Ah beh, la fantascienza – azzarda spesso l’incauto – quella robetta là con mostri tentacolari, improbabili dinosauri umanoidi che guidano astronavi giganti, teletrasporti, fumi e raggi laser… Sì, vivaddio – rispondo –, e meno male perché anche in questo sta il sale della vita. Poi però c’è pure chi sfrutta le potenzialità del genere per ragionare informalmente su complesse ipotesi relative alla natura umana e a quella del mondo che ci circonda, elaborando come degli articolati esperimenti mentali capaci di gettare qualche briciola di comprensione della realtà anche su chi, non avendo conseguito un dottorato in fisica computazionale o un master in neuroscienze, continua a riporre un po’ troppa fiducia nelle ombre proiettate sulla parete della sua confortante caverna da una solida formazione classica. Tale, appunto, è la reazione che mi hanno suscitato i racconti (ma sarebbe meglio chiamarli saggi narrativi) di Ted Chiang, scrittore ormai maturo (va verso i sessanta), eppure sorprendentemente parsimonioso nella sua produzione, come un arciere che prende con calma la mira prima di scoccare la freccia per essere il più sicuro possibile di centrare il bersaglio (e con qualche ragione, stando anche ai riconoscimenti raccolti quasi ad ogni suo tentativo, complice il fatto che premi come l’Hugo, il Nobel della fantascienza, hanno categorie distinte per la novel, la novella, la novelette e la short story). Caso quasi unico: con i nove pezzi racchiusi in questa raccolta, il più lungo dei quali raggiunge all’incirca le cento pagine ed è già quasi un romanzetto, ci si porta a casa più della metà della sua trentennale produzione. Poco importa che fra questi non sia presente il suo scritto più famoso, da cui è stato tratto lo splendido Arrival, poiché c’è comunque di che leccarsi i baffi.
Propongo giusto qualche assaggio per far venire l’acquolina. Provate a pensare che in un futuro non troppo remoto tutti o quasi tutti si vada in giro indossando sempre delle microcamere per riprendere ogni singolo istante della propria vita e che in un campus della Silicon Valley brevettino a un certo punto un dispositivo fondato su un algoritmo in grado di recuperare all’istante, all’interno di quel serbatoio immenso di sequenze registrate, un avvenimento passato particolarmente pertinente con il discorso che stai facendo in un certo momento o con una scena a cui stai assistendo, proiettandolo subito nell’angolo in basso a sinistra del tuo campo visivo. L’indubbio vantaggio di poter ritrovare, in questo modo, le chiavi di casa non appena raggiunto dalla consapevolezza di non sapere più dove le hai messe non impedirebbe di provare comunque qualche brivido all’idea di scaricare in sostanza tutta la nostra memoria su un supporto artificiale. Eppure sarebbe sbagliato pensare che si tratti di un’assoluta novità per la nostra specie: non è capitato forse qualcosa di molto simile quando le culture orali hanno cominciato e mettere per scritto le loro tradizioni? É appunto ciò su cui riflette Chiang, raccontando la storia sopra accennata in parallelo con quella di un giovane nativo di una tribù africana che impara a scrivere sotto la guida di un missionario.
«Di solito non la pensiamo in questi termini, ma la scrittura è una tecnologia, e ciò significa che una persona alfabetizzata è qualcuno i cui processi mentali sono tecnologicamente mediati» Ciò significa che «siamo diventati dei cyborg cognitivi non appena abbiamo imparato a leggere speditamente». Profondissime le conseguenze: prima di adottare l’uso della scrittura, infatti, una civiltà poteva modificare facilmente la propria storia, così che il suo patrimonio culturale veniva di continuo rielaborato in base alle esigenze del presente anche se lo si continuava a ritenere stabile e permanentemente identico a se stesso. A ben vedere, in un certo senso, ogni uomo «rispecchia una cultura orale privata», in cui l’immagine che si ha di sé è sempre il prodotto di una selezione dei ricordi più o meno orientata da un surretizio principio di coerenza. In effetti, noi «riscriviamo il nostro passato in modo che assecondi le nostre esigenze e avvalori la storia che raccontiamo di noi stessi. Con i nostri ricordi siamo tutti colpevoli di un’interpretazione progressista delle nostre storie personali, perché vediamo i noi stessi del passato come i gradini che ci hanno portato a essere gli splendidi noi del presente. Ma questa era sta finendo. (...) A livello mentale, ciascuno di noi passerà da una cultura orale a una alfabetizzata». Tutto questo, allora, è un bene o un male? Con piglio da etnografo del futuro e con prosa assolutamente sobria, Chiang evita sia il peana che la geremiade, cercando piuttosto di capire in che cosa la nostra stessa percezione della realtà potrebbe uscirne modificata, così come presumibilmente si è già modificata tante volte in passato, ad ogni significativa soglia evolutiva. Col che, peraltro, si suggeriscono delle vie d’uscita che tendono a evitare la distopia. «La memoria digitale non ci impedirà di narrare noi stessi. Come dicevo, noi siamo fatti di storie, questo niente può cambiarlo. La memoria digitale cambierà però quelle storie, non sarà più possibile enfatizzare le nostre azioni migliori levando di mezzo quelle peggiori, le storie diventeranno specchio della nostra fallibilità e ci renderanno meno severi su quella altrui». E tutto sommato potrebbe non essere spiacevole vivere in un mondo in cui, quando Salvini fa la passerella davanti all’ambasciata ucraina, dinanzi agli occhi di tutti, lui compreso, compaiano inesorabilmente le immagini e le parole di quando incensava Putin come il più grande statista del mondo.
