Meno male che, quando mi propongo di cominciare un nuovo libro, l’ultima cosa a cui penso è cosa ne dirò, quando l’avrò terminato e sarà arrivato il momento di scrivere queste mie consuete tre(nta) righe, perché, se così fosse, rischierei di privarmi preventivamente del gusto di leggere un qualsiasi monumento della letteratura universale solo per la paura di ritrovarmi a bofonchiare a fine corsa qualcosa di altrettanto insulso quanto definire carine le piramidi d’Egitto (secondo un’antica spernacchiata battiatesca, emessa peraltro in tempi in cui non c’era ancora l’abitudine di recensire senza ritegno tutto ciò che ci capitava a tiro). Fra queste pietre miliari che sono felice d’aver attraversato dalla prima all’ultima pagina – sebbene la lettura integrale serva più che altro a giustificare quella cursoria che si può fare poi, senza sensi di colpa, di lì in avanti, con calma – rientra da poco anche il Paradiso perduto, il cui valore sono in grado di misurare già solo dal fatto che sia riuscito comunque a coinvolgermi, nonostante l’abbia letto (per limite mio) in una tradizione che per forza di cose è già quasi una parafrasi, e dunque deprivato della potenza originale della parola poetica che in opere come queste non può mai essere dissociata dal suo contenuto, peraltro in modo curiosamente non molto dissimile da quel che accadde quando mi accostai per la prima volta all’Inferno dantesco, divorandone l’adattamento in prosa moderna pubblicato a margine delle terzine nella serie di fascicoli allegati a Famiglia Cristiana a inizio anni ‘90 e fatti poi rilegare artigianalmente dai mie nonni in un volume che finivo quasi sempre per sfogliare quando, all’altezza delle medie, andavo a trovarli a casa loro. Tale è, in effetti, il fulgore del genio da raggiungerti con un raggio della sua luce anche quando lo maltratti in questo modo.
Certo, per i miei gusti, ogni volta che Milton mette in versi delle scene ricalcate più o meno direttamente sulla Scrittura, apprezzo ancora di più la sobrietà primitiva del testo biblico, ma dove si sbizzarrisce a riempirne i vuoti, molte sue invenzioni risultano senz’altro seducenti. Il problema, semmai – ma è un problema più teologico che artistico, e letterariamente ha poco senso porselo, perché è proprio in quello che sta la sfida – è se ci fosse davvero bisogno di colmarli, quei vuoti. Oppure, più in generale, se la forma dell’epica classica sia davvero quella migliore per trattare una materia che in realtà ne rovescia programmaticamente canoni e regole, al punto che, se vi viene poi ricondotta a forza, produce distorsioni concettuali, fraintendimenti e pure effetti involontariamente comici, come le lunghe tirate che l’Onnipotente intrattiene tra due delle sue persone, come se fosse il re delle fiabe di fronte al suo accondiscendente specchio magico, o la goffaggine degli angeli custodi, che dovrebbero sorvegliare l’Eden ma si fanno maldestramente infinocchiare da Satana come marmittoni da quattro soldi, o ancora l’intera sequenza della demonomachia, con quel dispiegamento di artiglieria celeste che sembra tirato fuori da uno di quei saggi secondo cui la Bibbia non parlerebbe di Dio ma di scontri fra potenze extraterrestri impegnate a contendersi la Terra (azzardo anzi una proposta genealogica, secondo cui potrebbero discendere in qualche modo anche di qui, alla lontana, non solo certe bislacche interpretazioni fantarcheologiche, ma pure alcuni significativi sviluppi del moderno immaginario pop giù giù fino a Neon Genesis Evangelion: d’altra parte, intorno alla cattedra di Lucifero, tra i seggi del Pandemonium, spiccano quelli di Dagon e del Demogorgone).
