Stanze

domenica 25 luglio 2021

Il complotto contro l'America

Per uno strano ma non così raro cortocircuito pop, qualche anno fa un capostruttura della rete televisiva HBO deve aver pensato che un libro del 2004 ambientato in un ipotetico 1940 sarebbe potuto essere il punto di partenza ideale per una miniserie che avesse voluto parlare di quanto stava accadendo nel 2018. Aveva appena cominciato a diffondersi la notizia di intromissioni russe nelle elezioni che avevano portato Trump alla Casa Bianca e un titolo come “il complotto contro l’America” sembrava effettivamente perfetto per attirare l’attenzione del pubblico. Quella serie, però, non l’ho vista, quindi, ringraziandola per il pretesto che m’ha offerto, smetto subito di parlarne. Ho invece letto, l’estate scorsa, il romanzo di Philip Roth che l’ha ispirata – e l’ho volutamente letto in un momento in cui una conferma di Trump era comunque nel novero delle possibilità, giusto per provare il brivido di leggerlo anche come una potenziale, sinistra, profezia.

Sin dalle prime pagine non si tarda infatti a constatare che le convergenze tra quel libro e l’attualità sono abbondanti, e il fatto che esso sia stato scritto in tutt’altro contesto comprova una volta di più la capacità rabdomantica della grande letteratura di percepire misteriosamente le correnti profonde della storia. Un esempio per tutti, il più banale: ben prima di diventare uno slogan elettorale di Trump, l’espressione “America First” era stata usata per designare un comitato fondato allo scopo di difendere la linea isolazionista americana all’inizio della Seconda Guerra Mondiale, il cui portavoce fu realmente quel Charles Lindbergh che, grazie alla promessa di tener fuori gli USA dal conflitto, nell’ucronia di Roth si immagina essere eletto a sorpresa presidente degli Stati Uniti nel novembre del ‘40 al posto di Roosevelt (ripeto: oggi questa informazione più o meno l’abbiamo assimilata, se abbiamo seguito con un minimo d’attenzione l’ultima campagna presidenziale a stelle e strisce, ma il volume uscì in piena temperie neo-con, quando l’America si era lanciata nel problematico e tutt’altro che isolazionista progetto di esportare la democrazia - e l’idea che quel motto potesse di lì a poco tornare di moda era assai meno ovvia di quanto possa sembrare ora). Quanto a Lindbergh, si tratta proprio dell’aviatore reso celebre dal primo volo transatlantico, una delle icone più rappresentative dei ruggenti anni ‘20, «il leggendario eroe americano che riesce a fare l’impossibile contando solo sulle proprie forze», ma anche noto antisemita e simpatizzante del regime nazista (che gli restituì la cortesia, attribuendogli la croce dell’Ordine dell’Aquila Tedesca, mai rinnegata). Roth qui non si inventa nulla, così come non sembra inventarsi neanche la voce narrante attraverso cui racconta la storia, che è quella di un bambino di nome Philip (come lui), ebreo di Newark (come lui), nato nel 1933 (come lui). Non saprei dire quanto sia veritiero il ritratto che vien fuori di sé e dell’ambiente in cui è cresciuto, ma se non è autentico, è del tutto verosimile. Come mi pare consigliasse Bradbury a chi avesse voluto scrivere un buon racconto di fantascienza - altera anche solo un elemento nell’ordine della realtà e poi prova a descrivere semplicemente quello che succede – così, più che un vero e proprio thriller fantapolitico, come ci si potrebbe anche aspettare, questo romanzo è piuttosto il racconto di quella che sarebbe potuta tranquillamente essere la storia della famiglia Roth e della traumatica iniziazione alla vita adulta di Philip se il corso degli eventi avesse preso una piega leggermente diversa, e in questo sta davvero il suo pregio.

