venerdì 31 ottobre 2025

Paradiso perduto

Meno male che, quando mi propongo di cominciare un nuovo libro, l’ultima cosa a cui penso è cosa ne dirò, quando l’avrò terminato e sarà arrivato il momento di scrivere queste mie consuete tre(nta) righe, perché, se così fosse, rischierei di privarmi preventivamente del gusto di leggere un qualsiasi monumento della letteratura universale solo per la paura di ritrovarmi a bofonchiare a fine corsa qualcosa di altrettanto insulso quanto definire carine le piramidi d’Egitto (secondo un’antica spernacchiata battiatesca, emessa peraltro in tempi in cui non c’era ancora l’abitudine di recensire senza ritegno tutto ciò che ci capitava a tiro). Fra queste pietre miliari che sono felice d’aver attraversato dalla prima all’ultima pagina – sebbene la lettura integrale serva più che altro a giustificare quella cursoria che si può fare poi, senza sensi di colpa, di lì in avanti, con calma – rientra da poco anche il Paradiso perduto, il cui valore sono in grado di misurare già solo dal fatto che sia riuscito comunque a coinvolgermi, nonostante l’abbia letto (per limite mio) in una tradizione che per forza di cose è già quasi una parafrasi, e dunque deprivato della potenza originale della parola poetica che in opere come queste non può mai essere dissociata dal suo contenuto, peraltro in modo curiosamente non molto dissimile da quel che accadde quando mi accostai per la prima volta all’Inferno dantesco, divorandone l’adattamento in prosa moderna pubblicato a margine delle terzine nella serie di fascicoli allegati a Famiglia Cristiana a inizio anni ‘90 e fatti poi rilegare artigianalmente dai mie nonni in un volume che finivo quasi sempre per sfogliare quando, all’altezza delle medie, andavo a trovarli a casa loro. Tale è, in effetti, il fulgore del genio da raggiungerti con un raggio della sua luce anche quando lo maltratti in questo modo.

Certo, per i miei gusti, ogni volta che Milton mette in versi delle scene ricalcate più o meno direttamente sulla Scrittura, apprezzo ancora di più la sobrietà primitiva del testo biblico, ma dove si sbizzarrisce a riempirne i vuoti, molte sue invenzioni risultano senz’altro seducenti. Il problema, semmai – ma è un problema più teologico che artistico, e letterariamente ha poco senso porselo, perché è proprio in quello che sta la sfida – è se ci fosse davvero bisogno di colmarli, quei vuoti. Oppure, più in generale, se la forma dell’epica classica sia davvero quella migliore per trattare una materia che in realtà ne rovescia programmaticamente canoni e regole, al punto che, se vi viene poi ricondotta a forza, produce distorsioni concettuali, fraintendimenti e pure effetti involontariamente comici, come le lunghe tirate che l’Onnipotente intrattiene tra due delle sue persone, come se fosse il re delle fiabe di fronte al suo accondiscendente specchio magico, o la goffaggine degli angeli custodi, che dovrebbero sorvegliare l’Eden ma si fanno maldestramente infinocchiare da Satana come marmittoni da quattro soldi, o ancora l’intera sequenza della demonomachia, con quel dispiegamento di artiglieria celeste che sembra tirato fuori da uno di quei saggi secondo cui la Bibbia non parlerebbe di Dio ma di scontri fra potenze extraterrestri impegnate a contendersi la Terra (azzardo anzi una proposta genealogica, secondo cui potrebbero discendere in qualche modo anche di qui, alla lontana, non solo certe bislacche interpretazioni fantarcheologiche, ma pure alcuni significativi sviluppi del moderno immaginario pop giù giù fino a Neon Genesis Evangelion: d’altra parte, intorno alla cattedra di Lucifero, tra i seggi del Pandemonium, spiccano quelli di Dagon e del Demogorgone).

E tuttavia va pur detto che, almeno in parte, la rappresentazione dell’ostinatissimo attacco condotto dal Maligno contro il benevolo piano divino - anche per questo indugiare su tutte le ingegnose macchinazioni con cui viene continuamente rilanciato e continuamente vanificato – mi pare ammantata da un velo di ironia, tale per cui l’epos stesso, così serioso per natura, prende insospettabilmente una piega tragicomica. Tutta la prosopopea con cui l’Angelo caduto si proclama Principe dei ribelli, rivendicando quale titolo d’onore «il coraggio | di non sottomettersi mai, di non cedere», condensato in un celebre principio - «meglio regnare all’inferno che servire in cielo» - tanto caro a certi romantici e a tutti quelli che, prima e dopo, hanno cercato di rivestire di cupa solennità il loro risentimento contro la vita, per nobilitarlo, non è tanto diversa dalla coreografica ma in fondo velleitaria messinscena architettata dai diavoli asserragliatisi nella città di Dite, per disperdere i quali, al disdegnoso messo celeste giunto in soccorso di Dante e Virgilio, basta appena appena un colpo di verghetta sul portone. La grandezza tragica del presunto eroe che non rinuncia alla lotta, pur sapendosi sconfitto in partenza, si rivela, a conti fatti, per quel che davvero è: una pervicacia ottusa, per quanto carica di dolorosissime conseguenze (tanto più dolorose quanto più le si riconosce insensate, inutili, vane), propria di chi si incaponisce nel male perché non sa apprezzare il bene che sarebbe sempre stato lì a portata di mano. Davvero: ma ne vale la pena? Eppure quanti ce n’è in giro, di questi meschini figli delle tenebre i cui loschi maneggi moltiplicano la sofferenza da cui essi stessi sono tormentati, rovesciandola ottusamente sugli altri, senza che questo plachi in alcun modo il loro dolore: «perchè dovunque fugga – osserva Satana, in un raro momento di malinconica autoconsapevolezza – è sempre inferno: sono io l’inferno». Così, quando il «grande Condottiero» ridiscende nell’abisso delle tenebre per decantare la sua impresa, l’aver cioè sedotto gli imbelli progenitori con l’inganno della cadrega e aver suscitato in questo modo l’offesa spropositata di un Dio che s’atteggia a magnanimo ma è in realtà un permalosone, anziché l’applauso dei dannati lo accoglie «un atroce | sibilo universale, il suono del pubblico scherno»; egli stesso, un tempo splendente di gloria, si contrae e si affusola assumendo d’ora in poi per l’eternità la forma infame nella quale ha peccato e indotto a peccare, insieme a tutti i suoi compagni, trasformati anch’essi orrendamente in «mostri avviluppati, teste e code, | anfisbene orribili, scorpioni, aspidi e idre, | e ceraste cornute, eliopi orrende e dipsadi». A questo miserevole squallore si riducono infatti i dominatori di questo mondo, quando li spogli di onori, titoli, denari – anche se ci vuole una gran fede, a crederlo, finché li vedi gigioneggiare tronfi sui loro troni a rivendicare il premio Nobel per la pace.

Magra consolazione, quella d’aver macchiato la creazione del Signore, dimostrandone l’apparente inefficienza nel momento in cui hanno scostato il collo da ciò che percepivano come il morso inaccettabile dell’obbedienza – tentazione che conosco bene perché (qualcuno potrebbe sorprendersi) ci son passato anch’io, quando, senza capire, non tolleravo l’idea che il mio percorso di potenziale bene potesse essere già tracciato da qualcun altro (“sarò il tuo Vietnam” arrivai a scrivere, apostrofando l’Altissimo, nel bel mezzo di un intenso combattimento interiore trasformato in una confessione segreta custodita fra le mie carte). «E se per me tutto il bene è perduto, | male sii tu il mio bene; se non altro, | grazie a te questo impero diviso posso reggerlo | insieme al Re del cielo, e governarlo forse | per più della metà» - «e se non è vittoria è pur sempre vendetta». Ma neppure questo progetto riesce davvero a quei poveri diavoli. La loro ribellione testimonia una ribalderia della creazione che si trasmette fino all’uomo, suo capolavoro, e che è espressione di una libertà ontologica di fronte alla quale Dio può manifestarsi non come il Fondamento che garantisce l’ordine dell’Essere, ma come l’Eccedente capace di riscattarne il costitutivo disordine. Questa mi sembra la morale della favola di Adamo ed Eva: la storia dell’umanità quale si manifesta in visione al primo patriarca dopo il peccato sarà pure un concentrato di scelte sbagliate, di violenza e di sofferenza, ma chi pensa di mettere nel sacco il Creatore corrompendo ciò che è uscito dalle sue mani si ritrova inevitabilmente messo sotto scacco dalla sua incontenibile potenza di trasformare sempre il male in bene, anche quando disperi che sia possibile e ti verrebbe voglia di annichilire tutto. La possibilità di vivere questa esperienza, spalancatasi infine ai progenitori, quando «la mano nella mano, | per la pianura dell’Eden, a passi lenti e incerti | presero il loro cammino solitario (their solitary way: così si conclude il poema)», è l’unico paradiso, sempre davanti a noi e mai alle spalle, che vale la pena desiderare.

