarmi, quasi di colpo, un lettore adulto. Avendo sostanzialmente snobbato la letteratura per ragazzi pubblicata quand’ero ragazzo, e teoricamente prodotta proprio per soddisfare quelle che si presumevano essere le esigenze di un preadolescente degli anni ‘90, è invece a partire dagli scritti di quell’inquieto poeta americano morto più di un secolo prima che si è man mano forgiato il mio immaginario personale – e sebbene si sia trattato di un immaginario ancora in gran parte ottocentesco, tenderei a dire che non mi è andata poi così male.

In questo percorso di iniziazione, il Gordon Pym si rivelò presto un passaggio pressoché obbligato. Nel «divorante desiderio» di salpare che spinge il giovane protagonista del romanzo a litigare coi suoi stessi genitori pur di imbarcarsi su una nave e abbandonare la terra ferma si rispecchiava, in un certo senso, la mia analoga, vorace, frenesia di prendere ancora una volta il largo fra le pagine di un nuovo libro, come se non ne avessi mai abbastanza, mosso nella fattispecie da irrefrenabile curiosità – spontanea, genuina, commovente curiosità che si può avere solo ad un’età in cui tutto è davvero una continua scoperta – per quella che, a prima vista, si presentava come una grande avventura di mare affine ai cicli salgariani di cui fin lì ero stato cultore, ma che, al tempo stesso, - per quanto, nel frattempo, avevo già annusato di Poe - avevo anche sentore dovesse contenere qualcosa di più, e comunque di molto diverso da ciò a cui ero abituato. Ovviamente non restai deluso (anzi: non restammo, giacché quella lettura, come dicevo, fu condivisa). C’è davvero di tutto, qui dentro – naufragi, ammutinamenti, silenziosi velieri alla deriva con i loro equipaggi di cadaveri devastati da misteriose malattie, banchi di squali pronti ad avventarsi su ciò che resta di corpi mutilati, ammazzamenti vari, compresa una terrificante scena di cannibalismo preceduta da un’ancor più terrificante sequenza di sorteggio per stabilire chi sarebbe stato sacrificato in modo da garantire la vita agli altri (è l’episodio che più mi rimase impresso e che non ho mai scordato) – come una continua, ossessiva, sfida alla morte, quanto basta per far provare a un dodicenne più di un brivido per il presagio che essa effettivamente è lì fuori, perennemente in agguato, e ci dovrai fare ben presto i conti, e imparare a considerarti un reduce per ogni giorno in più che ti viene dato di stare in terra, stemperato però dalla sensazione di essere in fondo ancora al sicuro, ben protetto sotto le coperte spesse del tuo letto mentre leggi di questi sventurati a cui ne capitano letteralmente di tutti i colori. E se da allora in poi mi ero tenuto alla larga da questo libro non era per la paura di riprovare quella stessa paura, ma – tutt’al contrario – per il timore di non provarla più allo stesso modo e di dover perciò ridimensionare il valore delle emozioni vissute allora, al momento giusto, come accade quando rivedi da grande un film che da piccolo ti aveva spaventato a morte e non ti capaciti di come i suoi pessimi effetti speciali possano averti suscitato tanto orrore. Finché, a un certo punto, ha prevalso il desiderio di averne una copia a portata di mano e, in una di quelle interminabili pause di stasi in mezzo alla maturità, mi è venuta la voglia di correre il rischio e rileggerlo da cima a fondo.