«Ogni mattina, a scuola, giuravo fedeltà alla bandiera della nostra patria. Ne cantavo le meraviglie con i miei compagni durante i programmi collettivi. Ne osservavo con entusiasmo le feste nazionali, e senza ripensamenti sul mio feeling per i fuochi artificiali del Quattro Luglio o il tacchino del Ringraziamento o le due partite del Decoration Day. La nostra patria era l’America. Poi i repubblicani nominarono Lindbergh e tutto cambiò». Di punto in bianco questo ragazzino che colleziona francobolli con l’effigie degli eroi americani (tra cui lo stesso Lindbergh) e che non conosce altra lingua oltre a quella del suo paese natale perde di colpo la «sicurezza personale che io avevo dato per scontata come figlio americano di genitori americani di una città americana in un’America in pace col mondo», scoprendo improvvisamente che agli occhi degli altri l’unica cosa che conta è che lui e i suoi siano ebrei. Di fronte alla marea montante di un’ostilità che si fa senso comune e comincia a superare gli argini che proteggono il corso regolare della loro vita, come quando ai Roth, durante una vacanza, viene chiesto di cambiare albergo per un fantomatico errore nella prenotazione, Philip vede per la prima volta piangere suo padre («una pietra miliare, nell’infanzia, quando le lacrime degli altri sono più insopportabili delle proprie») e prende pian piano coscienza che la madre fa «tutto il possibile per nascondere ai figli il suo terrore sotto un sottilissimo strato di coraggio». Eppure, «l’essere ebrei non era né una disgrazia né una sfortuna né una cosa di cui andare “fieri”. Ciò che erano era ciò di cui non potevano liberarsi: ciò di cui non avrebbero mai neanche potuto pensare di liberarsi. L’essere ebrei derivava dall’essere se stessi, come l’essere americani. Era quello che era, era nella natura delle cose come avere arterie e vene, ed essi non manifestarono mai il minimo desiderio di cambiarlo o di negarlo, indipendentemente dalle conseguenze».

Sul punto, invece, il nuovo presidente ha ben altre idee: per lui gli ebrei non sono veramente americani e approfittano della loro enorme influenza per spingere gli USA verso una guerra distruttiva e assolutamente senza senso («invece di riconoscere apertamente che eravamo una piccola minoranza di cittadini ampiamente superati nel numero dai nostri connazionali cristiani, tendenzialmente impossibilitati a conseguire pubblici poteri dall’ostacolo del pregiudizio religioso e sicuramente non meno fedeli ai principi della democrazia americana di un ammiratore di Hitler»). Prendendo le mosse dall’antisemitismo, Roth finisce però per tratteggiare, attraverso la figura di Lindbergh, alcuni aspetti caratteristici della politica contemporanea. Il suo discorso di candidatura è di appena quarantatre parole, praticamente un tweet: la scelta non è tra me e Roosevelt – dice – ma tra me e la guerra, poiché io farò di tutto per difendere la democrazia impedendo che l’America partecipi a un altro conflitto mondiale. É così all’inizio e sarà così sempre. A parlare, per lui, è la sua stessa persona. Quando avverte un minimo segnale di crisi, indossa la sua tuta e vola in più città che può, dove ogni volta lo attendono «migliaia di cittadini che si erano radunati per vedere il loro giovane presidente con la sua famosa giacca a vento e il caschetto di pelle da aviatore». E ogni volta questa leggenda vivente ribadisce che, da quando è presidente, nessun giovane americano è morto in battaglia e nessun altro sarebbe morto finché fosse rimasto in carica. Di lui ci si può fidare, lui che «era la normalità elevata a proporzioni eroiche, un uomo perbene con una faccia onesta e una voce comune che aveva clamorosamente mostrato all’intero pianeta il coraggio di assumere il comando e la forza di fare la storia». In quelle occasioni, mentre i cinegiornali mostrano a ripetizione le immagini di un mondo in fiamme, «tutto ciò che il presidente dice alla folla è: “Il nostro paese è in pace. La nostra gente è al lavoro. Ora torno a Washington per fare in modo che le cose vadano avanti così”». E se ciò comporta un’alleanza formale con Hitler e una cena di gala per Ribbentrop alla Casa Bianca, poco male (quand’anche Hitler fosse un dittatore, e Lindbergh non lo pensa, sarebbe comunque un “utile dittatore” con cui si può scendere a patti perché funge da estremo riparo contro il ben più terrificante pericolo del comunismo sovietico). Il messaggio ripetuto ossessivamente, e che alla gente piace tantissimo sentirsi ripetere, è che «nella pacifica America di Lindbergh, l’autonoma fortezza a oceani di distanza dalle zone di guerra del mondo» nessuno è in pericolo. Sì, nessuno è in pericolo, chiosa Philip, «tranne noi».