(finito l'11 agosto 2022)

Ho parlato di


John Milton
Paradiso perduto
(Mondadori 2016)

LXVI+823 pp. | 14 €

trad. e cura di R. Sanesi

(ed. or.: Paradise Lost, 1667)

lunedì 6 ottobre 2025

Lo specchio delle nostre miserie

Atto conclusivo di una trilogia sulla Francia tra le due guerre inaugurata da un libro che trovai straordinario e proseguita con un secondo capitolo che non so perché ho invece stranamente ignorato - ma per fortuna non così strettamente collegato ai precedenti da risultare inesplicabile, se preso a sé - questo volume appare sin dal primo sguardo chiaramente imparentato con quel genere di narrazioni alla Jonathan Coe in cui le storie di personaggi diversissimi, che in un primo momento scorrono parallele e senza apparenti punti di contatto l’una con l’altra, finiscono poi tutte per convergere, incontrarsi e trasformarsi reciprocamente sotto l’impulso di un concentrato di forze imponderabili e spesso improbabili a cui, per esigenze di sintesi, diamo il nome di “vita”; al tempo stesso, però, vi si può scorgere anche una traccia della medesima, paradossale, intuizione fenogliana di focalizzare l’attenzione su questioni privatissime per fare in realtà dello sfondo da cui esse emergono il vero, pervasivo, onnipresente protagonista della vicenda, con un afflato epico che, complice l’ambientazione in gran parte on the road – pardon, sur la route – ricorda pure qualcosa del Furore di Steinbeck. Per l’attenzione riservata a figure provenienti da un certo sottobosco popolare parigino e in parte inghiottite nel buco nero della guerra senza lasciare troppi segni del loro transito terrestre ci vedo anche echi di Modiano e forse persino di Céline (sia pure ripulito e denichilizzato, quindi in fondo decélinizzato), ma qui corro davvero il rischio di farmi prendere un po’ troppo la mano con le analogie e andare fuori strada. Poiché, comunque, Lemaitre è un meraviglioso affabulatore, mosso da una spiccata curiosità per il non detto acquattato tra le note a pié di pagina della Grande Storia, il risultato complessivo, anche se non del tutto originale, è senza dubbio unico. Ci si diverte, ci si commuove, si ha da pensare e si imparano pure un sacco di cose nuove: cosa volete di più?

Lo sfondo, dicevo. Quello che per noi italiani sono stati Caporetto o l’8 settembre, per i francesi si riassume nella disfatta subita ad opera dei nazisti tra il maggio e il giugno del 1940, quando la “strana guerra” dichiarata da nove mesi, ma praticamente fino a quel punto mai combattuta, comincia per davvero e un intero paese, prima ancora di essere sconfitto sul campo, collassa improvvisamente su se stesso per non averci mai davvero neppure creduto, all’ipotesi di una vittoria, in parte atterrito, in parte ammaliato dalla rinnovata baldanza del tradizionale nemico tedesco. Così, quando si diffonde la notizia che le armate avversarie stanno puntando con decisione verso Parigi, anziché allestire come nel ‘14 la staffetta dei taxi per sbarrare loro il passo sulla Marna, dalla capitale comincia un caotico fuggi fuggi verso la parte opposta, lungo strade che, non essendo neanche lontanamente paragonabili a quelle di oggi, si intasano subito, invase da «centinaia di uomini, donne, bambini, vecchi, che camminavano nella stessa direzione, una parata interminabile di volti concentrati, sgomenti, spaventati», accomunati dalla medesima «aria di naufragio e di rinuncia». «La macchina sobbalzava lentamente in quel flusso di fuggiaschi che era l’immagine di un paese in ginocchio. Volti, volti ovunque. Un immenso corteo funebre (…), diventato l’agghiacciante specchio delle nostre miserie e delle nostre sconfitte». Tutta la debordante grandeure di chi aveva eretto Versailles e assaltato la Bastiglia, e godeva a pari titolo dell’uno e dell’altro momento del proprio passato, si sgonfia desolatamente di fronte a quella che appare in quel momento l’ineluttabile avanzata di una diversa forma di modernità, scandita dal passo dell’oca. Come spesso accade, un simile scenario apocalittico in molti risveglia «gli istinti più bassi, gli egoismi più neri, gli interessi più avidi» (i bravi contadini di Francia, per esempio, se accolgono con relativa benevolenza i primi fuggiaschi che sostano in mezzo ai loro campi, dal secondo o terzo giorno iniziano a imporre tariffe per consentire l’accesso ai pozzi, contenti di lucrare qualche spicciolo sulla rovina nazionale); in altri, tuttavia, suscita «il desiderio di aiutare, di amare, ha imposto il dovere della solidarietà». È questa la «scelta di campo» richiesta dai momenti difficili – che sono poi anche i nostri, dove la solidarietà appare un delitto a quanti considerano più sconcertante scendere in piazza per denunciare un genocidio che il genocidio stesso: «stare tra quelli che si chiudono in se stessi, che sbarrano porta e cuore ai poveri e agli indifesi che si rivolgono a loro, oppure tra quelli che spalancano le braccia, non malgrado le difficoltà, ma grazie alle difficoltà?».

In modi diversi, questa domanda se la devono porre tutti gli attori chiamati sulla scena, ciascuno con il suo concentrato di delusioni personali travolte, ma non cancellate, da questi eventi enormemente più grandi di loro. Come Louise, una giovane (ma non più così giovane) donna senza marito e senza figli che vive questa sua maternità mancata come un’umiliazione e che, da un momento all’altro, scopre in modo abbastanza traumatico che la madre apatica con cui aveva vissuto, morta un giorno qualunque senza neanche salutare, dopo anni di sconsolata depressione, nascondeva una sofferenza e un vissuto segreto da cui emerge una personalità totalmente diversa da quella che lei stessa le aveva sempre attribuito, per comprendere davvero la quale si mette in cerca di chi conosce pezzi di quel suo inimmaginabile passato. O come Raoul, una canaglia sempre in grado di tirare fuori dal taschino, persino in tempi di penuria, un’ultima sigaretta da offrire al tapino che sta per circuire coinvolgendolo in qualche sporco raggiro, senza rinunciare alla violenza e all’intimidazione se questi si defila, anche quando si tratta di sottrarre risorse dalle caserme assiepate lungo la linea Maginot e allestire un redditizio mercato nero a spese dell’esercito, e che, nel bel mezzo di quello «scenario da fine del mondo», per odio verso la vita, i potenti, le madri ed i padri, «si sentiva a suo agio come a una festa di paese». O ancora come Fernand, un agente della guardia nazionale in crisi di fede, rimasto tuttavia a Parigi, nonostante la catastrofe incombente, trattenutovi dal suo altissimo senso del dovere, per lo meno fino al momento in cui trova inaspettatamente il modo di mettere le mani su una valigia piena di denaro della banca nazionale destinato al rogo perché non finisca nelle tasche naziste e si immagina di poterlo impiegare per pagare finalmente il viaggio della vita in Persia all’amatissima moglie Alice, dando un giro di vite a un matrimonio riuscito, sì, ma – anche per loro – non benedetto da figli. Di tutti costoro seguiremo peripezie, cadute, momenti di gloria e, forse, per qualcuno, persino una forma di riscatto.

Ma il più affascinante di tutti è senza dubbio monsieur Désiré Migault, un professionista del trasformismo, a cui la confusione provocata dalla guerra e la fortuna di vivere in un mondo ancora analogico offrono infinite possibilità di applicare il suo talento nell’assumere vite diverse, cucendosele addosso con un tale, meravigliosa, disinvoltura da risultare tutte le volte credibile, almeno fino a quando qualcuno di quelli che gli girano intorno, per scrupolo, curiosità o semplice puntiglio si avvicina a scoprire la verità, inducendolo a sparire dai radar e a ricomparire altrove sotto nuove sembianze. Quando lo incontriamo per la prima volta indossa la toga d’avvocato ed è impegnato, in un’aula del tribunale di Rouen, nell’arringa difensiva di una giovane ragazza accusata di omicidio, ma prima di questa performance – ci viene detto – era già stato professore anticonvenzionale nella classe unica di Rivaret-en-Puisaye, pilota all’aeroclub di Évreux, chirugo per due mesi all’ospedale Saint-Louis di Yvernon-sur-Saone, tutto sempre per pochi mesi, tempo comunque sufficiente per lasciare un ricordo indelebile in chi ha avuto l’occasione di conoscerlo. Anche la sua carriera forense non dura molto: subito prima di vincere la causa, il presidente dell’ordine gli fa notare che non si trovano gli estremi della sua laurea; lui passa un momento in toilette e da quel momento non si farà più vedere, ma intanto l’ignara corte pronuncia l’assoluzione della sua assistita, e poiché «mettere in discussione la sentenza avrebbe significato riconoscere che il meccanismo giudiziario aveva lasciato che un falso avvocato esercitasse impunemente», semplicemente si fa finta di niente e non se ne parla più. Perché lo fa? E chi lo sa? Forse per sberleffo, iconoclastia, per una forma d’arte o forse solo per puro divertimento.

