La prendo alla larga e la farò lunga, ma mi comprenderete. Una stella può infatti illuminare la notte più nera, consentendoci di orientare il nostro incerto cammino, a patto però che se ne stia a una ragionevole distanza di sicurezza, se no è un guaio. Con Simone Weil accade qualcosa di simile: è un faro potente nella bufera del Novecento, ma se ci si avvicina troppo si rischia seriamente di venirne inceneriti all’istante, per la luce incandescente sprigionata dal suo pensiero non meno che per la radicalità estrema delle sue scelte di vita, che con quel pensiero fanno tutt’uno. Nonostante nelle foto che le sono state fatte non appaia mai con l’aspetto arcigno di un padre terribile, credo di poter capire quel che intendeva Platone quando usò quelle parole per descrivere il timore reverenziale suscitatogli da Parmenide. Nel mio piccolo, infatti, provo anch’io in questo momento la mia buona dose di sacro terrore e vedo lampeggiare intorno a me, da ogni parte, segnali d’allarme e inviti a maneggiare la materia con cura, per non sporcare con troppe sciocchezze questo prezioso e fragilissimo dono offerto all’umanità, oltretutto già abbondantemente stiracchiato, da una parte e dall’altra, e con sempre maggior forza man mano che ci si sposta verso gli opposti estremi dell’arco costituzionale (e anche oltre). Per cui, adelante, Pedro, con juicio.
Simone Weil piace ovviamente a sinistra perché in fondo è da lì che arriva e per la sua risoluta decisione di condividere personalmente la condizione degli oppressi, anziché limitarsi solo a stare dalla loro parte, ma piace anche a una certa destra, perché il suo percorso l’ha portata a denunciare i limiti della modernità e ad abbracciare una prospettiva mistica che a qualcuno fa subito pregustare aromi d’incenso medievali. Lei stessa sembra rendersi conto di questa sorta di strabismo interpretativo quando confessa, in uno degli scritti raccolti in questa piccola silloge, di essersi ritrovata a difendere «una maniera di vedere contraria (…) a quella di quasi tutti coloro che mi sono simpatici, e, purtroppo, simile in apparenza a quella di persone per le quali non provo alcuna simpatia». Si tratta di un’osservazione relativa a una questione specifica (il rapporto tra morale e letteratura), ma credo che potrebbe estendersi senza problemi alla sua intera riflessione. Mi pare di scorgere un’analogia con quanto accaduto in Italia a Pasolini: l’essere stati adottati dai reazionari (beninteso, dopo la loro morte) come testimoni al di sopra di ogni sospetto per sostenere l’accusa scagliata contro l’armamentario ideologico del progressismo libertario figlio dell’illuminismo e del materialismo ottocentesco, che avrebbe liberato i popoli dall’oppio religioso solo per renderli dipendenti dalll’eroina del consumismo.
Il saggio che dà il titolo all’opera (scritto tra il 1942 e il 1943, nel pieno della guerra, poco prima della morte dell’autrice) sembra effettivamente offrire delle sponde a una simile lettura. Fatta pure la tara di tutte le strumentalizzazioni, continua a restare di una scottante provocatorietà. La domanda implicita che si aggira in queste pagine è se la moderna cultura democratica abbia a disposizione degli strumenti intellettuali sufficientemente potenti per fronteggiare il nazismo (che, a scanso di equivoci, resta il nemico principale) e la risposta è negativa, perché di fatto – anche se questa considerazione potrebbe disturbarci – ne condivide gli stessi presupposti. Com’è possibile? Tutto ruota intorno al concetto di “diritto”, che da Simone Weil viene in sostanza concepito come codificazione di un impulso all’autoaffermazione da parte di singoli come di gruppi, ovvero come rivendicazione di un proprio “spazio vitale”, territoriale o biologico, da difendere ad oltranza e sottrarre ad ogni ingerenza esterna di soggetti che, poste queste premesse, non potranno essere percepiti se non come potenziali minacce. Non per nulla questa nozione venne elaborata dai Romani allo scopo di dare maggiore efficacia a quello che, nei fatti, era solo uno spregiudicato uso della forza; Hitler questo lo ha capito benissimo, tant’è che ha imperniato sin dall’inizio la sua propaganda sui diritti violati della «nazione proletaria» tedesca, potendo contare sulla cattiva coscienza delle potenze vincitrici a Versailles. Questa intuizione può forse aiutarci a capire meglio in che modo, senza neanche rendercene conto, ci siamo ritrovati avviluppati in uno dei nodi più intricati del nostro tempo, ossia com’è che quella libertà che abbiamo imparato ad apprezzare e che continuiamo a difendere contro gli agghiaccianti meccanismi totalitari possa, però, al tempo stesso costituire il vessillo sotto cui si schierano le legioni di quanti rifiutano tutto ciò che comporta anche solo una minima rinuncia in vista di un bene comune (che sia una tassa o un vaccino) e percepiscono come un’inaccettabile intromissione nel proprio “particulare” ogni richiesta di cooperazione che implichi una minima disponibilità a smuoversi dalle proprie convinzioni di partenza. L’altro, in questo senso, è sempre colui che insidia, appunto, i miei legittimi diritti: non posso più neanche avere la libertà di dirgli “frocio”, se no si offende e io passo per intollerante.
