venerdì 11 febbraio 2022

Le origini dell'ideologia fascista. 1918-1925

Introducendo, nel 2011, una nuova edizione di questo suo corposo saggio uscito originariamente nel 1974, Emilio Gentile notava come, alla sua prima apparizione, tale ricostruzione delle radici culturali dell’ideologia fascista venne intesa da qualcuno come un surrettizio tentativo di nobilitare, riconoscendole un’ossatura concettuale, quella che doveva invece continuare a essere considerata come una pura e semplice forma di vandalismo. «Il fascismo, secondo questa immagine, era stato niente altro che marmaglia di ignoranti brutali e di pseudointellettuali opportunisti, di avventurieri, di delinquenti e spostati senza idee e senza ideali, manovalanza armata e violenta assoldata dalle forze reazionarie, che volevano arrestare il progresso della modernità per riportare indietro il cammino della storia». Secondo Gentile, però, «ridurre tutto il problema dell’ideologia fascista (…) a materia di inganno, opportunismo e manipolazione appariva (…) un modo per eludere il confronto con la realtà storica del fascismo attraverso un postumo rito di esorcizzazione consolatoria» che finiva per occultare la realtà inquietante del consenso accordato al regime nella sua fase di formazione, oltre che l’oggettivo interesse suscitato all’estero per questo esperimento politico percepito da molti osservatori non privi di qualità intellettuali come un autentico tentativo di salvare la civiltà occidentale attraverso una «rivoluzione spirituale contro le degenerazioni e il materialismo» della società industriale, laica ed edonista, in alternativa al bolscevismo russo. Nessuno dice che fosse qualcosa di buono, ma qualcosa di nuovo, di diverso, di potenzialmente persuasivo, nel fascismo aurorale, ci sarebbe insomma stato, rendendolo diverso da una semplice «aberrazione regressiva» o da un avatar sotto mentite spoglie del tradizionale conservatorismo.

Oggi che siamo sprofondati nel gorgo della democrazia mediatica abbiamo meno problemi, credo, a riconoscere «che irrazionalità e modernità, autoritarismo e modernità, non sono affatto incompatibili e possono anche convivere. Ci sono nuove forme di autoritarismo e di irrazionalismo che non rappresentano affatto residui della società premoderna, ma sorgono dai processi stessi della modernizzazione, generando modelli e ideali di modernità alternativi o antagonisti rispetto al modello razionalista liberale». Ciononostante continuiamo ancora a inciampare nel riflesso condizionato di liquidare fenomeni spiacevoli interpretandoli esclusivamente in negativo come una conseguenza di ignoranza e disinformazione, anziché riflettere sul complesso “positivo” di miti e credenze che li alimentano, con la conseguenza di faticare a capire qual è il collante ideale (vago, distorto, scollacciato quanto si vuole) che, di volta in volta, si è aggregato, per dire, intorno ai vari Bossi o Berlusconi, facendoli così forti così a lungo, e che oggi tiene insieme terrapiattisti e populisti, antivaccinisti e complottisti, trumpiani e putiniani (forse anche perché un tale approccio potrebbe costringerci a dover riconoscere quanto di mitologico, in fondo, ci sia anche nelle “buone” credenze con cui concordiamo: certi discorsi a favore della scienza sentiti in questi ultimi due anni – va detto – non sono meno ingenui di quelli pronunciati da chi la rifiuta in tronco). Dimenticando che la gente crede solo a quello che vuole credere, troppo concentrati sugli effetti appariscenti della sbornia, rischiamo però in questo modo di trascurare le ragioni che inducono l’alcolista a bere. Ma una risposta sbagliata non rende meno valida una domanda; anzi, mi pare che riflettere bene su quella domanda sia tanto più importante per mostrare il carattere mistificatorio delle soluzioni presentate come le uniche possibili dagli apocalittici di professione.