Un uomo come lui non può che dare il meglio di sé al Ministero della Propaganda, dove viene arruolato perché millanta indimostrabili competenze in lingue e culture orientali di cui nessuno sa nulla e che lui, semplicemente, si inventa sul momento, suscitando il plauso ammirato di chi accetta come autentico khmer quello che è solo un grammelot improvvisato. È lui a suggerire di scrivere nei comunicati ufficiali che i tedeschi non “avanzano”, ma “si spostano in avanti”, che i francesi non “arretrano”, ma “si spostano indietro”. Consapevole che «non esiste niente di più verosimile della parola ufficiosa», scrive convincentissimi testi radiofonici in cui inventa false domande di falsi cittadini e false risposte di falsi politici e militari anonimi, con la stessa facilità con cui oggi si costruiscono profili fake sui social allo scopo di solleticare l’istinto gregario della specie e raggrumare l’opinione pubblica sulle posizioni considerate più vantaggiose per il governo. Désiré qui si sente davvero a casa, ma è naturale che nel paradiso della falsificazione qualcuno fiuti l’imbroglio e lo costringa ad abbandonare la nave un attimo prima di essere smascherato. Poco male. Nei pressi di Arneville, si imbatte nel cadavere di un sacerdote freddato da una scarica di proiettili e non ci pensa due volte: si infila la tonaca, si accoda alla fiumana che abbandona Parigi e «nel giro di un chilometro, era già prete». A quelli che avrebbe incontrato racconterà, mostrando il foro nella veste, di essere stato salvato dalla proverbiale Bibbia nel taschino. «Quella frottola, un’autentica sfida alle leggi della fisica, non stupiva nessuno perché tutti volevano crederci». Con queste credenziali di presunta santità, l’uomo che si fa ora chiamare padre Désiré riesce dal nulla ad allestire una specie di centro di accoglienza per rifugiati e profughi, dove ci si arrabatta come si può, ma si offre un autentico lumicino di speranza a chi si sta smarrendo nella notte. Manca solo il miracolo, o forse il miracolo è che, pur essendo tutta una finzione, clamorosamente funziona, come se in quel rinnovato esodo si fosse manifestata davvero la presenza di Dio nella sua nube. Il nostro eroe immerge le mani nei liquami per riparare delle tubature con la stessa scioltezza con cui le eleva al cielo mentre celebra liturgie totalmente inventate in falso latino, spacciandole per un fantomatico “rito ignaziano”, ma la sua attività preferita è la confessione, poiché trova «affascinante constatare quanti peccati si potessero attribuire quegli esseri che in realtà erano solo delle vittime». Per tutti loro «aveva l’assoluzione facile e generosa»: in fondo - sembra dirci - siamo tutti prigionieri delle storie che ci raccontiamo, siamo chi ci convinciamo di essere o ci convincono di essere. Ma se questo impulso ci spinge ad arrenderci prematuramente quando pensiamo di non essere all’altezza della situazione, per lo stesso motivo potremmo essere in grado di realizzare autentiche meraviglie, se solo pensassimo di poterlo fare. Perché, allora, non credere che qualcosa di buono sia possibile e, se proprio siamo obbligati a guardarci riflessi in uno specchio deformato, non prendere per valida l’immagine migliore di noi stessi, anziché accettare come normale di essere tutti cinici, avidi e cattivi, continuando a grufolare con un certo compiacimento nell’infamia?

(finito il 9 agosto 2022)

Ho parlato di


Pierre Lemaitre
Lo specchio delle nostre miserie
(Mondadori 2020)

504 pp. | 20 €

trad. di E. Cappellini

(ed. or.: Miroir de nos peines, Paris 2020)

venerdì 12 settembre 2025

Il problema della guerra e le vie della pace

Leggere questo classicissimo saggio di Bobbio sulla guerra (ma forse leggere Bobbio in generale) è come addentrarsi in un fitto reticolo di considerazioni, distinzioni, precisazioni, obiezioni e puntualizzazioni paragonabile per certi aspetti al tipico questionare delle grandi opere scolastiche medievali, con la sostanziale differenza che mentre in quel caso ti sembra di incedere processionalmente lungo la navata di un’altissima cattedrale del pensiero in cui hai la sensazione che ogni cosa del mondo sia stata collocata, come pietra su pietra, al giusto suo posto stabilito per lei dal Creatore, qui invece pare di aggirarsi in un tortuoso e tetro labirinto, dove si aprono continuamente nuovi varchi anche nei punti in cui ti era parso di essere già passato prima e non avevi visto nulla (prova ne siano le diverse prefazioni via via anteposte al testo originale ad ogni nuova edizione, perché dal Vietnam al primo Iraq alla ex-Jugoslavia gli scenari sono cambiati vorticosamente, costringendo di volta in volta a un surplus di riflessione) e non è neppure così certo che vi sia poi, davvero, da qualche parte, una via d’uscita, che però, al tempo stesso, è assolutamente indispensabile trovare, perché l’alternativa coincide con la distruzione stessa del mondo. É vero che, in questa battaglia, il nostro solo nemico è «l’irrazionalità», osserva a un certo punto il filosofo torinese. «Ma è un nemico vincibile?».

Anche se appare tutt’altro che rassicurante, l’immagine del labirinto una lezione quantomeno la offre, secondo Bobbio, ed è – come nei ragionamenti per assurdo – quella della «strada bloccata». Per lui, infatti, ha pressoché il valore di un assioma morale l’affermazione secondo cui l’invenzione della bomba termonucleare ha reso la guerra una soluzione non più percorribile per fronteggiare quei problemi che in passato si erano invece affrontati ricorrendo con sin troppa disinvoltura alle armi; da ciò discende perciò l’obbligo di impegnarsi una volta per tutte nella ricerca di altre strategie per la gestione del conflitto. Va detto che non tutti concorderebbero con tale assunto. Non i nichilisti metafisici né i mistici, per esempio, che nella fine del mondo vedono anzi una liberazione dalle catene della banalità quotidiana o una meritoria punizione divina, e con loro in genere tutti quegli insopportabili fanatici di qualsiasi fede, sempre così compiaciuti di poter spargere fiumi di prosa sublime a sostegno del principio infantile per cui la catastrofe generale sarebbe preferibile all’instaurarsi di un ordine non di loro pieno gradimento. Assai più temibili, per Bobbio, perché più numerosi, sono tuttavia coloro che, pur accettando la sua stessa premessa, ne traggono una conseguenza che la ribalta completamente di senso, in quanto affermano che sarebbero proprio gli effetti potenzialmente devastanti dell’atomica a renderla, di fatto, uno strumento inutilizzabile e a garantire perciò quella condizione di “equilibrio del terrore” - quando tutti sanno di avere reciprocamente l’arma definitiva puntata gli uni sugli altri, ma nessuno ha il coraggio di premere per primo il grilletto - che forse è l’unico surrogato di pace cui l’umanità possa ambire. Ma a parte il fatto che riporre tutte le proprie speranze di pace sulla consapevolezza degli effetti di un possibile olocausto nucleare non è meno ingenuo che ritenere «il vizio del fumo destinato a scomparire per il solo fatto che sono state denunciate le sue nocive conseguenze», un tale argomento iperottimistico, in base a cui i grandi mali dell’umanità sarebbero propedeutici a beni ancora più grandi, si limita a congetturare non già la fine di tutte le guerre, bensì solo la sospensione di un particolare tipo di guerra - quella nucleare, appunto – configurandosi pertanto come «una teoria della continuazione dello stato di tregua», basata in ultima analisi proprio sulla permanente possibilità della guerra stessa, disseminata magari in tante piccole guerricciole (che però comportano comunque morte, rovina e distruzione), ed incapace per questo di contenere davvero il rischio che una minima variazione degli stati di forza possa indurre qualcuno a riaprire anche le ostilità maggiori sperando di fare in questo modo l’all-in. Il tuono di Hiroshima avrebbe dovuto invece svegliarci dal nostro rassegnato sonno dogmatico e farci assumere la fine della guerra non già semplicemente come un “fatto” (peraltro, tutt’altro che confermato dall’esperienza), bensì come un obiettivo. Bobbio definisce «coscienza atomica» una tale presa di consapevolezza e denuncia senza mezzi termini come un puro «ozio sterile» ogni filosofia che oggi non si ponga come proposito prioritario quello di suscitarla e difenderla con fondate ragioni.

Chi ha maturato una simile “coscienza atomica” lavora anzitutto per dimostrare che la guerra nucleare, spezzando ogni possibile proporzionalità tra mezzi e scopi, ha dato il colpo di grazia definitivo a qualsiasi teoria della guerra “giusta” (fermo restando, comunque, che, anche in regime di armi convenzionali, impiegare concetti di derivazione giuridica per interpretare gli eventi storici è quantomai sospetto, dato che le sentenze sono sempre emesse da una delle parti in causa, che dopo aver vinto sul campo si affretta a rivestire di copertura legale la propria vittoria). Il punto è che, di fronte alla guerra atomica, che per definizione non può essere limitata, «il diritto», ovvero l’esercizio stesso del limitare, «è impotente». Contro i progetti, per certi aspetti anche meritori, se inquadrati storicamente, di regolamentare la pura forza abbiamo ormai sufficienti strumenti per avviare una volta per tutti una decisiva “critica della ragione bellica” (come afferma in modo ancora più deciso un libro in uscita proprio in questi giorni) che li mostri per quello che realmente sono: non un deterrente per impedire la guerra, ma un espediente per continuare a farla convincendosi di avere la coscienza a posto.

