Cos’hanno in comune le parole “canoa”, “amaca” ed “uragano”? Sono praticamente tutto quello che ci resta della civiltà taino, la prima popolazione indigena incontrata da Colombo nel suo storico viaggio del 1492 e pressoché del tutto sparita nell’arco dei cinquant’anni successivi di coabitazione forzata con gli spagnoli, vittima non già di un programmatico genocidio, quanto di un ottuso sfruttamento reso possibile dalla convergenza di vuoto normativo, superiorità tecnologica e bramosia d’oro ("ottuso", dico, riprendendo un'espressione amaramente ironica di questo libro, perché finì per svuotare miniere e piantagioni di manodopera servile a buon mercato, complicando gli stessi piani d’occupazione degli europei; i quali, tuttavia, non difettando certo di iniziativa, decisero di andarsi a comprare nuova forza lavoro dai negrieri africani, mettendo così una toppa peggiore sull’orrendo squarcio che già avevano provocato). Anche per questo motivo oggi si usa con estrema reticenza la parola “scoperta”, a proposito dell’America – tranne forse che nella stampa popolare: ho appena visto che la RCS ha avviato una nuova collana da edicola dedicata alle grandi imprese della storia, nella quale si usa impunemente per una delle prime uscite proprio quella vecchia terminologia. Per contro, Boringhieri ha appena ristampato l’introvabile “Olocausto americano” di Stannard, che pone subito in chiaro di che cosa in effetti si è trattato. Ma non è il solo: la letteratura odierna sul tema, da Todorov in giù, adotta ormai abitualmente l’espressione più onesta di “conquista”.
Pur inserendosi nel ricco filone di studi dedicato alle relazioni tra gli europei e gli “altri”, riproponendo il tema della “scoperta”, questo libro andrebbe dunque controcorrente? Niente affatto: il suo autore ha solo in mente un diverso bersaglio polemico. La “scoperta dell’uomo” a cui si allude è infatti quella che Jakob Burckhardt, uno dei totem della storiografia sul Rinascimento, aveva considerato fra le esperienze determinanti per caratterizzare questo periodo storico e distinguerlo dal Medioevo. Eppure, nota Abulafia, nell’opera di Burckhardt di America quasi non si parla. Come se, appunto, la civiltà europea avesse tratto interamente da se stessa e dal proprio passato, per partenogenesi, le risorse spirituali e intellettuali con cui proiettarsi oltre l’epoca medievale. La tesi che qui si suggerisce è che invece ciò che ha permesso al Rinascimento di non essere solo ripetizione dell’antico ma incubatore della modernità, anzitutto sul piano antropologico, è proprio quel suplus di riflessione richiesto dall’allargamento degli orizzonti - mentali prima ancora che geografici - imposto dall’incontro con i popoli del Nuovo Mondo (sebbene si tratti di «una scoperta incompleta, in quanto non tutti gli osservatori riconobbero l’umanità, nel senso pieno del termine, dei popoli appena scoperti»: in quanto tale, è anzi un programma di ricerca ancora aperto). Tagliata un po’ con l’accetta, possiamo dire che per arrivare alla dichiarazione dei diritti dell’uomo i poveri taino, loro malgrado, se non sono stati più importanti, lo sono stati per lo meno altrettanto del Quintiliano ritrovato da Bracciolini nella biblioteca di San Gallo.