Quel che ci ho ritrovato, inevitabilmente, sono stati sparsi, ma ben definiti, pezzi di me. Mi rivedo chiaramente, poco più che bambino, mentre abbocco all’amo delle coordinate fornite da Poe e mi metto a tracciare a matita sul mio atlante De Agostini la rotta che a un certo punto spinge Gordon Pym e i suoi compagni a costeggiare quello che mi è sempre apparso come l’autentico orlo del mondo, l’estrema propaggine meridionale del globo, ancora in gran parte incognita a inizio Ottocento, memento di tutti i luoghi che per un uomo sarebbe meglio non esplorare, come ebbe a imparare a sue spese, nella versione dantesca, il prototipo di tutti gli altri escapisti della morte, Ulisse, a cui qui non sarebbe riuscito l’ultimo trucco. Non saprei dire quali siano, rispettivamente, la causa e l’effetto, ma è un fatto che, nella mia generale suggestione verso le regioni più isolate della Terra (che spinse mia moglie a regalarmi un giorno il bellissimo Atlante delle isole remote), un posto privilegiato hanno proprio le lontanissime terre australi, luoghi come l’isola della Desolazione, Tristan da Cunha, le Crozet, con le loro coste battute da correnti gelide dove vanno a morire i ghiacciai e su cui si agitano solo colonie di pinguini, foche, albatros ed elefanti marini, senza la minima presenza umana. Le isole Kerguelen, che ebbero qualche minuto di gloria perché toccate da Cook nel terzo dei suoi viaggi, sono qui presentate con dovizia di particolari come «uno dei luoghi più desolati e abbandonati del globo», ma non è ancora nulla. Quando la navigazione supera la banchisa polare e la spedizione trova un passaggio per dirigersi sempre più a sud, Poe si immagina che le condizioni climatiche paradosalmente cambino, diventando meno estreme, senza che però questo renda meno inquietanti i panorami. «Era un luogo d’incredibile desolazione, il cui aspetto mi evocò alla mente le descrizioni fatte dai viaggiatori spintisi nelle squallide regioni ove sorgono le rovine dell’antica Babilonia. Senza tener conto della massa di detriti caduti dalla collina sconvolta, che chiudeva come una barriera informe tutto l’orizzonte settentrionale, la superficie del terreno era fittamente disseminata di tumuli giganteschi, forse i resti di mastodontiche costruzioni dovute all’opera di creature titaniche, benché a un più minuto esame risultassero privi di ogni parvenza d’arte umana. V’erano scorie da per tutto e grandi informi blocchi di granito nero, frammisti ad altri di marna, sia gli uni che gli altri irruviditi da granulazioni metalliche. Di vegetazione, in quel tratto brullo oltre ogni dire, neppure l’ombra. Vedemmo soltanto alcuni scorpioni enormi e vari rettili che non si trovano altrove a latitudini così elevate». Così, in appena dieci righe è contenuto in nuce tutto il materiale che esploderà cent’anni più tardi nella cosmogonia di Lovecraft (e a questo punto devo aggiungere che anche Le montagne della follia fu un passaggio obbligato delle nostre letture e che questo concentrato di fantasie ci indusse persino ad abbozzare la stesura di un romanzo a più mani in cui ciascuno, a rotazione, avrebbe dovuto realizzare un intero capitolo cercando di lasciare il racconto in sospeso alla fine della sua parte, per stimolare, di volta in volta, l’inventiva di chi fosse venuto dopo: l’ambientazione da cui partimmo, manco a dirlo, fu proprio un centro di ricerca al Polo Sud).

Più ancora di tutto, forse, a segnarmi fu la precoce presa di coscienza che il terrore è tanto più forte quanto meno è definito il suo oggetto, ovvero che «l’agghiacciante orrore a volte provocato debba attribuirsi, anche nei casi più clamorosi e nei quali fu sperimentata una vera e propria ambascia fisica, più a una paura fatta di presaga inquietudine che l’apparizione possa essere reale che non all’assoluta certezza della sua realtà». Questa sensazione è tipica dei racconti di Poe e vale qui soprattutto per la visione finale (altro ricordo indelebile), spaventosa non per il suo contenuto, ma per la sua incomprensibilità e il suo irrudicibile mistero, su cui il libro stesso magistralmente si chiude, pur avendo annunciato, in corso d’opera, che a Gordon Pym sarebbero toccate «mille avventure (…) in nove lunghi anni», di cui non sappiamo però assolutamente nulla. Se i malcapitati, a quel punto, fossero infatti sprofondati nell’abisso e riemersi nella terra cava, avremmo avuto a che fare con un Burroughs qualunque (Edgar R., non William S.), mentre è l’assoluta trascendenza dell’ignoto a spaventare e a sedurre a un tempo, ad esercitare una forza attrattiva quasi incontenibile, per quanto potenzialmente persino autodistruttiva. Ed è proprio questo genere di esperienza ciò che, sotto sotto, da allora in poi, ho sempre continuato a cercare, criterio dirimente per separare, nella letteratura fantastica, l’essenziale da ciò che invece è trascurabile.