Tale denuncia rischia però di restare puramente velleitaria se non è accompagnata dallo sforzo di indicare delle vie possibili per garantire la pace – e in questo senso si tratterà allora di elaborare anche una corrispettiva “critica della ragione pacifista”, per sottrarre il pacifismo ai sogni delle anime belle e ancorarlo al campo delle possibilità concrete. Anche il puro e semplice richiamo alla pace, infatti, ha le sue ambiguità. «Non è forse vero che l’impotenza dell’uomo mite finisce per favorire il prepotente?», si potrebbe dire. E non è a suo modo uno sberluccicante scenario di pace l’osceno resort immaginato da Trump sulle rovina di una Gaza epurata dalla presenza di tutti i palestinesi che attualmente vi abitano? Ancora: non ha qualcosa di perverso invocare la pace, quando si vive nel benessere e, per paura di perdere i propri privilegi e pagare dieci euro in più di bolletta o di benzina, si contestano come facinorosi quanti lottano per ottenere ciò che noi oggi riteniamo come diritto di nascita solo perché altri, in passato, hanno lottato perché lo potessimo avere senza colpo ferire? Ahimé, «l’arma totale è arrivata troppo presto» non solo «per la rozzezza dei nostri costumi, per la superficialità dei nostri giudizi morali, per la smodatezza delle nostre ambizioni», ma anche «per l’enormità delle ingiustizie di cui la maggior parte dell’umanità soffre non avendo altra scelta che la violenza o l’oppressione». Possiamo accettare, per evitare l’apocalisse, l’immobilità di uno status quo che condanna milioni di persone a una condizione di subalternità e di miseria?

Posto che per un pacifista la pace è certamente un «bene altamente desiderabile, tanto desiderabile che ogni sforzo per raggiungerla è considerato degno di essere perseguito», ciò non significa, però, che essa sia per lui un «bene assoluto. Errano coloro che attribuiscono ai pacifisti l’idea che la pace sia per essi un bene assoluto, e con questa interpretazione se ne fanno un facile bersaglio. I pacifisti in genere non ritengono affatto che la pace da sola serva a risolvere tutti i problemi che travagliano l’umanità; ritengono in genere che la pace sia sì un bene necessario ma non anche sufficiente, e tutt’al più sia un bene prioritario». La pace, infatti, è solo «la condizione preliminare per la realizzazione di una libera convivenza»; in caso contrario, ci si potrebbe accontentare anche della quiete totalitaria imposta da un dispotico Leviatano. Bobbio ritiene che l’unica soluzione realistica per soddisfare le nostre esigenze di pace e giustizia sia una forma di pacifismo istituzionale, ispirato da Kant, consistente nel creare e implementare istituzioni internazionali che impediscano non solo lo scoppio di conflitti militari, ma anche l’insorgere di conflitti sociali la cui soluzione è sempre stata fin qui la violenza. Anche spogliato di tutti i fronzoli hippie, resta pur sempre un intento estremamente ambizioso e problematico. Eppure «qualche volta è accaduto che un granello di sabbia sollevato dal vento abbia fermato una macchina. Anche se ci fosse un miliardesimo di miliardesimo di probabilità che il granello, sollevato dal vento, vada a finire nel più delicato degli ingranaggi per arrestarne il movimento, la macchina che stiamo costruendo è troppo mostruosa perché non valga la pena di sfidare il destino».

(finito il 25 luglio 2022)

Ho parlato di


Norberto Bobbio
Il problema della guerra e le vie della pace
(Il Mulino 2009)

168 pp. | 12 €


sabato 23 agosto 2025

La guerra

Tanti anni fa, più o meno all’inizio del mio percorso da studente universitario, lessi il libretto di Maurizio Ferraris proposto in questa stessa invitante collana denominata “Biblioteca essenziale”, sperando che in poche parole mi spiegasse (proprio nel senso di erklären) che cosa mai fosse l’ermeneutica, e ne uscii invece con le idee ancora più confuse di prima, non tanto per la difficoltà dell’argomento in sé, quanto perché, - ma lo scoprii solo dopo -, quel testo un po’ subdolamente presentato come riassunto dello status quaestionis segnava invece l’avvio di una presa di distanza intellettuale verso quella pratica filosofica da parte di un pensatore che dell’ermeneutica aveva anche scritto un’importante storia, ma ora sottoponeva a critica caustica ciò che avrebbe dovuto introdurre, lasciando frastornato chi, come il sottoscritto, doveva ancora capire bene che cosa fosse ciò che lo si invitava caldamente ad abbandonare, con l’argomento principe secondo cui la celebre espressione niciana “non esistono fatti, solo interpretazioni” risulterebbe immediatamente fallace ad ogni uomo di buon senso se la si trasformasse in “non esistono gatti, solo interpretazioni”. Nonostante questa piccola delusione, a distanza di molto tempo, sono tornato a riporre le mie speranze in un testo di quella stessa serie, confidando che l’illustre accademico di turno mi aiutasse questa volta a capire che cosa mai fosse la guerra - e non è che sia andata molto meglio.

Forse sono io, o forse è un rischio congenito in tutte le opere che provano a fare il punto su questioni molto complesse e che, proprio per questo, contrariamente a quanto ci si aspetterebbe e al motivo per cui sono state scritte, finiscono per essere più utili a chi le cose un po’ già le sa e riesce perciò a capire anche solo da sfumature o variazioni d’accento dove si indirizza davvero il discorso, a differenza di chi invece ne sa poco o niente ed è lì per imparare tutto quel che c’è da sapere. Va detto, a mia parziale discolpa, che di un possibile «risultato deludente», sia pure in forma interrogativa, rispetto al nocciolo della questione, parla lo stesso Bonanate, persino dopo tre densissimi capitoli e un centinaio di pagine di analisi, citazioni, confronti storici e l’articolazione di un dettagliato “catalogo delle guerre” che fa spavento, perché una tale vastissima fenomenologia (la guerra può infatti essere internazionale o civile, diadica o coalizionale, partigiana, regolare o irregolare, convenzionale o non-convenzionale, di movimento, di posizione, aerea, marina, terrestre, “stellare”, di liberazione, dinastica, di religione, rivoluzionaria o di difesa, eccetera eccetera) lascia pensare che l’inventiva umana non abbia davvero mancato di esplorare nessuna possibilità di questa sua specifica perversione, come se si trattasse di un immenso repertorio del fetish più estremo. D’altra parte, più la casistica è ricca, più è facile che si trasformi in puro fumo negli occhi, come quando si discetta sul fatto che a Gaza la gente, sì, mangia pochissimo e muore tantissimo, ma che non si parli, per carità, di “carestia” o di “genocidio”, perché la storia – in questo davvero cattiva maestra – ci presenta esempi ben peggiori che in quest’occasione non sarebbero (ancora) stati raggiunti. Ci sarebbe pure da rallegrarsi, se dopo millenni di assuefazione alla violenza, oggi provassimo un sincero ribrezzo anche solo a pronunciare le parole della pura forza, perché potrebbe essere indizio che la nostra specie starebbe costruendosi un nuovo e meritevole tabù; magari in parte è anche così, ma la conseguenza più immediata, per ora, è che uomini indegni si appellano ai cavilli per giustificare il mancato rispetto di quegli impegni condivisi che con estrema fatica siamo comunque riusciti ad assumerci dopo i grandi cataclismi novecenteschi (vale anche per noi italiani, che per Costituzione dovremmo ripudiare la guerra e dobbiamo perciò preoccuparci sempre di sottolineare che i nostri militari in giro per il mondo sono lì semplicemente a “portare la pace”). I discorsi, insomma, sono ingannevoli. Bonanate osserva a un certo punto che, sia pure paradossalmente, la politica internazionale della seconda metà del XX secolo, si sarebbe progressivamente pacificata, «ponendo tuttavia la guerra al centro della sua realtà». Quando c’era la guerra fredda, il mondo sarebbe cioè stato più in pace di quanto lo sia ora, in un’epoca in cui nessuno vuole più nominare la parola “guerra”.