Non si tratta di un argomento del tutto inedito, per chi frequenta già un po’ la materia, sebbene non sia stato ancora pienamente assimilato dalla nostra cultura (a centocinquant’anni da Burckhardt, se non fosse per l'impeccabile Montaigne, nei manuali di storia della filosofia l’America continuerebbe a passare pressoché inosservata almeno fino al Settecento). Da questo punto di vista il libro non aggiunge molto, ed è utile soprattutto come strumento di consultazione per farsi un’idea del modo in cui via via si sono andate elaborando le immagini del Nuovo Mondo fra gli europei, se non si ha tempo o voglia di leggersi le fonti primarie, dato che le segue in ordine geocronologico fin verso il 1520. Dove invece questo testo offre un contributo originale è nella trattazione del primo, spesso trascurato, “incontro atlantico”, quello avvenuto sin dalla metà del Trecento alle Canarie, l’unico arcipelago oceanico fra quelli occupati dagli europei in cui erano presenti popolazioni indigene, rimaste precocemente isolate non solo dal continente, ma anche reciprocamente fra di loro, dopo una lontana migrazione forse neolitica, come le tartarughe delle Galapagos ai tempi di Darwin (infatti noi le chiamiamo complessivamente “guanci”, ma i guanci, propriamente parlando, erano solo gli abitanti di Tenerife: in realtà anche di loro sappiamo poco, perché anch'esse furono tutte spazzate via e sostituite con gli schiavi una volta introdotto il sistema di piantagione). La cosa non deve stupire, se si considere che Abulafia è un medievista specializzato in storia del Mediterraneo e che il nucleo originario della sua ricerca prende proprio le mosse da eventi che, seppure geograficamente collocati oltre Gibilterra, sono comunque perfettamente integrati nell’ordine europeo medievale. Quel che ci intende mostrare è che effettivamente alle Canarie avvenne in nuce quello che sarebbe poi avvenuto su vasta scala in America, che cioè l’occupazione delle Canarie fu come l’esperimento generale, il precedente diretto, in cui si produssero gli schemi e le pratiche che avrebbero guidato l’azione di conquista successiva (anche sul piano delle rotte: La Gomera, la più occidentale delle Canarie, è l’ultima terra nota che si lasciano alle spalle le tre caravelle di Colombo, ed è anche per questo che i re di Spagna rivendicheranno per sé il dominio su quanto avrebbero trovato al di là del mare, come se non avessero fatto altro che portare avanti una medesima e lineare espansione). Perfino la ricezione della scoperta di quelle che all’epoca erano considerate le Isole Fortunate anticipa gli stessi stilemi e le stesse ambiguità che poi saranno tipici dei racconti sui nativi americani, con quell’oscillazione tra l’elogio della semplicità naturale come segno di un’innocenza edenica (così ad esempio Boccaccio) e la sua denuncia come espressione di bestialità (così ad esempio Petrarca). Si è scritto tanto sul fatto che Colombo in America abbia visto quello che sapeva già di trovare perché lo aveva letto in Marco Polo. Ma forse, suggerisce Abulafia, Colombo applica ai Caraibi soprattutto quello che aveva imparato alle Canarie – e il suo studio sembra appunto un tentativo di argomentare questa affermazione.
D’altronde, la persistenza di certi schemi mentali è dura a morire, specie quando guida la nostra percezione dell’alterità. In America, per dirne una, si forgia l’idea che ci siano dei selvaggi buoni, i taino appunto, e dei selvaggi cattivi, anzi mostruosi, i caribi o canibi (da cui deriva il termine cannibale, perché il loro tratto caratteristico sarebbe proprio stato quello di cibarsi di carne umana). Se la scusa di difendere i primi motiva l’aggressione contro i secondi, la loro mansuetudine offre anche il pretesto per giustificarne la sottomissione. Se ci pensiamo un momento, all’inizio del XXI secolo, la lotta al terrorismo e l’esportazione della democrazia, di cui vediamo oggi i gloriosi risultati, si sono fondate su un meccanismo narrativo non troppo diverso (e non mancherà molto che qualcuno tirerà fuori che bisogna sostenere i talebani “buoni” contro l’Isis “cattivo”).
(finito il 7 settembre 2021)
Ho parlato di
La scoperta dell'umanità
Incontri atlantici nell'età di Colombo
(Il Mulino, 2010)
trad. di G. Arganese
460 pp. | 35 €
(ed. or.: The Discovery of Mankind. Atlantic Encounters in the Age of Columbus, 2008)
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