(finito il 1 luglio 2022)

Ho parlato di


Edgar Allan Poe
Le avventure di Gordon Pym
(Rizzoli 2009)

trad. di M. Gallone

240 p. | 8 €

(ed. or.: The Narrative of A. Gordon Pym of Nantucket, 1838)

giovedì 5 giugno 2025

Il mondo sommerso

Ecco, io, per esempio, di questo libro qui non sarei più capace di ricostruire oggi la trama esatta, e senza l’aiuto di qualche sbirciatina in rete non sarei stato in grado di riprendere neppure per linee generali il capo e la coda degli eventi che vi sono narrati per darne un’idea a voialtri ipotetici miei interlocutori. Mi si potrà dire che è passato troppo tempo dalla lettura – ed effettivamente è vero; così come è vera quell’altra cosa che si potrebbe anche dire, ossia che questo libro qui appartiene a quel genere di testi la cui trama esatta non conta poi forse ricordare più di tanto, perché pensato piuttosto per essere fruito quasi come se fosse un condensato allucinogeno di frasi sintetizzate fra loro allo scopo di simulare l’effetto prodotto dall’azione prolungata di molecole di acidi sulla corteccia cerebrale del lettore, che dunque, man mano che procede nella storia, meno sembra anche capire quale direzione essa stia prendendo. Tutto ineccepibile, se non fosse che a venire a galla, in questo modo, non è altro che la mia forma naturale di praticare l’esercizio della lettura, non solo come folle rincorsa verso il finale, né tantomeno come dotto esorcismo contro la noia, bensì quale autentica attività immersiva attraverso cui esplorare virtualmente tutti quei mondi possibili preclusi alla nostra limitata esperienza fisica – proprio come accade con certi sogni, le cui atmosfere inquietanti o gioiose (per mia fortuna ho fatto esperienza d’entrambe) possono impregnarti a tal punto l’immaginario da segnarti tutta la vita, nonostante le numerose incongruenze interne e i loro clamorosi buchi di sceneggiatura, che in fondo non interessano a nessuno.

La meraviglia impagabile di questa attività così semplice è che per innescare tali viaggi può bastare anche un thriller post-apocalittico come quello di cui dovrei parlare, che è per inciso uno dei primissimi romanzi pubblicati da un giovane Ballard, all’inizio degli anni ‘60, quando, con ampio anticipo sulla transizione ecologica e persino sulla crisi petrolifera, la questione dei cambiamenti climatici che vi è sottesa non era ancora diventata il luogo comune a cui rischiamo purtroppo di assuefarci prima di essere riusciti a trovargli una soluzione in grado di salvarci. Lo scrittore inglese si immagina infatti che, in un futuro non troppo remoto, senza neanche bisogno di attendere l’effetto dell’azione autodistruttiva dell’uomo, il combinato disposto di violente tempeste solari e dell’allargamento delle fasce di Van Allen abbia determinato un generale surriscaldamento dell’atmosfera terrestre, con il conseguente scioglimento dei ghiacci polari, la liquefazione del permafrost e il progressivo innalzamento del livello del mare, fino al punto di trasformare irrimediabilmente il profilo delle terre emerse cui siamo abituati sotto l’incedere di una dilagante pantalassa e dei milioni di metri cubi di sedimenti che essa trascina con sé: in questo nuovo mondo un golfo d’America esiste sul serio, non solo nella mente di Trump, e corrisponde grosso modo alla distesa d’acqua che ha inondato le grandi pianure del Midwest, mentre quella che un tempo era stata l’Europa si è trasformata in un reticolo di gigantesche lagune tropicali. I cinque milioni di Sapiens ancora in vita si sono spinti sempre più a nord o a sud, colonizzando l’Antartide e le aree artiche di quanto resta di Russia e Canada per sfuggire al soffocamento, alla disidratazione e alle radiazioni generate in quelle saune perenni che gli antichi avevano battezzato zone torride e che solo adesso sono diventate realmente inabitabili per l’uomo. Di tanto in tanto, però – il racconto comincia all’incirca così – qualche équipe di scienziati si avventura ancora nelle aree non totalmente inospitali per effettuare incursioni e rilevamenti sui fondali dove riposano quali novelle Atlantidi le grandi metropoli della fu modernità trionfante. Ed è qui, nel bacino da cui affiorano le memorie della gloriosa Londra, che uno di questi gruppi di ricercatori si imbatte in un personaggio quanto mai ambiguo, detto Strangman, «mezzo pirata e mezzo demone», vero erede di una lunga tradizione di antieroi del mare che risale fino a Melville e Conrad, «con la sua faccia bianca e sorridente e i lineamenti crudeli che si acuminavano come frecce quando sorrideva», «lo sguardo viscido» e il volto stesso «simile a un teschio», perennemente vestito di bianco come gli scheletri in smoking del quadro di Delvaux, il cui aspetto è reso ancora più sinistro dal contrasto con la ciurma di neri deferenti che presta servizio sul suo panfilo kitsch zeppo di robaccia trafugata qua e là e spacciata per vera arte. Sarà appunto l’irrompere sulla scena di quest’uomo dalla dubbia moralità, che si circonda di giganteschi alligatori come se fossero cani da caccia, a dare improvviso e brusco movimento a una vicenda che pareva invece destinata lentamente ad assopirsi come un sole morente.