Secondo Simone Weil il peccato originale della società moderna sarebbe quello di aver confuso il diritto con la Giustizia, che è una cosa completamente diversa. Su questo punto - e non solo su questo - sapienza greca e pensiero cristiano per lei s’incontrano: dalla disobbedienza di Antigone alla crocifissione di Cristo, infatti, la Giustizia si manifesta sempre come un «eccesso d’amore» che nessun diritto prescriverebbe, poiché «il diritto non ha nessun legame diretto con l’amore». Il giusto, in altri termini, non è colui che si limita a fare ciò che è tenuto a fare, ma chi si dona senza porre condizioni, ed eventualmente anche contro il proprio stretto interesse, semplicemente “perché è giusto fare così”. La logica dei diritti della persona non sa attribuire alcun significato a un simile sbilanciamento: prescrive magari che il lebbroso non venga discriminato, ma non invita ad abbracciarlo, come fa Francesco d'Assisi. Parafrasando Wittgenstein, potremmo insomma dire che, persino nell’ipotesi che tutti i possibili diritti individuali siano stati tutelati, la questione della Giustizia non è stata ancora neppure sfiorata. Non si tratta però di negare quei diritti, come vorrebbe qualcuno, bensì di non accontentarsi di questo: «sopra le istituzioni destinate a proteggere il diritto, le persone, le libertà democratiche, bisogna inventarne altre destinate a discernere e ad abolire tutto ciò che, nella vita contemporanea, schiaccia le anime sotto il peso dell’ingiustizia, della menzogna e della bruttezza. Bisogna inventarle, perché sono sconosciute, ed è impossibile dubitare che siano indispensabili».
Per intraprendere questo percorso, occorre anzitutto mettere decisamente a dieta l’ipertrofico io moderno. La Giustizia, «compagna delle divinità dell’altro mondo», rientra infatti nel novero di quelle realtà «di primissimo ordine», come la bellezza, la verità o la perfezione, che «abitano il campo delle cose impersonali e anonime», al tempo stesso aperte a tutti e però non controllabili da nessuno. Non hanno nulla a che vedere con ciò che consideriamo “personale”: quando entra in gioco ciò che è giusto, non conta più il mio successo o la mia realizzazione, così come di fronte alla verità non contano più le mie opinioni. É questa la sfera di ciò che Weil considera “sacro”: «ciò che è sacro, ben lungi dall’essere la persona, è ciò che, in un essere umano, è impersonale. Tutto ciò che è impersonale nell’uomo è sacro, e soltanto quello». Tuttavia, benché impersonale, questo nucleo sacro pulsa nell’intimo di ogni cuore umano, manifestandosi come invincibile attesa «che gli si faccia del bene e non del male» e come grido di «dolorosa sorpresa» quando questo non accade. I diseredati della Terra lo avvertono meglio di chiunque altro, ma mancano loro le parole per esprimerlo; colpevolmente, gli intellettuali e i politici che dovrebbero fornirgliele, li riempiono invece di concetti e termini inadeguati, quali appunto “diritto” e “democrazia”, con la conseguenza di trasformare quella che sarebbe una giusta protesta verso un sistema orrendo e disumano in «un acre piagnisteo di rivendicazioni, senza purezza né efficacia», un osceno mercanteggiamento su salari e orari di lavoro sostanzialmente identico all’atto di contrattare col diavolo il prezzo per la propria anima - il tutto a vantaggio dei mostri che, approfittando del campo libero, si fanno largo scimmiottando il linguaggio sacrale per i propri scopi indegni. Simone Weil non ha dubbi sulle pesanti responsabilità storiche dei movimenti di sinistra di inizio Novecento: «sin dall’infanzia – dice – le mie simpatie si sono rivolte verso quei raggruppamenti che si richiamavano agli strati disprezzati della gerarchia sociale, fino a che ho preso coscienza che questi raggruppamenti sono di natura tale da scoraggiare ogni simpatia». É per le loro inadempienze che la guerra scoppiata nel 1940 tra Germania e Francia non è altro che lo scontro tra due opposti errori, quello «agli occhi del quale conta solo la realizzazione della persona», il liberalismo moderno che «ha perso del tutto il senso del sacro», e quello che «attribuisce alla collettività un carattere sacro», cioè l’idolatria nazista del sangue e della razza.