Ho usato il condizionale, perché queste comparazioni mi sembrano sempre parecchio azzardate, ma assumono un senso – mi pare – se ci si pone dal punto di vista adottato dall’autore, che è quello di un docente di relazioni internazionali (disciplina nata anche per provare a dare una risposta secolare all’antica questione teologica dell’origine del male). Se ho capito bene, il perno del suo ragionamento è la tesi secondo cui «ciò che accomuna tutte le guerre è che esse sono combattute non per se stesse, ma per il loro fine, ovvero per la determinazione di una regolamentazione autoritativa dei rapporti tra stati». Si può dunque concordare con von Clausewitz quando sostiene che la guerra è sempre uno strumento della politica e che, appunto per questo, ha una propria grammatica, ma non una logica propria. Checché ne possano pensare tutti coloro che, da Omero a Junger, in forme diverse, l’hanno cantata come un’esperienza essenziale della natura umana, «pur essendo l’evento più drammaticamente coinvolgente grave e doloroso tra tutti quelli a cui l’umanità possa dare vita, la guerra non è la regolatrice massima ed estrema delle sorti del mondo e resta tributaria e ancella della politica, alla quale, comunque e sempre, dovremo guardare per trovare la guerra». Nella fattispecie – continua l’argomentazione – «una nuova guerra scoppierà (cioè, è scoppiata) ogni qual volta la struttura di dominio internazionale esistente si sarà sgretolata (sotto i colpi di forze emergenti contestatrici, della volontà di sopraffazione di una potenza su un’altra, ecc.). Diremo, in termini quasi paradossali, ma tutt’altro che insensati, che la guerra serve a realizzare la pace. Quest’ultima sarà infatti raggiunta quando il vincitore avrà plasmato l’ordine internazionale secondo le sue intenzioni – ecco che la tradizionale concezione della pace come intervallo tra due guerre perde la sua apparente solidità: la guerra è lo strumento della pace».

Questo libro uscì in prima battuta nella seconda metà degli anni ‘90, in quel battito di ciglia durante il quale qualcuno pensò che, dopo il cedimento strutturale di una delle due superpotenze e del suo impero, le guerre sarebbero state un fenomeno sempre più residuale e minoritario. Bonanate sentì tuttavia l’esigenza di riprenderlo in mano e aggiornarlo all’inizio del nuovo Millennio, perché, nonostante continuasse a provare buone sensazioni («se si confronta l’età attuale con qualunque altro periodo della storia internazionale degli ultimi cinque secoli, si può facilmente verificare che il mondo non è mai stato altrettanto poco in guerra come in questi ultimissimi anni»), l’attacco alle Twin Towers aveva introdotto una novità assoluta che sembrava capace di rimescolare totalmente il mazzo delle possibilità e vanificare ogni scenario idilliaco, «con un colpo di coda, tipico di fenomeni immensi e incontrollabili tra i quali siede certo la guerra». In particolare, in quel primo scorcio di secolo (che per noi vuol dire fino all’altroieri, l’epoca ormai lontanissima della “giustizia infinita” contro il terrorismo), «in assenza di grandi progetti politici, sembra che la guerra si renda autonoma dalla politica ed essendo entrata in una sorta di perversa autoreferenzialità risulti fine a se stessa, facendo inutilmente del male senza inseguire alcun bene». Oggi, però, la situazione sembra nuovamente cambiata, con il prepotente ritorno di attori e dinamiche apparentemente più tradizionali, e ci tocca nuovamente riadattare le nostre categorie – come del resto è inevitabile che sia, se ci si dà come regola di interrogare «la politica per capire la guerra», giacché senza una comprensione adeguata della politica retrostante, di guerra si può parlare fino alla noia senza arrivare mai a nessun risultato soddisfacente (conclusione che spiega, appunto, perché qualsiasi trattazione sulla guerra che pretenda di incentrarsi solo sulla guerra, per quanto colta, risulti o espressamente tecnica o alla fine del tutto inconcludente). E allora, chiediamocelo: siamo alla vigilia di una nuova spartizione della terra? Bonanate cita di sfuggita la teoria avanzata dal suo collega americano Joshua Goldstein in un volume di fine anni ‘80 intitolato Long Cycles, secondo cui, studiando le caratteristiche macrostrutturali che caratterizzano i grandi cicli egemonici della storia moderna e proiettando sul futuro le tendenze del passato, «la prossima guerra mondiale [...] dovrebbe scoppiare verso il 2030». Né lui né altri, in realtà, lo possono sapere, e queste previsioni servono solo a conferire un postumo e arbitrario carisma profetico a chi ha avuto la ventura di estrarre il numero giusto, ma se in altri momenti avremmo solo fatto spallucce con sufficienza, chi si sentirebbe oggi di escludere con assoluta certezza questa possibilità?

(finito il 23 luglio 2022)

Ho parlato di


Luigi Bonanate
La guerra
(Laterza 2011)

172 pp. | 12 €

domenica 10 agosto 2025

Morsi

Memore dell’apologo di Carlo Fruttero sulla scarsa credibilità che avrebbe un disco volante se atterrasse a Lucca o in Val Padana, anziché in Texas (vuoi mettere? Là arriverebbe subito lo sceriffo in jeep col suo bel fucile a pallettoni a risolvere la situazione, qui da noi bisognerebbe attenzionare il questore, smuovere il brigadiere dei carabinieri, inviare il messo comunale…), uno potrebbe essere tentato di trasporre lo stesso ragionamento dalla fantascienza all’horror – e prenderebbe un enorme abbaglio, non solo perché l’Italia vanta una consolidata tradizione come luogo d’elezione per storie macabre sin dai tempi dei primi romanzi gotici settecenteschi, ma anche e soprattutto perché, per quanto sia celebrato fino alla nausea come l’incarnazione stessa della bellezza, il nostro paese di campanili, se lo si guarda all’ora giusta, non è poi meno inquietante di quanto lo sia, sotto la quiete sonnacchiosa della provincia, la Nuova Inghilterra che i Lovecraft e gli Stephen King hanno popolato di mostri terrificanti, senza bisogno di farli arrivare dalla Transilvania. Un po’ questo si spiega con banali ragioni psicologiche: in fondo, la paura dell’ignoto si è fatta per la prima volta strada in quasi tutti noi quella volta che da bambini abbiamo esplorato qualche vecchio cascinale abbandonato ai margini della nostra consueta area di giochi, dove ci si diceva appunto di non andare a cacciarci. Non credo sia un caso che effettivamente uno dei libri più spaventosi che abbia mai letto è L’estate di Montebuio di Danilo Arona, ambientato in gran parte nel luogo meno esotico che potresti supporre, ovvero l’Appennino alessandrino sormontante Genova. Ci sarebbe qui un gran potenziale su cui lavorare. Poiché, però, siamo un popolo più pettegolo che fantasioso, ci accontentiamo per lo più degli interminabili feuilleton propinati dalla cronaca nera, che tuttavia riducono a chiacchiericcio, e quindi infine stemperano e sviliscono l’orrore annidato a due passi da casa; e se proprio ne vogliamo effettuare una trasposizione letteraria, lo facciamo piuttosto attraverso il giallo, che tendenzialmente è risolutivo, quindi consolatorio, e - dando lavoro a tutta quella pletora di commissari, procuratori, religiosi detective distribuiti pressoché in ogni chilometro quadrato del nostro frastagliato territorio -, col pretesto dell’indagine, offre anche una certa idea di mondo riconducibile a colori, odori e sapori tipici di quello spicchio di terra, contribuendo in fin dei conti ad alimentare il turismo enogastronomico. Basterebbero solo due righe di Pavese o di Fenoglio per intuire invece quanto profonda sia l’oscurità ancestrale che offusca certe nostre ridenti borgate. Ma lo stesso tema si può trattare anche con toni più pop, se così si può dire, e probabilmente è anche stato già fatto; non essendo, però, così aggiornato in materia, quando ho intuito che questo libro proponeva qualcosa di simile, l’ho immediatamente fatto mio accogliendolo come una piacevole novità.

Gli ingredienti sono in effetti esattamente quelli che potrebbe riportare un manuale di sceneggiatura dopo averli estrapolati da un repertorio che ha in Strangers Things la sua variante più recente. Si prende un gruppo di ragazzini non esattamente popolari, colti in quel limbo di transizione appena prima dell’adolescenza, «quell’età», per intenderci «in cui si è ormai grandi per credere a Babbo Natale o a Gesù Bambino, ma si è ancora con un piede impigliato nell’infanzia per ammetterlo in modo schietto». Fra di loro si isola una ragazzina in particolare, con una famiglia disfunzionale alle spalle, perennemente sull’orlo della separazione soprattutto a causa dell’incapacità del padre, mezzo alcolizzato, di tenersi a lungo un lavoro, e costretta perciò a spostarsi di qua e di là, in un areale poi non così vasto, ma che per una tredicenne vuole dire comunque rimettersi in gioco ogni volta da capo. Al suo fianco si mette l’immancabile maldestro bambino cicciottello, abituato a esprimersi più spontaneamente in dialetto che in italiano, di quelli che vanno a scuola solo in felpa e vengono inevitabilmente presi in giro dai compagni, e che, pian piano, nel suo modo tenero e impacciato, finirà per innamorarsi dell’amica fino al sacrificio di sé. Si aggiunge quindi un elemento sinistro nell’ascendenza familiare della ragazzina, una nonna non proprio convenzionale, che in paese è nota come guaritrice, e alla quale perciò ci si rivolge per curare malanni di vario tipo, il più delle volte sanati «grazie a precisi movimenti delle dita, a una serie di formule sussurrate a mezza bocca, a frizioni o impacchi di erbe dalle proprietà medicamentose», e che dunque gode del rispetto, sì, degli abitanti del luogo, come se fosse una specie di sciamano del villaggio, ma proprio per lo stesso motivo è anche oggetto di sacro timore e di diffidenza da parte loro, atteggiamento non dissimile da quel misto di affetto e sospetto che anche la nipote prova in modo contrastante verso quella strana nonna e la sua strana casa, dove si sente più che mai protetta, ma in cui riconosce che c’è «qualcosa di sbagliato», sebbene non sappia dire esattamente cosa.