Ma, come dicevo, di queste peripezie poco ricordo. Invece, sin dalle prime righe, anche se non capita quasi niente, quel che si è impresso indelebilmente nella mia fantasia è stato lo scenario in cui si muovono i personaggi del romanzo. Se chiudo gli occhi, me lo vedo davanti. Tra i resti ancora affioranti degli edifici prosperano infatti ormai «le fronde verde cupo delle gimnosperme, residuo del triassico», e «adagiati sulle poltrone e sulle finestre di quelle che una volta erano state sale di importanti di consigli di amministrazione, i rettili avevano preso possesso della città», tornando ad essere, «dopo milioni di anni, (...) la forma di vita dominante». Con le «loro teste antiche e impassibili», le iguane riattivavano nei loro osservatori umani «arcaiche memorie delle giungle terrificanti del Paleocene», rinnovando «l’ostilità implacabile che una classe zoologica prova nei confronti di un’altra che ne ha usurpato il posto». Al posto della frenesia degli assembramenti automobilistici delle nostre tangenziali è subentrata una tersa quiete meridiana, e con essa il sovrumano silenzio degli spazi primigeni, l’indescrivibile solitudine degli oceani, ma anche «il rallentamento del metabolismo e il regresso biologico che si manifestano in tutte le forme di vita animale in procinto di affrontare importanti metamorfosi». Come in una pausa di sospensione prima di una nuova accelerazione evolutiva, suggestionata dall’umidità che aleggia perennemente su questi mari caldi analoghi a quelli del Cambriano, la coscienza dei protagonisti sembra riadattarsi a condizioni di vita preumane e, sempre più incapace di distinguere chiaramente sonno e veglia, pare a un passo dal collassare a uno stadio ancor più arcaico di quello bicamerale. «Stiamo precipitando nel nostro passato archeopsichico, riscoprendo gli antichi tabù e gli istinti primordiali rimasti sopiti per migliaia di anni. Il pensiero della brevità della singola vita umana è fuorviante. Ognuno di noi ha la stessa età dell’intero regno biologico e il nostro flusso sanguigno è immissario dell’immenso oceano della sua memoria collettiva. L’odissea uterina del feto in crescita riassume in sé l’intero passato biologico e il sistema nervoso centrale del feto è una tabella temporale codificata, in cui ogni connessione di neuroni e ogni livello spinale rappresentano stadi simbolici, un’unità di tempo neuronico».

Ecco perché, più che andare avanti con la storia, qui poco per volta si scende. L’acqua che sommerge inesorabilmente i prodotti di una storia durata appena un battito di ciglia, su scala cosmica, ci riporta infatti alla nostra origine protozoica, prefigurando il nostro riassorbimento in quello stesso accogliente liquido amniotico planetario da cui a un certo punto siamo affiorati, forse per sbaglio, convinti d’essere più che una semplice variazione sul tema, una buffa fantasia passeggera delle sempiterne piante, l’increspatura onirica che ha turbato per un attimo il perenne sonnecchiare della Terra. Trascinati «in calde profondità traslucide dove le realtà puramente nominali del tempo e dello spazio cessavano di esistere», gli ultimi uomini di cui parla il libro sembrano chiudere definitivamente il cerchio cosmologico fissato dalla Moira, esaurendo il ciclo vitale della nostra specie con larghissimo anticipo rispetto a una sua eventuale migrazione interplanetaria. Qualcuno comincia a capire che resistere non ha più senso. Al più lucido, che però vuol dire anche il più folle, fra loro non resta che imbarcarsi in una apparentemente insensata «odissea verso sud», attratto da un atavico e inspiegabile richiamo primordiale, «come un sognatore alla disperata ricerca di una porta che lo conducesse fuori dal suo incubo». Tutto ciò che siamo stati verrà digerito, assimilato e riutilizzato. Ci vorrà il suo tempo – ma all’universo, a differenza che per noi, questo non manca.

(finito il 16 giugno 2022)

Ho parlato di


J.G. Ballard
Il mondo sommerso
(Feltrinelli 2005)

trad. di S. Massaron

200 pp. | 7,50 €

(ed. or.: The Drowned World, 1962)