Stanze

giovedì 21 marzo 2024

Astrobiology. A very short introduction

Per quanto sia assolutissimamente convinto che se avessi la possibilità di tornare indietro nel tempo, intromettermi nei pensieri del diciannovenne che ero e, con la testa che ho oggi, suggerirgli quale direzione dare alla sua vita, per settanta volte sette risceglierei comunque ancora e sempre di iscrivermi a filosofia, non escludo che, qualora invece si producesse un fremito d’esitazione, un momentaneo tentennamento, potrei per un attimo indurre nel me stesso medesimo di allora il sospetto che dopotutto gli sarebbe congeniale anche diventare un astrobiologo, e in questo modo salvaguardare il discutibile vizio di scegliere in ogni realtà parallela mestieri di non immediata comprensione. A differenza dell’esobiologia - che riflette solo sull’abitabilità di altri pianeti e potrebbe perciò curiosamente rivelarsi una disciplina senza oggetto - e della xenobiologia - che invece gli alieni prova a inventarseli per conto proprio, ipotizzando sistemi vitali basati su molecole e basi diverse da quelle a noi note - l’astrobiologia si pone l’obiettivo più generale di studiare l’origine della vita in quanto proprietà capace di manifestarsi all’interno del cosmo, provando a capire se le caratteristiche che l’hanno resa possibile sulla Terra siano rare o diffuse e, prima ancora, cercando di individuare che cosa si debba davvero intendere quando parliamo di “vita” (problema apparentemente banale, ma per cui vale un po’ quello che Agostino diceva del tempo: so cos’è se non me lo chiedi, ma appena mi chiedi di spiegartelo non ci capisco più niente).

Come vedete, dunque, alla filosofia si finisce sempre in qualche modo per tornare – e non potrebbe essere diversamente -, ma la cosa intrigante è che qui le sue domande vengono shackerate in modo originale con un altro e variegato repertorio di temi verso cui provo più o meno da sempre un irresistibile attrazione, e in misura crescente man mano che maturo – che sia l’esplorazione pura e semplice dello spazio o la sperimentazione delle specie sulla Terra nei lunghissimi milioni di anni che precedono la nostra storia, i misteri delle convergenze evolutive o il processo di sviluppo di stelle e sistemi planetari – ovvero tutti modi a prima vista tangenziali e curiosi per riflettere in modo più approfondito, ribaltando continuamente le prospettive, su chi diavolo siamo, dal momento che è proprio nei luoghi più marginali che le belle teorie si perdono per strada, costrette a misurarsi con le aporie di una realtà sempre più strana di quanto possiamo immaginarci.

Per farsene meglio un’idea, ecco un breve e assolutamente non esaustivo elenco di questioni che una brevissima introduzione come questa si propone di mettere ordinatamente in fila. Posto che noi conosciamo un unico modello di vita – il nostro – quali delle sue proprietà possono essere considerate accidentali e quali invece sono realmente necessarie per parlare di “vita”? Andando a caccia di specie aliene, siamo sicuri di non commettere un errore metodologico, facendo di noi la norma, quando potremmo essere, se non l’eccezione, una semplice variante? Anche se il carbonio pare l’unico elemento in grado di garantire un genoma di complessità comparabile alla vita terrestre, una qualche forma di vita potrebbe comunque emergere a partire da altre basi chimiche? (c’è chi ha ipotizzato il silicio, che però non è solubile e non subisce reazioni di scambio e modifica: la vita, invece, è un’interazione elastica poco adatta alle eccessive rigidità) E ancora: le condizioni che hanno permesso il prodursi di vita sulla Terra sono state il frutto di un’imponderabile contingenza galattica oppure il risultato di fenomeni ripetibili e frequenti? E se anche il prodursi della vita in quanto tale non fosse poi una rarità, quante sono invece le possibilità che essa abbia il tempo di rendersi consapevole e intelligente, senza finire prematuramente travolta da una qualche indicibile catastrofe cosmica?

Trovo quanto mai affascinante il continuo rimpallarsi di analisi sperimentale e fantasia speculativa quale emerge dalle pagine di questo breviario che ci conduce continuamente dall’infinitamente piccolo (gli acidi nucleici e il modo con cui intorno a loro si è andata simbioticamente strutturando la prima cellula) all’infinitamente grande (le immense supernove che, esplodendo, sparpagliano metalli in tutto l’universo: per inciso, è proprio dal fatto che sulla Terra troviamo filoni di ferro e di oro che possiamo inferire come il Sole sia una stella di seconda generazione). Chissà, forse mentre siamo qui a discutere, colonie di microbi analoghi a quelli terrestri si stanno ripetutamente riproducendo nell’oceano ghiacciato di Encelado, la più grande luna di Saturno, geologicamente attiva, i cui chilometrici pennacchi di gas sono stati studiati dalla sonda Cassini una quindicina di anni fa, oppure qualcosa di decisamente più strano e per noi ancora indecifrabile potrebbe popolare i laghi di idrocarburi presenti su un’altra luna di Saturno, Titano, dove il metano potrebbe aver svolto la funzione che da noi è stata svolta dall’acqua. Ragionando su tutto questo, non si prova forse una gioia impagabile, quando si prende atto che l’unione di rigore e divertimento alimenta visioni assai più emozionanti delle più fantasmagoriche teorie che si potranno mai elaborare sui rettiliani e tutti i loro compari?