Tutto liscio, dunque, senonché i due ragazzini in questione non si chiamano Will o Beverly, ma Sonia e Matteo, e quel che ci viene raccontato non avviene a Derry o a Hawkins, bensì nella ben più prosaica Lanzo Torinese, che avrà pure il suo bel ponte del diavolo, ma difficilmente immagineresti davvero come l’anticamera dell’inferno. Nulla di prodigioso può infatti arrivare da Nazareth. Quali misteri reconditi nasconderà mai quel borgo di mezza montagna, da dove anche un centro minore come Cirié, che non arriva a ventimila abitanti, laggiù in fondo alla valle, sembra già una metropoli, e la cui principale attrazione – a metà degli anni Novanta, quando si immaginano svolti i fatti qui narrati – è il bar della stazione, col gabbiotto del flipper, il cassone del videogioco (uno, ovviamente) e un vecchio jukebox? Eppure proprio in questo capoluogo dell’ordinarietà, dove sono ricorsivi persino i pochi diversivi – i fuochi d’artificio per la Madonna di settembre, le scarne giostre in occasione della festa del patrono -, un giorno come un altro si verifica qualcosa di veramente insolito e disturbante, così tanto disturbante da essere divulgato dai media in modo insolitamente sobrio solo come “l’incidente”. Accade cioè che una mattina di novembre, la professoressa di italiano del glorioso istituto comprensivo “Luigi Perona” – una donna di cui nessuno saprebbe dire esattamente l’età, perché «tutti i lanzesi la ricordavano già vecchia e prossima alla pensione», anche se lei «continuava imperterrita a insegnare» (e a lamentarsi di anno in anno del comportamento sempre più insostenibile delle giovani generazioni) -, mentre i suoi studenti di seconda media stanno svolgendo un tema in classe condotto a porte chiuse (per uno di quei vezzi inspiegabili che hanno appunto certi professori), dopo essersi arrotolata lentamente le maniche del vestito, in tutta tranquillità e senza scomporsi, comincia ad azzannarsi un braccio e a divorarselo brano a brano. Una scena raccapricciante, che in un primo momento viene in qualche modo circoscritta, non senza qualche conseguenza traumatica, ma che fa appena da preludio alla vera e propria ecatombe destinata a scoppiare durante le vacanze di Natale tra il 1996 e il 1997, quando una nevicata particolarmente abbondante come oggi non ce ne sono più isola praticamente il paese dal resto del mondo, avvolgendolo in un silenzio ovattato dove può capitare di tutto. In quei giorni di totale sospensione dell’abituale realtà, Sonia e Matteo vivranno la loro iniziazione alla vita e in qualche modo, pagandone il giusto prezzo, salveranno quel che sarà possibile salvare di capra e cavoli. Fine, titoli di coda, prodotto e diretto da Steven Spielberg.

Tocca fare un doppio inciso, anagrafico e ambientale. Primo: io ho chiarissimo quel momento lì, perché, sebbene sia un pelo più vecchio di Sonia e Matteo e un pelo più giovane dell’autore del libro, il capodanno del ‘97 è stato un piccolo rito di passaggio anche per me, alla prima festa di San Silvestro fuori di casa e lontano dalla mia famiglia. Dirò di più. A un certo punto si fa riferimento alla finale di Champions del maggio precedente – quella vinta dalla Juve sull’Ajax, per capirci – perché Matteo rievoca una terribile serata con dei suoi compagni di classe in cui con suo grande spavento si finisce a fare a gara a chi ce l’ha più lungo, ed anch’io so dire con precisione a casa di quale amico ero proprio quella sera lì e quali goffe scemenze da quindicenni abbiamo combinato, a contorno di una partita che a qualcuno interessava certo un po’ di più, ma era soprattutto un pretesto per trovarsi insieme e costruire ricordi da poter rievocare ancora in una cena di trent’anni dopo. Secondo: tutto ciò che vale per Lanzo Torinese potrebbe valere tranquillamente anche per Mondovì. A casa della nonna si mangiano infatti rubatà, paste di meliga e fricieuj, nelle cucinette di alcune case sbuffano i putagé, le signore anziane offrono ai bambini non semplici caramelle ma i sukaj, alla base delle finestre si distendono i salami di stoffa per bloccare gli spifferi, sulla nonna di Sonia aleggia il sospetto che sia una masca, con tutto il carico di suggestioni popolari che un tale termine si porta dietro – e tutto questo retroterra atavico si mescola, senza soluzione di continuità, ai videogiochi portatili, ai video di MTV, ai Ringo al cacao, al 486 con su installato Quake, ai Pokemon, al Televideo, mentre alla melodia di Madonnina dai riccioli d’oro si sovrappone l’ultima hit di Bon Jovi ascoltata rigorosamente al walkman. Ogni generazione vive, in un modo o nell’altro il suo momento di trapasso, ma quel trapasso lì, con quella mescolanza tra un’eredità contadina al sapor di bagna caòda e i primi assaggi di una modernità che comunque, nella provincia piemontese, sembrava arrivare per la prima volta come se fosse già un po’ di seconda mano, è esattamente il trapasso che ho vissuto anch’io, tale e quale.

Tutto questo per dire che uno come me rientra senz’altro fra i lettori ideali in grado di raccogliere praticamente tutti gli ammiccamenti disseminati pagina dopo pagina, compresi quelli alle pubblicità più idiote del tempo. Non era forse proprio questo ciò che volevo? L’orrore a portata di mano, che si materializza là dove ti senti più al sicuro, appena dietro l’uscio di casa del natio borgo selvaggio? Se però all’inizio è stato divertente stare a questo gioco, alla lunga confesso di esserne rimasto sopraffatto. Cosa ho provato di fronte a questo libro me l’ha spiegato, senza volerlo, perché parlava d’altro, un mio zio musicista quando mi ha raccontato del suo primo saggio di composizione in conservatorio, perfetto da un punto di vista formale, ma che il suo maestro di allora, pur riconoscendone la tecnica soggiacente, commentò dicendo “ottimo lavoro, ma questa non è musica!”. Potrei dire lo stesso: qui ci sono tutti i pezzi necessari affinché il corpo viva, tranne la vita stessa. Perfino la morale è esibita, come un’autoesegesi, quando si conclude che «insieme [Sonia e Matteo] hanno vissuto la più crudele delle esperienze. Il verbo del cambiamento, spietato e necessario, è sceso su di loro come una benedizione: crescere. Inizia il vero orrore». La vita morde e può anche far molto male; in qualche modo bisogna imparare a baciarla senza farsi sbranare. A conti fatti, vien la sensazione che sia un libro scritto per ragazzi – e non ci sarebbe niente di male – rivolto però a chi ragazzo non lo è più. Forse l’idea era di risvegliare lo young adult (come si dice oggi) che c’è ancora dentro noi diversamente giovani, esprimendosi come se si parlasse direttamente a lui, ma con la calvizie e l’incipiente canizie si diventa anche un po’ più esigenti e si vorrebbe qualcosa in più di un prodotto quasi totalmente derivativo. Plaudo perciò al tentativo, che meritava la dovuta attenzione, ma la prossima volta gradirei qualcosa di più forte.

(finito il 16 luglio 2022)

Ho parlato di


Marco Peano
Morsi
(Bompiani 2022)

186 pp. | 17 €

sabato 26 luglio 2025

Dio al plurale

Da quando, non troppo tempo fa, ho capito che il problema posto dalla coesistenza di diverse religioni nell’umanità non è esattamente lo stesso di come rendere fattibile la loro convivenza, l’approccio che ho trovato intimamente più congeniale è quello di intendere ciascuna di esse non come un sistema compiuto, bensì come un movimento intrapreso verso un Dio trascendente per una propria particolare via, percorrendo la quale è impossibile raccogliere compiutamente la ricchezza che da Lui promana, in quanto il Divino si manifesta proprio attraverso la diversità di questi itinerari, ovvero come un fascio di luci complementari o come l’insieme dei diversi versanti che restano chiaramente distinti pur disegnando il profilo della stessa montagna verso cui si sta salendo. Poiché, però, non c’è figura peggiore dell’ingenuo animato da buone intenzioni che finisce involontariamente per avallare la causa opposta a quella che intende sostenere, sono grato a questo libretto di Rémi Chéno (domenicano, professore di dogmatica, una vita spesa in prima linea nel dialogo interreligioso, quindi fonte attendibile) per avermi aiutato a mettere meglio a fuoco alcuni possibili limiti di quella posizione – che nella buona società teologica è chiamata solitamente “pluralismo” – confermandomene, con gli adeguati correttivi, la sostanziale bontà (al di là dei nomi che si possono usare per indicarla).