Sembrerebbero non esserci vie d’uscita. E sarebbe davvero così se dovessimo affidarci unicamente alle nostre forze naturali, poiché la natura è segnata da «una necessità forte come la gravità» che «condanna l’uomo al male, gli vieta ogni bene se non strettamente limitato, difficilmente ottenuto, tutto intriso e imbrattato di male». Con un’immagine che le è particolarmente cara e su cui non a caso ritorna più volte, Simone Weil osserva che «la materia pesante è capace di salire contro la pesantezza solo nelle piante, per l’energia del sole che il verde delle foglie ha captato e che opera nella linfa». Ciò vuol dire che «solo la luce che cade in continuazione dal cielo fornisce a un albero l’energia che fa affondare nella terra le potenti radici. In realtà l’albero è radicato in cielo. Solo quello che viene dal cielo è suscettibile d’imprimere realmente un marchio sulla terra». Il «bene autentico», parente stretto della Giustizia, appartiene insomma a una sfera superiore, «sovrannaturale», e solo per questo ha il potere di attecchire sulla terra per rivoltarla e trasformarla davvero. Perciò, «se si vogliono armare efficacemente gli sventurati», non si dovranno architettare rivoluzioni destinate in partenza alla sconfitta in quanto soggiogate alla stessa logica utilitaristica propria del sistema che pretenderebbero di abbattere, ma «occorre metter loro in bocca solo parole la cui sede si trovi in cielo, sopra il cielo, nell’altro mondo. Non bisogna temere che questo sia impossibile. La sventura predispone l’anima a ricevere avidamente, a bere tutto quanto viene da quel luogo. Sono i fornitori, non i consumatori, che mancano per questa specie di prodotti». Eppure, anche se rari, questi «esseri che sono andati oltre un certo limite», questi profeti dell’eccedenza, «non si possono contare; la maggior parte sono nascosti. Il bene puro è mandato dal cielo quaggiù in quantità impercettibile, sia in ogni anima, sia nella società. “Il seme di senape è il più piccolo dei semi”. Proserpina ha mangiato un solo chicco di melagrano. Una perla sepolta in un campo non è visibile. Non si nota il lievito mescolato all'impasto». Quel che i cristiani chiamano il Regno, benché non sia ancora interamente disvelato, è già qui, misteriosamente, all’opera. Stabilire un modo per cui non resti semplicemente profezia affidata agli idioti del villaggio ma diventi forma del vivere comune è il compito più alto della politica.
Nel corso della storia, tuttavia, uomini sicurissimi che Dio fosse con loro hanno perpetrato, in nome di tutto ciò che è sacro, così tante violenze ai danni delle persone da indurci alla prudenza quando ci mettiamo su questa strada. Simone Weil disinnesca le obiezioni e smaschera gli impostori sostenendo che, quando si varca la soglia del sacro, l’unica persona che deve morire è chi compie quel passo, poiché «ognuno di quelli che sono penetrati nella sfera dell’impersonale vi incontra una responsabilità verso tutti gli esseri umani». «La giustizia consiste nel badare che non venga fatto del male agli uomini»: ecco il criterio infallibile per distinguere il grano dalla zizzania. L’impersonale non conduce mai all’indifferenza (che è invece sorella gemella del tornaconto) – tutt’altro – e l’unico sacrificio che prescrive è quello di sé perché l’altro viva. Nella splendida lettera a Bernanos in cui riflette sulla propria partecipazione alla guerra civile spagnola, Weil scrive: «non amo la guerra; ma ciò che mi ha sempre fatto più orrore nella guerra, è la situazione di quelli che si trovano nelle retrovie. Quando ho capito che, malgrado i miei sforzi, non potevo fare a meno di partecipare moralmente a questa guerra, cioè di augurarmi ogni giorno, in ogni momento, la vittoria degli uni, la sconfitta degli altri, mi sono detta che Parigi per me era le retrovie, e ho preso il treno per Barcellona con l'intenzione di arruolarmi». Evitare che chi è sempre stato e continua a starsene comodo nelle retrovie possa essere considerato un “vero patriota” sarebbe già un ottimo proposito per l’anno nuovo.
(finito il 26 dicembre 2020)
Ho parlato di
La persona e il sacro
(Adelphi 2012)
trad. di M. C. Sala
78 pp. | 7 €
(ed. or.: La Personne et le sacré, 1957)
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