Anche per questo da qualche anno sono in fissa con la storia del primo dopoguerra, perché mi pare che, fatte tutte le debite proporzioni, il nostro tempo assomigli molto, come quello, a una sorta di instabile plasma in cui le particelle elementari si uniscono, si respingono e si ricombinano continuamente fra di loro, innescando reazioni che possono esaurirsi in un microsecondo oppure dare vita a nuovi livelli di realtà, non sempre promettenti. La guerra aveva provocato allora una «disgregazione della società» e prodotto una massa di «sradicati» uniti da una crescente insoddisfazione verso istituzioni da cui non si sentivano più rappresentati e verso una società considerata «marcia fino alle radici, e perciò bisognosa di un’opera violenta di purificazione e di trasformazione radicale». Questo generico ribellismo non era ancora fascismo, come probabilmente non lo è nemmeno, per il momento, il ribellismo odierno, ma nella sua fluidità ideologica fu l’incubatore di processi su cui Mussolini seppe esercitare abilmente la sua azione demiurgica – e questo un minimo di preoccupazione in più lo desta.

Socialista sui generis, più anarcoide che marxista, profondamente dubbioso circa le possibilità emancipative delle masse popolari giunte improvvisamente alla ribalta della storia, convinto com’era che esse ricerchino invece istintivamente l’autorità di un capo per identificarsi con essa, il giovane Mussolini, licenzioso negli affetti intellettuali non meno che in quelli carnali, si guardò sempre bene dallo sposare una dottrina ben definita, ma fece anzi del rifiuto dell’ideologia il perno di una personale ideologia attivistica, che recuperava a modo suo temi abbastanza diffusi nel pensiero e nell’opinione corrente d’inizio ‘900. Tanto il suo iniziale socialismo quanto il suo successivo fascismo erano più che altro «uno stato d’animo», un «complesso di miti» attorno a cui raccogliere una folla allo scopo di dare uno scrollone a un paese incancrenitosi dopo l’unificazione. In questa prospettiva, la vita politica gli appariva «come una pura manifestazione della volontà di potenza dell’egoismo umano dell’individuo dominatore e delle masse dominate, materia bruta, duttile e sfuggente, che poteva essere però modellata dall’artista dell’uomo, il politico, per creare nuove forme di organizzazione, un nuovo Stato, una nuova civiltà e un nuovo tipo di carattere». E poiché la duttilità della materia richiedeva a sua volta duttilità nell’azione, egli poteva affermare senza particolari imbarazzi, nel 1920, che «il “caso per caso” è essenzialmente fascista». Dallo scetticismo teoretico di un pensatore oggi un po’ dimenticato come Giuseppe Rensi (su cui tornerò), Mussolini traeva inoltre «motivo per esser ancor più convinto del fatto che nella storia le ideologie, come sistemi teorici, non avevano alcun valore se non si trasformavano in miti per entusiasmare le masse, per organizzarle, per spingerle all’azione (…), senza lasciarsi invischiare nei lacci della coerenza ideologica, nelle dispute dottrinarie, nelle questioni d’orientamento e di collocazione a “destra” o a “sinistra”». Il fascismo, in questo senso, poteva perciò dirsi «superrelativista» (così sempre il futuro Duce, nel ‘21), perché la storia non è altro che uno scontro di forze in cui conta solo il successo (estrema rielaborazione del tema dello spirito vivo contrapposto alla lettera morta).

Questa mancanza «di scrupoli di coerenza ideologica» non solo consentì a Mussolini di tenersi sin da subito le mani molto libere e le porte molto aperte, ma gli permise anche di cambiare cavallo senza particolari problemi quando il suo innegabile fiuto politico gli fece intuire che il vento stava cambiando e che l’onda lunga di cui era in cerca non poteva essergli offerta dalle masse proletarie, non contendibili ai rossi, bensì da un altro blocco sociale, quella classe piccolo borghese che proprio allora ambiva a «trovare, fra la lotta delle due classi maggiori, una via per la propria affermazione, anche attraverso una rivoluzione, che doveva portare alla creazione di un nuovo ordine, dove fossero garantita l’egemonia dei ceti medi, la pace sociale, la soddisfazione degli interessi delle diverse classi in armonia con l’interesse della nazione, che i ceti medi ritenevano di rappresentare più e meglio della grande borghesia e del proletariato». Intuendo prima di altri il terror panico suscitato in questo gruppo dal comunismo e lusingando, col suo individualismo anticonformista, quello che Angelo Tasca definì «l’anarchismo latente del popolo italiano», Mussolini comprese che la nazione avrebbe potuto costituire per una generazione di disorientati un mito potente almeno quanto la rivoluzione, anzi il mito attraverso cui «tentare la “sua” rivoluzione», distinta da quella liberale e da quella socialista. In sintesi, si potrebbe dire che egli si propose di rispondere agli effetti disgregatori della società tradizionale accelerati dalla guerra non già rispolverando i vecchi troni e altari, ma proponendo nuovi ideali figli anch’essi della modernità, attraverso cui suscitare – proprio come avviene in guerra – una mobilitazione collettiva finalizzata a un progetto di rigenerazione nazionale che avrebbe trovato la sua massima espressione nel totalitarismo statale e nel primato della politica sul privato. Sebbene il fascismo sia stato, per molti aspetti, «una negazione radicale, quasi un’antitesi storica dei principi della Rivoluzione francese», esso però a tratti sembra parlare il suo stesso linguaggio, quando prospetta l’idea di un popolo disciplinato e coeso di cittadini-produttori impegnati, col loro lavoro, a favorire la grandezza della patria (e tanto per confondere ancora di più le acque, dopo aver letto Berlin io ci vedo in filigrana anche molto Romanticismo).