Adottare una posizione pluralista può in effetti aiutare a superare l’alternativa secca tra l’esclusivismo di chi ritiene che al di fuori della propria fede non ci sia salvezza (compresa la versione «senza trionfalismi» di Barth, secondo cui pure il cristianesimo, nella misura in cui si riduce a mera “religione” e pretende di ingabbiare nei suoi schemi il totalmente Altro, non può vantare nessuna superiorità - che invece ha solo finché si autointerpreta come rimando a qualcosa che le starà sempre oltre, spiazzandola di continuo) e l’inclusivismo di chi pensa invece che tutti coloro che sono onestamente in cerca di Dio condividano di fatto la medesima esperienza, qualunque siano poi le forme e le parole che concretamente useranno per definirla (compresa la versione raffinata di Rahner, con la sua categoria di “esistenziale soprannaturale” introdotta per sostenere che un uomo può essere considerato cristiano anche senza una confessione esplicita in tal senso) - due prospettive che, istituendo tra le religioni un rapporto di conflitto insanabile o di bonaria omogeneità, eludono, più che affrontare, la domanda posta dal loro stesso esistere (domanda teologica, intendo, non antropologica o sociologica). D’altra parte, accettare l’idea che Dio, nella sua pienezza, sia perennemente al di là di ogni nostra rappresentazione e costituisca una meta comune per le diverse religioni del mondo sembrerebbe un pilastro sufficientemente solido per reggere un ponte di natura mistico-spirituale oltre che etico-pratica fra di esse, nel momento in cui le si riconosce appunto tutte impegnate nel rispondere a una medesima, sebbene diversificata, vocazione.

Cosa c’è che non funziona in questo ragionamento? Secondo Chéno, centrare il discorso su un “terzo” al di sopra delle molteplici tradizioni religiose rischia innanzitutto, nonostante utte le apparenze contrarie, di riproporre surretiziamente un modello assimilazionista, se non imperialista, nella misura in cui si afferma implicitamente che al termine di un lungo percorso di autoriflessione “noi” avremmo capito che il senso autentico della religione consisterebbe nel non assolutizzare i nostri punti di vista e perciò, dall’alto di questa scoperta, ora imponiamo anche a “voi” di rinunciare ai vostri per poterci reciprocamente riconoscere, secondo quel frusto trucchetto per cui si disegna “l’umano” prendendo noi stessi a modello univoco di riferimento e si racconta che non si vuole affatto trasformare gli altri in noi, certo che no, ma renderli, appunto, “più umani”. D’altra parte - ed è un’obiezione ancora più cogente – non esiste e non può esistere qualcosa come una esperienza religiosa “universale”, disancorata dall’orizzonte simbolico e dal contesto storico entro cui essa è maturata, e se il riconoscimento reciproco dovesse passare attraverso la progressiva spogliazione del repertorio culturale di cui siamo fatti, alla fine non resterebbe proprio nulla da riconoscere, come accade all’allodola spiumata della nota canzoncina francese. A forza di dire che questo non si può dire prima o poi, infatti, si resta semplicemente con nulla da dire. Un conto, sembra concludere Chéno, è deporre le armi, un conto è suicidarsi collettivamente.

C’è da dire che il pluralismo che il teologo francese contesta è quello di matrice anglosassone che ha avuto in John Hick il suo principale promotore, e non la versione proposta per esempio da Jacques Dupuis, che curiosamente non viene mai citato, pur avendo quest’ultima molti punti in comune, mi sembra, con l’approccio sostenuto dallo stesso Chéno e da lui definito “post-liberale” (ed è per questo che, come dicevo in apertura, più che una sconfessione del pluralismo verso cui sono orientato, mi pare un contributo per puntellarlo meglio). L’aspetto che trovo più intrigante di questa posizione è il fatto di snidare gli odierni identitarismi sul loro stesso terreno, smascherandone le fallacie. Affermare l’irriducibile diversità delle religioni come un elemento costitutivo della società umana potrebbe infatti sembrare un modo per portare acqua al mulino di chi rivendica, alla maniera di Huntington, una radicale “regionalizzazione” del mondo in sfere di civiltà ermeticamente impermeabili le une alle altre e destinate per questo inevitabilmente a scontrarsi. Tuttavia, se è vero che ciascuno di noi impara a dire se stesso nella lingua in cui è stato cresciuto, non è meno vero che tale lingua non è mai un circuito chiuso, ma è perennemente sollecitata a ritrovare dentro di sé le risorse per far risuonare familiare alle orecchie di chi la parla concetti e immagini elaborati in altre lingue. In una parola, da quando ci siamo dispersi per il globo, non abbiamo mai smesso di inventare parole nuove e contemporaneamente però anche di tradurcele a vicenda, senza per questo disimparare quelle che ci erano state insegnate da bambini. Anzi, studiare la lingua dell’altro ci permette di conoscere meglio strutture, potenzialità e limiti della nostra, che senza quello stimolo esterno ci sarebbero sfuggiti, e in fin dei conti ci aiuta persino a parlarla meglio, oltre a farci capire, appunto, che ogni traduzione lascia sempre un residuo inespresso che si sottrae alla nostra presa, sia cognitiva e sia, per estensione, politica. Insomma, non poter non avere un linguaggio - e un linguaggio concreto, particolare, storico - non implica l’impossibilità del dialogo; tutt’al contrario, ne è la costitutiva premessa. Dunque, la difesa delle proprie radici non può essere un buon motivo per chiedere l’estirpazione di quelle altrui.

Ora, lo scopo di questo dialogo è di provare a integrare il punto di vista altrui nel mio, aiutandomi ad approfondirlo e ad estenderlo (mi torna in mente la maieutica di Socrate, che non impone uno schema univoco di comportamento, ma invita Lachete, Alcibiade, Eutifrone a capire come realizzare la virtù ciascuno nella propria vita). Per noi cristiani non dovrebbe essere così difficile da capire, visto che l’abbiamo sempre fatto. «La storia delle dottrine mostra in che modo esse sono messe alla prova dalla loro capacità di sostenere l’intelligibilità delle pratiche in nuovi contesti». Non è stato questo lo sforzo di Tommaso, dei grandi Concili, di Paolo? Le parole stesse del maestro di Galilea, pronunciate in aramaico, noi le possediamo solo in greco (con buona pace di quanti pensano che Dio pensi e parli solo in latino). Senza l’inculturazione nel mondo ellenistico, forse la nostra fede non sarebbe mai stata altro che un ramo morto dell’ebraismo. Abbiamo dialogato con i classici, e nessuno dubita che siamo rimasti cristiani (anzi, questo ci ha aiutato a comprendere meglio ciò che siamo, e se abbiamo travisato qualcosa, abbiamo anche acquisito degli strumenti per correggere quei travisamenti) – perché mai dovremmo fermarci lì? Lo stesso vale per gli altri: dovremmo smetterla di pensare di poter diventare degli astratti “umani” migliori e pensare un po’ di più ad essere, ciascuno, un uomo migliore in quanto cristiano, in quanto musulmano, in quanto ebreo o buddhista o quello che è. Dunque, si può avversare l’omologazione modellata sull’economia di mercato e non per questo esigere che si innalzino muri alle frontiere.

Però questo discorso oggi non paga molto. Di ragioni per cui questo accade ce ne sono tante, ma questo libro me ne ha suggerita una in particolare. A ben vedere, l’esercizio di traduzione avviene anzitutto dentro di noi, e avverrà sempre di più in un mondo in cui i discorsi tendono a moltiplicarsi e ad intrecciarsi. «[Io] sono già in dialogo fra parecchi territori che per me costituiscono significati e visioni del mondo senza dubbio incommensurabili, ma che riesco ad abitare simultaneamente». Il che vuol dire che ciascuno di noi è già da sempre uno e anche un po’ un altro, ma bisogna rendersene conto, e per farlo bisogna abituarsi a scendere un po’ in profondità, a sondare se stessi. Guarda caso, invece, i profeti contemporanei dell’identità, proprio quelli che dovrebbero apprezzare questo esercizio di introspezione, sono però anche quelli per i quali l’identità è al contrario una corazza iperprotettiva indossabile a piacimento dall’uno o dall’altro perché formata da pochi pezzi assemblati fra loro che vengono ossessivamente esposti al nemico perché probabilmente si ha il terrore di mostrare che, sotto quell’uniforme (questo, sì, simbolo di omologazione), non c’è nulla. Ma se mi riduco a ripetere a voce sempre più alta degli slogan per non ascoltare ciò che gli altri hanno da dire, dato che dentro di me non troverei nulla da rispondere, il problema è davvero l’altro o non sarò forse io?