Altro esempio, altra proiezione verso qualcosa che potrebbe accadere da un momento all’altro, o forse sta già accadendo anche se non ne siamo del tutto consapevoli. Ipotizziamo che un’altra società hi-tech inventi un modo per produrre degli organismi digitali – qui chiamati digienti – in grado di apprendere e quindi di crescere acquisendo una propria identità. All’inizio sembra una cosa divertente, ma alla lunga diventa sfiancante per gli acquirenti, in quanto arriva il momento in cui i digienti non vogliono più soltanto giocare tutto il giorno, ma chiedono di poter lavorare e diventare indipendenti. É a questo punto che la maggior parte di chi ne ha comprato uno lo pone in sospensione, come un qualunque tamagochi passato di moda. I pochi che invece non demordono si trovano di fronte al problema di non costituire più una quota di mercato sufficientemente ampia per sostenere uno sforzo produttivo: la casa madre, anzi, fallisce, i sistemi operativi non vengono più aggiornati e bisogna perciò inventarsi qualcosa per non veder “morire” i propri cuccioli, magari anche attraverso il riconoscimento a loro di una qualche capacità giuridica con un relativo corredo di diritti. Tra i tantissimi temi che vengono qui toccati, la riflessione portante mi pare quella relativa a come si può rendere davvero intelligente un’intelligenza artificiale. Le aziende impegnate nello sforzo di produrne una, infatti, «si aspettano prima o poi di dare alla luce un software che, come la dea Atena, risulti da subito perfettamente formato, maturo». Ma nessun bambino lasciato a se stesso diventa autodidatta. Sono solo gli anni e la fatica dell’insegnamento che possono garantire «disinvoltura nell’esplorazione del mondo reale, creatività nel risolvere i problemi, una capacità di giudizio affidabile quando si tratta di prendere una decisione importante». Perché possa dirsi davvero intelligente, cioè, anche a una macchina deve essere dato il tempo di imparare: «ogni qualità che rende una persona più preziosa di qualsiasi database è un prodotto dell’esperienza. (…) L’esperienza non è semplicemente la migliore insegnante, è l’unica». In altre parole, «se si vuole creare il buon senso che deriva da vent’anni di vita nel mondo reale, bisogna dedicare vent’anni a questa impresa. Non si può assemblare in minor tempo un bagaglio altrettanto ampio di conoscenze empiriche, l’esperienza è algoritmicamente incomprimibile».
In un altro racconto si ipotizza invece l’esistenza di apparecchi in grado di generare una variazione quantistica in un dato momento della realtà e di mantenere poi un contatto con l’universo parallelo in cui ha prevalso una variabile diversa. La possibilità di esplorare scenari alternativi in cui si sono verificate piccole modifiche rispetto al mondo a noi noto si rivela utile per i politici come per i broker della finanza e dà vita anche a nuove discipline storico-sociologiche impegnate e determinare le relazioni autenticamente significative tra gli eventi (per non parlare della curiosità di conoscere come sarebbe continuata la carriera di un artista morto prematuramente). Tutto ciò genera però anche dei contraccolpi psicologici, quando qualcuno scopre che il proprio alter ego si è macchiato di crimini inqualificabili oppure quando si prende coscienza che ogni nostra azione è controbilanciata da una scelta opposta compiuta da una nostra controparte. Se tutto è letteralmente possibile, infatti, cosa definisce la nostra identità personale? Come posso dire di sapere cosa sono “io” se un altro “io” ne ha compiute di cotte e di crude in un mondo in cui semplicemente un giorno un semaforo era rosso anziché verde? La conclusione, sia pure ipotetica, è che, comunque, «ogni decisione che prendiamo contribuisce a formare il nostro carattere e a fare di noi la persona che siamo. Se vuoi essere il tipo di persona che restituirà i soldi a un cassiere sempre e comunque, come ti comporterai in un determinato momento contribuirà a farti diventare o meno quella persona. Il ramo in cui stiamo attraversando una giornata storta e ci teniamo i soldi extra, ha avuto origine e ha preso una certa direzione in passato, le nostre azioni non possono più influenzarlo. Ma se in questo ramo ci comportiamo correttamente con gli altri, la cosa ha invece importanza, perché avrà conseguenze sui rami paralleli che si origineranno in futuro. Più spesso decidiamo per il bene degli altri, meno è probabile che in futuro le nostre scelte saranno dettate dall’egoismo, e questo vale anche per i rami in cui avremo una giornata storta». Sei ciò che diventi – ed è più o meno quanto emerge da un altro racconto ancora, la cui suggestiva costruzione per incastri ricorsivi, simile a una favola delle Mille e una notte, è particolarmente funzionale a proporre una variazione sul tema del viaggio nel tempo. Anche qui si constata, infatti, che «il sapere più prezioso che posseggo è questo: nulla può cancellare il passato. C’è il pentimento, c’è l’espiazione e c’è il perdono. Questo è tutto, ma trovo che sia abbastanza».
Ecco, mi pare che se c’è un filo conduttore che lega fra loro tutte queste storie sia la domanda su cosa ci renda davvero uomini, di fronte alla possibilità sempre più concreta che la tecnologia ci metta presto nelle condizioni di diventare qualcos’altro. Anche se per essere ammessi all’anno successivo bisognerebbe prima dimostrare di avere imparato a risolvere i problemi più semplici presenti nel programma dell’anno in corso. Le cronache di questi ultimi giorni mostrano tuttavia con sufficiente chiarezza che non ci siamo ancora.
(finito il 5 febbraio 2021)
Ho parlato di
Respiro
(Frassinelli 2019)
Trad. di C. Pastore
340 pp. | 18,50 €
(ed. or.: Exhalation: stories, 2019)
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