Naturalmente, all’interno di questo quadro, lo spettro delle possibilità è talmente ampio che il fascismo poteva apparire, «a seconda delle circostanze, dei luoghi e delle persone, come un fenomeno ora rivoluzionario ora reazionario, e ciò, se da una parte, disorientava avversari e simpatizzanti, dall’altra però consentiva al fascismo di attrarre nelle sue file sia spiriti rivoluzionari che spiriti conservatori», tutti più o meno impegnati a convincere gli altri che esso era esattamente quello che ciascuno di loro, e lui solo, aveva in testa. Se questo è già vero per il 1919 (ne avevo un po’ parlato qui), tra il 1922 e il 1925 la storia del fascismo diventa appunto la storia del confronto fra le varie anime che per strade diverse si erano ritrovate a vestire la camicia nera e che si contendevano ora la possibilità di imporre la propria versione come l’unica ortodossa. La quantità di documenti che Gentile ha raccolto e studiato in questo libro è davvero impressionante e disorientante, ma credo che un convegno di no-green pass, con relatori che vanno da Cacciari a Puzzer, potrebbe darcene un’idea. Ciascuno aveva le sue ragioni, ma quel che per Gentile accomuna tutti questi orientamenti, nella loro diversità, è un medesimo limite, quello cioè di esercitarsi «in un virtuosismo dialettico sincero quanto si vuole ma sostanzialmente estraneo alla concreta situazione politica». Pur con tutta la buona volontà di cui si può essere capaci, infatti, non si può non riconoscere che un «regime autoritario di massa», quale quello instauratosi dopo la marcia su Roma e il delitto Matteotti, è qualcosa di «ben diverso dallo Stato etico» che molti si immaginavano di costruire e che quelle che qualcuno si sforzava di vendere come manifestazioni dello Spirito in atto in realtà di spirituale non avevano nulla, ma erano solo forme dello «spettacolo di massa» che degradando l’individuo alla sua «pura esteriorità» ne distruggevano «ogni capacità di scelta e di critica», né più né meno di come avviene attraverso le occulte tecniche persuasorie della moderna società dei consumi contro cui i fascisti di ieri e di oggi in teoria vorrebbero indirizzare la loro battaglia. Il «fervore culturale» che pure animava intellettuali come Bottai, Pellizzi o lo stesso Giovanni Gentile non trovò cioè mai «alcun riscontro nei caratteri del regime fascista, che si stava delineando attraverso le prime leggi repressive e autoritarie». Anche lo stesso «antiborghesismo fascista, a parte la retorica di costume, non andava al di là della questione culturale e non intaccava minimamente il potere della grande borghesia finanziaria e industriale, su cui il regime fondava gran parte delle sue forze. Tutt’al più, l’antiborghesismo rifletteva i residui dello spirito di rivolta dei ceti medi contro l’alta borghesia, i quali trovarono soltanto una soddisfazione “sovrastrutturale” nel regime fascista, mentre i rapporti di forza all’interno della struttura sociale e politica rimasero, nelle fondamenta, immutati, grazie al compromesso maturato e confermato anche dopo il 3 gennaio». Credo che gli intellettuali stregati oggi dai no vax ne avrebbero di che riflettere a lungo.

(finito il 30 dicembre 2020)

Ho parlato di


Emilio Gentile
Le origini dell'ideologia fascista. 
1918-1925
(Il Mulino 2011)

508 pp. | 19 €

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