(finito il 3 febbraio 2022)

Ho parlato di


David C. Catling
Astrobiology. A very short introduction
(Oxford University Press 2014)

160 pp. | 12,99 $

domenica 3 marzo 2024

La donna in bianco

Fatico a immaginare destino più beffardo per uno scrittore – e per uno scrittore di talento, ingegnoso fabbricante di intrecci e splendido affabulatore – che quello di venir anzitutto conosciuto non già come autore, bensì come personaggio, almeno in parte, d’invenzione: eppure è proprio così che mi sono imbattuto per la prima volta, una decina d’anni fa, nel fino ad allora a me del tutto ignoto Wilkie Collins, leggendone le gesta romanzate da Dan Simmons in Drood, che è un libro meravigliosamente inquietante per il modo in cui rielabora in chiave moderna l’anima nera della letteratura vittoriana, con il solo difetto di rivelare l’enigma intorno a cui ruota, appunto, uno dei capolavori di Collins, La pietra di luna, e di rovinarne almeno in parte la lettura, se non ne sapevi nulla (come ho potuto poi sperimentare in prima persona quando ho voluto rimediare alla mia lacuna, sebbene poi il libro in questione, che è al tempo stesso uno dei prototipi del romanzo poliziesco e però già anche una sua garbata parodia, non si riduca solo a quell’enigma e valga la pena d’essere letto comunque).

Condensato in Bignami, Collins è uno che sarebbe potuto diventare Dickens se non avesse avuto la sfortuna di nascere quando già c’era un Dickens, quello originale, del quale peraltro era amico, sulle cui riviste pubblicava le sue opere e nel cui maestoso cono d’ombra in un certo qual modo è finito per restare a lungo imprigionato (anche se ora lo si sta riscoprendo, ritraducendo e, complice anche il bicentenario della nascita, ripubblicando in forze). Ma Collins è anche stato fra i primi a fiutare l’interesse crescente del pubblico per la cronaca nera e a intuire il potenziale narrativo di un racconto affidato a più voci, ciascuna delle quali fornita del suo peculiare timbro e soprattutto portatrice solo di un particolare punto di vista sull’intera storia, proprio come accade con le deposizioni giurate dei testimoni sottoposti agli interrogatori e ai controinterrogatori durante la fase dibattimentale di un processo. Non saprei decantarne meglio le doti se non attestando la sua capacità di prendere ingredienti che in altre mani avrebbe potuto produrre tranquillamente un indigesto polpettone ottocentesco e mescolarli così abilmente da rendere invece il prodotto finale tanto gradevole al gusto da farmelo divorare in una manciata di giorni appena, avvinto dall’ingarbugliarsi del mistero e più ancora dalla curiosità di capire quale sarebbe stato il trucco con cui sarebbe stato disfatto, perché si capisce benissimo che un trucco deve pur esserci da qualche parte, ma quando cresci e ti fai sgamato è proprio nell’assenza di magia che riconosci infine l’autentica magia della scrittura.

É facile immaginare che a coinvolgere il lettore originale fosse anzitutto la simpatia per il tormentato amore tra la bella e virtuosa eroina Laura e il suo generoso innamorato con tanta arte ma senza parte William – e ancor più l’ansia crescente per il lento dispiegarsi della diabolica macchinazione ordita ai loro danni che, in mancanza di uno Sherlock Holmes capace di smascherarla con due rapide occhiate ai dettagli giusti, pare a un certo punto stritolarli senza rimedio in una morsa di intollerabile infelicità. Ma per quanto il feuilleton risulti spesso, di fatto, una variante appena meno pericolosa degli oppiacei con cui ci si ottunde la mente dinanzi alle miserie della realtà (cosa che il fumatore compulsivo Collins sapeva bene), le sue regole – se lo si vuole fare e le si sa usare – possono anche essere impiegate per sollecitare un inaspettato sussulto di riflessione in chi abbocca all’esca dell’intrattenimento. Apparso a puntate su All the Year Round tra il novembre 1859 e l’agosto 1860 (subito dopo il Romanzo di due città e subito prima di Grandi speranze), La donna in bianco è infatti un potente atto di denuncia contro l’insostenibile condizione di subordinazione femminile che anticipa di appena qualche anno il famoso pamphlet di John Stuart Mill e Harriet Taylor Sulla servitù delle donne. Esasperata dai maneggi di sir Percival, un giovane aristocratico sommerso dai debiti che spera di dare una svolta alla sua disperata situazione finanziaria per via matrimoniale, in virtù di una legge iniqua secondo cui, in caso di morte, i beni della moglie devono passare per intero al marito (ma non il contrario), lady Marian, sorellastra della protagonista, meno bella di lei, tuttavia decisamente superiore per estro, intelligenza e lucidità come Cirano lo è rispetto a Cristiano, a un certo punto sbotta: «se solo potessi godere dei privilegi di un uomo (…). Ma poiché sono solo una donna, condannata a sfoggiare pazienza, decoro e sottane per tutta la vita, devo rispettare l’opinione comune e cercare di assumere modi femminili e delicati». In Inghilterra, del resto, «gli obblighi coniugali di una donna le concedono di avere un’opinione personale dei principi morali del marito? No! La sua missione è amare e onorare il consorte, obbedendogli senza riserve». E alle sciagurate che volessero mettersi di traverso, la civilizzatissima società inglese, scandalizzata nel suo buon gusto dai tetri conventi mediterranei descritti nei romanzi gotici come luogo di reclusione per le figlie cadette, spalanca poi con sin troppa disinvoltura le porte dei moderni manicomi che ne hanno preso il posto, sostenendo con l’autorità della scienza ciò che la religione non sembrava più in grado di giustificare da sola.