(finito l'8 luglio 2022)

Ho parlato di


Rémi Chéno
Dio al plurale. 
Ripensare la teologia delle religioni
(Queriniana 2019)

(Giornale di Teologia #418)

trad. di G. Romagnoli

128 pp. | 14 €

(ed. or.: Dieu au pluriel. Penser le religions, Paris 2017)

giovedì 10 luglio 2025

Adattamenti meravigliosi

Non avevo esattamente capito che genere di libro stavo comprando, quando ho comprato questo libro, anzi mi ero figurato qualcosa di un po’ diverso da quello che si è rivelato, ma ciò conferma indirettamente uno dei temi che questo libro ti aiuta a mettere a fuoco, quando poi lo leggi, ovvero che proprio là dove non te lo aspetti, o dove ti aspetti altro, magari di più scontato, si nascondono invece meraviglie che vanno ben oltre qualsiasi precedente immaginazione e che anche da quelli che sembrano errori di valutazione si finisce comunque per imparare qualcosa. Per spiegarlo, l’autore ricorre, tra l’altro, all’esempio della Ultra-Deep Field, lo scatto – chiamiamolo così – con cui il telescopio Hubble ha rivelato in «una porzione di cielo notturno banale e probabilmente priva di interesse» l’esistenza di diecimila galassie di cui prima non si aveva la minima percezione. Ma se da sempre il cielo stellato sopra di noi evoca quasi spontaneamente alla nostra fantasia la sensazione dell’ignoto, meno ovvio è che a suscitare analoghe emozioni possa essere il giardino di casa sotto di noi e quelle migliaia di piccolissimi eventi che ci accadono letteralmente fra i piedi, a prima vista infinitamente meno affascinanti rispetto, che so, alla collisione di due buchi neri. Si capisce ancora ancora l’attrattiva esercitata dai dinosauri oppure dai cetacei, dai grandi mammiferi, dalle scimmie: ma toporagni, insetti e lombrichi che cosa avranno mai da raccontarci di così interessante? E invece piegarsi su uno di questi animaletti e studiarlo al microscopio è esattamente «come spedire una sonda verso un pianeta lontano» (e curiosamente tocca prendere atto che alcuni mitemi tipici della fantascienza in apparenza più sfrenata hanno radici terrestri, troppo terrestri, senza bisogno di scomodare alieni o xenomorfi). Insomma, continuano ad esserci più cose nell’aiuola del basilico che in tutta la nostra filosofia e a ben vedere il mondo delle stranger things non è affatto il sottosopra, ma quello che solo per una questione di miopia ci ostiniamo a considerare “normale”.

Per farla breve, credevo di avere a che fare con una raccolta di saggi evoluzionistici alla Stephen Jay Gould e invece, anche se il retroterra è pressoché lo stesso, mi sono ritrovato per le mani un testo con un approccio decisamente più sperimentale – e per sperimentale intendo proprio da sporcarsi le mani e affondare fino alla vita nel fango delle paludi: non è un caso che parole di enorme apprezzamento siano qui riservate ad Alexander von Humbold, uno che se avesse potuto si sarebbe fatto ingoiare dalle balene per poterle osservare da dentro -, sebbene di taglio divulgativo, ossia sfrondato di gran parte dei grafici e dei dati che solitamente vengono riportati negli articoli scientifici e pieno zeppo, al contrario, di tutti quegli elementi narrativi e autobiografici che in quegli articoli non trovano mai spazio. Ed è probabilmente perché da quella letteratura spesso misurata potrebbe non emergere a sufficienza che dev’essere arrivato un momento in cui Kenneth Catania, docente di biologia all’Università di Nashville da quasi trent’anni (anche se con un passato da consulente dello zoo di Washington), ha avvertito l’esigenza di testimoniare a tutti in modo che più chiaro non si può come il sense of wonder non sia solo una prerogativa dei ragazzini che leggono fumetti, ma anche di chi, come lui, può vantare oltre un centinaio di pubblicazioni, premi, fellowship e tutto quello che serve a ingrassare un dignitoso curriculum accademico. Di qui il suo intento, dichiarato sin dall’inizio, di «cambiare la percezione di come avvengono le scoperte e di come si fa ricerca» - e per darcene un’idea il più incisiva possibile ha anche disseminato i bordi pagina del suo libro di qr code che, se debitamente inquadrati, ci collegano a video in cui possiamo vedere quello che ci viene raccontato, offrendoci un’autentica esperienza di lettura aumentata (qui pongo la mia pietra miliare e certifico che è stata la prima volta che mi è capitato in un volume non scolastico).

La morale della favola, corroborata da un’intera vita di studi, è che, per scoprire qualcosa di significativo, «pare che servano molta fortuna e serendipità», anche se bisognerebbe sempre ricordarsi di chiosare questa osservazione con il noto adagio di Pasteur secondo cui la fortuna aiuta le menti preparate, nonché con quello - non d’autore, ma non per questo meno vero - secondo cui i fallimenti sono «parte integrante della scienza, come della vita» (quindi niente paranoie se ci si imbatte di tanto in tanto in un vicolo cieco, perché non solo capita, ma deve capitare, e molto più di una sola volta). E il modo migliore per tenersi preparati è quell’«elemento chiave sottovalutato nel processo di scoperta» che consiste anzitutto nel «mantenere l’apertura mentale e non avere troppi pregiudizi», in quanto «essere incuriositi dai misteri fa parte della natura umana, ma i misteri ci portano solo sulla soglia. Non possiamo sapere cosa scopriremo varcandola». Dunque, attenzione estrema all’insolito e nessuna preclusione rispetto a ciò che ci può rivelare una qualsiasi esperienza, perché il mondo non si lascia mai chiudere in una teoria preconfezionata. Come avrebbe detto Sherlock Holmes, una volta eliminato l’impossibile, ciò che resta, per quanto improbabile, deve essere la verità. La scienza ci insegna, infatti, «a riconoscere leggi generali osservando i particolari più inconsueti» e «i dettagli più strani», tanté che «qualcuno ha detto che la cosa più bella da sentire, nella scienza, non è “eureka”, ma “che strano!”». Tutto questo Catania lo sa bene, essendosi costruito nell’ambiente la bizzarra fama di «studioso di strane appendici» soprattutto per via delle sue prolungate indagini sulle talpe dal muso stellato (Condylura cristata), esserini di cinquanta grammi appena che hanno però «l’abitudine di piombare nel bel mezzo di interessanti teorie e controversie scientifiche». Lo studio del funzionamento del corpo stellato che hanno sul muso e che si è rivelato essere l’organo tattile più sensibile tra tutte le creature del pianeta (con tanto di certificazione Guinness che riconosce a lei, e non – per dire – al ghepardo, il titolo di cacciatore più veloce tra i mammiferi, proprio in virtù di questa dotazione, grazie alla quale è in grado di individuare una preda, esaminarla, decidere di mangiarla, ingerirla e cercare un nuovo boccone in 230 millisecondi) è infatti una riprova del carattere non architettonico dell’evoluzione, che opera sempre e solo su ciò che già c’è, riciclando e riadattando alla bisogna; anzi è esattamente la stranezza dei risultati a costituire «una delle migliori prove dell’evoluzione» stessa (e qui Gould effettivamente torna in campo con uno dei suoi tormentoni).

Per questa via si viene, per esempio, a conoscenza di meccanismi sofisticati come la finissima tattica di caccia del serpente dai tentacoli (Erpeton tentaculatum Lacépède) e si fa i conti con la possibilità di una “percezione elettrica” del mondo, come quella delle anguille sudamericane (Electrophorus electricus), assai più estranea di quanto lo possa essere per noi la già complicata ecolocazione propria dei pipistreli, anche se probabilmente la più inquietante “meraviglia” qui descritta è quella riguardante la vespa gioiello (Ampulex compressa), «uno di quei casi in cui la realtà è molto più strana, interessante e agghiacciante della fantasia», dal momento che questa specie è solita paralizzare con una puntura gli scarafaggi, immobilizzarli in appositi luoghi cavernosi, nutrirsi di un tronco della loro zampa per assumere le proteine necessarie a deporre nel tenero moncherino una larva, la quale, a poco a poco, comincerà a nutrirsi del corpo ancora vivo, ma inerte, dell’insetto, finché lo dilanierà dall’interno, come in Alien, una volta raggiunta la maturità (sempre che non capiti nulla nel frattempo: basta anche solo un leggero movimento dello scarafaggio perché la larva cada fuori e muoia di fame, mentre la sua preda, esaurito, dopo circa una settimana, l’effetto inibitorio sui suoi sensi, riprenderà a muoversi liberamente – e tutto questo sotto il nostro naso!). Citando Feynman, Catania ne conclude che “la conoscenza scientifica non sottrae niente all’emozione, al mistero e alla meraviglia di un fiore. Non fa che aggiungere”. Qualche giorno fa mia moglie ha realizzato un acquarello in cui una bambina osserva un fiore gigante e una scritta sullo sfondo recita “coltiva lo stupore”. E questo non è altro che un ulteriore caso di felice adattamento tra lei, fisica, e me, filosofo.

(finito il 7 luglio 2022)

Ho parlato di


Kenneth Catania
Adattamenti meravigliosi. 
Sette irresistibili misteri dell'evoluzione
(Bollati Boringhieri 2021)

256 p. | 23 €

(ed. or.: Great Adaptations. Star-Nosed Moles, Electric Eels, and Other Tales of Evolution's Mysteries Solved, Princeton 2020)