Per mia personale regola di prudenza cerco sempre di applicare un generoso principio di carità ai libri che leggo, non tanto perché pensi (come forse sosterrebbe Fassino) che prima di criticare un libro dovrei provarne a scriverne uno io – dato che quello di lettore è un mestiere, se così si può dire, indipendente e autonomo rispetto a quello di scrittore, con metodi e rigore suoi propri – ma perché credo davvero che ogni volume che mi ispira la curiosità di aprirlo e che mi convince a dargli fiducia fino alla sua ultima riga non passi mai del tutto invano e procuri comunque una sia pure impercettibile modifica nel mio modo di vedere il mondo a cui mi pare giusto tributare omaggio. Ciò non toglie che mi capitino talvolta per le mani dei libri che mi sentirei in buona coscienza di non consigliare - e questo è appunto uno di quelli. Non consigliare, peraltro, non vuol dire sconsigliare. Etgar Keret, l’autore, mi pare infatti persona intelligente, e se un paio d’anni fa, durante un passaggio in libreria, l’occhio mi cadde proprio su questo volume non fu solo per la matticchiosa copertina di Matticchio, ma perché, poco tempo prima, avevo avuto modo di leggere una sua lunga intervista in cui diceva cose interessanti, rivelatrici di un pensiero. Il Keret intervistato, però, era l’uomo pienamente adulto del 2020, mentre l’autore del libro era un Keret di trent’anni più giovane, comprensibilmente ancora acerbo (la qual cosa, tuttavia, non era ricostruibile dal colophon e dalle note editoriali). Qui non c’entra la mia predilezione per gli esordi: l’edizione era, infatti, fresca di stampa, il contenuto no, ma l’avrei scoperto solo dopo (noto di sfuggita come, man mano che l’età avanza, gli scrittori stiano cominciando a cessare di apparirmi tutti indistintamente come dei vecchi saggi a cui genuflettermi in adolescenziale deferenza).
Di questa raccolta di racconti - il cui titolo italiano non ha nulla a che vedere con la versione originale, ma suona Tzinorot, ovvero qualcosa come “tubature” (Pipelines in inglese) – la rete delle reti ci dice impietosamente, in tutte le lingue possibili, che, al suo apparire, nel 1992, “passò inosservata”. Si tratta in tutta evidenza di un plagio ricorsivo, che però rende abbastanza l’idea: nessuno, a quanto pare, ha ritenuto di dover aggiungere altro. Siamo alle prese con una carrellata di brani brevi, a volte brevissimi (alcuni perfino più corti di questo stesso post), che scorrono via come le tracce di un album musicale, accomunati dall’ambientazione per lo più israeliana e da una vena tendenzialmente surreale quanto a volte può esserlo la realtà stessa in un paese anomalo come l’odierno Israele. A prima vista potrebbero sembrare una rielaborazione di certe storielle yiddish, dove è possibile imbattersi in mostri divoratori di sogni (Sul valore nutritivo del sogno) o in un Dio nano che crea il mondo come un atto di giocoleria (Dio il nano). A differenza di quanto accade con quelle parabole, tuttavia, la folgorazione che t’aspetteresti non sempre arriva, e se si resta spiazzati non è tanto per la freddura finale, quanto per la sua mancanza – salvo quando fa paurosamente irruzione la realtà, con il suo carico di crudezza, che si descriva la perquisizione ad un posto di blocco (Non sono esseri umani; Il nespolo) o si evochi il ricordo di un campo di sterminio (Terminal).
Ciò detto, alcuni colpi sono comunque ben assestati. L’ultimo racconto (Katzenstein) è un ottimo esempio di umorismo nero ebraico, in cui il protagonista pagherà a caro prezzo l’ossessione per il conoscente Katzenstein, perennemente additatogli come colui a cui riescono tutte le cose in cui lui invece fallisce («Katzenstein, Katzenstein, Katzenstein, Katzenstein. E non che fosse chissà quale fenomeno. Era un tipo nella media. Non un cervellone, né un grande atleta, né particolarmente scaltro. Era un ragazzo come me, solo un po’ più fortunato. Un po’, e un altro po’, e un altro po’ ancora… Un inferno»). Giorni come quelli rientra invece nella satira antimilitarista, con la sua presa in giro dell’illogica dinamica dei rapporti umani che si viene a creare all’interno dell’esercito. Ambientazione almeno in parte analoga ha un altro racconto (Yurden) incentrato su un agente del Mossad che comincia a non fidarsi più neanche di se stesso e sospetta di essere stato lui a rubare dei documenti secretati dalla cassaforte vuota di fronte alla quale si trova. Vi si leggono, per esempio, frasi così: «dopo il primo momento di shock Yurden decise che doveva agire, e in fretta. Sorprese sé stesso alle spalle, riuscì a sopraffarsi e si legò alla sedia. “Chi ti ha mandato, ah?” sbraitò rabbioso contro sé stesso». La piega che prende la vicenda, anche qui, è onirica, ma una descrizione come questa, oltre che linguisticamente suggestiva, mi pare indicativa della crisi di identità che può travagliare una coscienza israeliana. Insomma, ce n’è per abbastanza per riconoscere una voce promettente, ma a questo punto lascerei perdere questi primi gorgheggi per buttarmi direttamente sul repertorio più maturo. Solo allora mi sarà possibile dare un giudizio adeguato.
(finito il 17 febbraio 2021)
Ho parlato di
La notte in cui morirono gli autobus
(Feltrinelli 2019)
Trad. di A. Shomroni
146 pp. | 9 €
(ed. or.: Tzinorot, 1992)
Nessun commento:
Posta un commento