E tuttavia va pur detto che, almeno in parte, la rappresentazione dell’ostinatissimo attacco condotto dal Maligno contro il benevolo piano divino - anche per questo indugiare su tutte le ingegnose macchinazioni con cui viene continuamente rilanciato e continuamente vanificato – mi pare ammantata da un velo di ironia, tale per cui l’epos stesso, così serioso per natura, prende insospettabilmente una piega tragicomica. Tutta la prosopopea con cui l’Angelo caduto si proclama Principe dei ribelli, rivendicando quale titolo d’onore «il coraggio | di non sottomettersi mai, di non cedere», condensato in un celebre principio - «meglio regnare all’inferno che servire in cielo» - tanto caro a certi romantici e a tutti quelli che, prima e dopo, hanno cercato di rivestire di cupa solennità il loro risentimento contro la vita, per nobilitarlo, non è tanto diversa dalla coreografica ma in fondo velleitaria messinscena architettata dai diavoli asserragliatisi nella città di Dite, per disperdere i quali, al disdegnoso messo celeste giunto in soccorso di Dante e Virgilio, basta appena appena un colpo di verghetta sul portone. La grandezza tragica del presunto eroe che non rinuncia alla lotta, pur sapendosi sconfitto in partenza, si rivela, a conti fatti, per quel che davvero è: una pervicacia ottusa, per quanto carica di dolorosissime conseguenze (tanto più dolorose quanto più le si riconosce insensate, inutili, vane), propria di chi si incaponisce nel male perché non sa apprezzare il bene che sarebbe sempre stato lì a portata di mano. Davvero: ma ne vale la pena? Eppure quanti ce n’è in giro, di questi meschini figli delle tenebre i cui loschi maneggi moltiplicano la sofferenza da cui essi stessi sono tormentati, rovesciandola ottusamente sugli altri, senza che questo plachi in alcun modo il loro dolore: «perchè dovunque fugga – osserva Satana, in un raro momento di malinconica autoconsapevolezza – è sempre inferno: sono io l’inferno». Così, quando il «grande Condottiero» ridiscende nell’abisso delle tenebre per decantare la sua impresa, l’aver cioè sedotto gli imbelli progenitori con l’inganno della cadrega e aver suscitato in questo modo l’offesa spropositata di un Dio che s’atteggia a magnanimo ma è in realtà un permalosone, anziché l’applauso dei dannati lo accoglie «un atroce | sibilo universale, il suono del pubblico scherno»; egli stesso, un tempo splendente di gloria, si contrae e si affusola assumendo d’ora in poi per l’eternità la forma infame nella quale ha peccato e indotto a peccare, insieme a tutti i suoi compagni, trasformati anch’essi orrendamente in «mostri avviluppati, teste e code, | anfisbene orribili, scorpioni, aspidi e idre, | e ceraste cornute, eliopi orrende e dipsadi». A questo miserevole squallore si riducono infatti i dominatori di questo mondo, quando li spogli di onori, titoli, denari – anche se ci vuole una gran fede, a crederlo, finché li vedi gigioneggiare tronfi sui loro troni a rivendicare il premio Nobel per la pace.
Magra consolazione, quella d’aver macchiato la creazione del Signore, dimostrandone l’apparente inefficienza nel momento in cui hanno scostato il collo da ciò che percepivano come il morso inaccettabile dell’obbedienza – tentazione che conosco bene perché (qualcuno potrebbe sorprendersi) ci son passato anch’io, quando, senza capire, non tolleravo l’idea che il mio percorso di potenziale bene potesse essere già tracciato da qualcun altro (“sarò il tuo Vietnam” arrivai a scrivere, apostrofando l’Altissimo, nel bel mezzo di un intenso combattimento interiore trasformato in una confessione segreta custodita fra le mie carte). «E se per me tutto il bene è perduto, | male sii tu il mio bene; se non altro, | grazie a te questo impero diviso posso reggerlo | insieme al Re del cielo, e governarlo forse | per più della metà» - «e se non è vittoria è pur sempre vendetta». Ma neppure questo progetto riesce davvero a quei poveri diavoli. La loro ribellione testimonia una ribalderia della creazione che si trasmette fino all’uomo, suo capolavoro, e che è espressione di una libertà ontologica di fronte alla quale Dio può manifestarsi non come il Fondamento che garantisce l’ordine dell’Essere, ma come l’Eccedente capace di riscattarne il costitutivo disordine. Questa mi sembra la morale della favola di Adamo ed Eva: la storia dell’umanità quale si manifesta in visione al primo patriarca dopo il peccato sarà pure un concentrato di scelte sbagliate, di violenza e di sofferenza, ma chi pensa di mettere nel sacco il Creatore corrompendo ciò che è uscito dalle sue mani si ritrova inevitabilmente messo sotto scacco dalla sua incontenibile potenza di trasformare sempre il male in bene, anche quando disperi che sia possibile e ti verrebbe voglia di annichilire tutto. La possibilità di vivere questa esperienza, spalancatasi infine ai progenitori, quando «la mano nella mano, | per la pianura dell’Eden, a passi lenti e incerti | presero il loro cammino solitario (their solitary way: così si conclude il poema)», è l’unico paradiso, sempre davanti a noi e mai alle spalle, che vale la pena desiderare.
(finito l'11 agosto 2022)
Ho parlato di
Paradiso perduto
(Mondadori 2016)
LXVI+823 pp. | 14 €
trad. e cura di R. Sanesi
(ed. or.: Paradise Lost, 1667)

 