«John l’inglese aborrisce i crimini di Cheng il cinese. É il più veloce gentiluomo del mondo quando si tratta di smascherare le colpe dei suoi vicini, e il più lento quando le colpe sono sue. Ma lui con la sua condotta è davvero migliore di coloro che condanna per la loro condotta?»: a gettare il sasso nello stagno del quieto perbenismo british – curiosamente, ma forse non troppo – è il personaggio più amorale del libro e a mio avviso anche quello più suggestivo. Come nei racconti di Hoffmann, anche qui il diavolo arriva dall’Italia e coniuga tratti paurosamente luciferini con l’ironico savoir-faire di chi la sa lunga sulle cose del mondo, se ne infischia di quelle che considera pure convenzioni sociali e non si vergogna di dichiararlo («dico quello che le altre persone pensano soltanto, e quando il resto del mondo cospira per accettare la maschera al posto del vero volto, la mia mano avventata strappa la cartapesta e mostra la nuda verità»). Collins gli dà un nome programmatico, battezzandolo conte Fosco, ma a parte questo non ha nulla a che spartire con la malaticcia antieroina immaginata da Tarchetti: «immensamente grasso» eppure sorprendentemente leggero e silenzioso nei movimenti, intelligentissimo, lezioso, manipolatore, seducente a canagliesco al tempo stesso, questo impasto di Napoleone e di Pulcinella sembra trattare tutti coloro che gli stanno attorno (a partire dalla moglie, zia della protagonista) come i topolini e i canarini che alleva amorevolmente e che si fidano a tal punto di lui da scivolargli fra le dita tozze da cui potrebbero in qualsiasi momento essere schiacciati. É solo quando prende davvero in mano lui la situazione per dirigere le manovre dello spregevole ma limitato sir Percival che si comincia davvero a temere che le cose possano volgere al peggio, perché è chiaro che uno come lui potrebbe davvero inventarsi di tutto, solo per il gusto di vincere la sua personale partita a scacchi, giacché – come spiega amabilmente alla vittima predestinata dei suoi raggiri – «il crimine di uno sciocco viene sempre scoperto, quello di un uomo intelligente mai. (…) Se la polizia vince, di solito se ne conoscono tutti i particolari, ma se perde non se ne viene a sapere nulla. E su queste fondamenta vacillanti voi costruite la vostra rassicurante massima morale che il crimine viene sempre a galla! Sì, è vero dei crimini che conoscete. Ma tutti gli altri?».

Serve proprio un personaggio così apertamente fuori dagli schemi, verso il quale si finisce per provare una morbosa ammirazione (analoga a quella che lui stesso comincia a provare per Marian, a cui parla «con il senno e la serietà che riserverebbe a un uomo»), per mostrare i cortocircuiti e le assurdità di un sistema sociale in cui i virtuosi che seguono le regole finiscono il più delle volte per perdere. Faccia fede questo apologo: «chi credete che starà meglio tra due povere sartine in miseria: quella onesta che resiste alla tentazioni o quella che cede e diventa una ladra? Sapete tutti che il furto farà la fortuna di quest’ultima, portandola all’attenzione dell’intera Inghilterra benevola e caritatevole, e così lei si salverà trasgredendo il comandamento, mentre sarebbe morta di fame se l’avesse osservato». E così, anche se alla fine qui le cose più o meno andranno per il verso giusto, è ben la poca consolazione che se ne trae, perché quel che più resta impresso è il fortissimo sospetto che nella maggior parte dei casi accada tutto il contrario.

Ps Mia moglie si è divertita moltissimo quando ha visto, leggendo il libro dopo di me, che, cedendo a un sussulto di vanità, avevo sottolineato questo passo: «persino la calvizie in un uomo è gradevole perché sottolinea l’intelligenza del viso».

(finito il 5 gennaio 2022)

Ho parlato di


Wilkie Collins
La donna in bianco
(Mondadori 2018)

trad. di A. Mantovani

626 pp. | 14 €

(ed. or.: The Woman in White, 1859-1860)