Per la verità Lindbergh, da vero uomo-immagine, non si espone mai più di tanto, ma la sua amministrazione (con l’ultrarazzista Henry Ford agli Interni) sì. La strategia adottata è sottile, ed è in un certo senso il rovescio della medaglia dei ghetti e dei campi di concentramento sperimentati in Europa. Qui le libertà formali sono garantite, ma si procede a disgregare le comunità ebraiche, disperdendo i loro membri negli immensi territori del paese, per isolarli in mezzo a cittadini bianchi e cristiani (quei “veri” americani che si erano presi la loro terra di Canaan strappandola ai nativi a suon di pallottole), e viceversa favorendo il trasferimento di non-ebrei nei quartieri ebraici. A parole si tratta di una lodevole pratica di integrazione, nei fatti il progetto mira a «indebolire la solidarietà della struttura sociale ebraica, come pure di ridurre la forza elettorale che una comunità israelitica poteva avere alle elezioni locali e congressuali», in modo da farla restare perennemente minoritaria senza alterare formalmente le regole democratiche (metodo peraltro ancora impiegato oggi, in Texas e non solo, contro neri e latinos, per impedire che una maggioranza demografica si trasformi prima o poi in maggioranza politica). E quando qualcuno comincia a lamentarsi, quando un importante giornalista ebreo, Walter Winchell (anche lui realmente esistito), si candida contro Lindbergh - “ma cosa vogliono questi ebrei?”, si risponde, come si fa oggi coi braccianti stranieri quando scioperano per le condizioni schiavistiche cui sono sottoposti nei campi di pomodori; “ma cosa si sono messi in testa?”, “chi si credono di essere?”. In questo clima surriscaldato non tardano a scoppiare autentici pogrom, che la stampa benpensante etichetta ovviamente «come la risposta inopportuna ma inevitabile e perfettamente comprensibile» alle attività di quei piantagrane semiti che vogliono erodere con le loro provocazioni l’unità della patria. Insomma, se un ebreo protesta, è la prova di una cospirazione in corso, e la sua protesta va repressa senza pietà; se lo si uccide, invece, è solo legittima difesa, e se si è esagerato un po’ bisogna pur capire chi ha caricato la pistola. Solidarietà ai poliziotti, non a chi è ucciso dai poliziotti. E così via, e così via – tutte cose che abbiamo quotidianamente sotto gli occhi, sia pure con interpreti diversi.

Poi, a un certo punto, nell’ottobre del 1942, la situazione sfugge definitivamente di mano e Lindbergh, dopo un ultimo volo, scompare senza che nessuno sappia più niente di lui. Ironizzando sui complottisti di ogni tempo, sempre pronti a credere a qualunque scemenza per apparire più scaltri di quelli che semplicemente riconoscono l’ovvio, Roth lascia balenare che anche dietro l’elezione di Lindbergh potrebbe esserci un ben preciso piano nazista e che siano stati gli stessi nazisti ad architettarne pure la sparizione quando la sua permanenza alla Casa Bianca non sembrava più utile ai loro scopi, escogitando anche una ricostruzione dei fatti a suo modo credibile, come peraltro sembrano credibili tutti i complotti di questo mondo, perché unendo i puntini in ordine sparso possono sempre venire fuori un sacco di immagini anche più suggestive dell’arido vero. Che sia andata davvero così oppure no, però, poco importa. Quando gli attacchi contro gli ebrei si fanno sempre più insistenti, Philip osserva che le persone che li hanno provocati «non avrebbero avuto bisogno di molti incoraggiamenti per trasformarsi in una folla irragionevole e violenta grazie all’opera dei filonazisti che avevano progettato e felicemente scatenato i disordini». Che è come dire che, ci siano o no i russi dietro a Trump, il problema vero è in realtà lo sciamano di Capitol Hill e quelli della sua stessa forza, a cui basta un niente per sentirsi autorizzati a passare all’azione e nei confronti dei quali bisognerebbe fare di tutto meno che sovraeccitarli (e ricordate invece Trump ai Proud Boys? “Stand back and stand by!”). Non c’è bisogno di romanzieri per inventare simili personaggi: quelli sono già tutti lì fuori, e costituiscono le autentiche cellule dormienti che attentano alla stabilità delle nostre democrazie. L’unico vero complotto contro l’America è appunto quello che una parte stessa di americani (guarda caso, quelli che si presentano come i più patriottici di tutti) ordisce contro gli autentici valori della loro patria. «Loro credono che noi ci illudiamo di essere americani», afferma a un certo punto il padre di Philip. Lindbergh – continua - «ha il coraggio di chiamarci altri? È lui l’altro. Quello che sembra il più americano di tutti… e che è il meno americano!». Una contraddizione non molto diversa da quella di chi sventolando un simbolo giacobino come il tricolore aggredisce i valori promossi dalla Rivoluzione francese, di chi rivendica il diritto alla diversità d’opinione solo per potere togliere diritti a quelli che a sua volta considera diversi, di chi parla sempre di popolo ma difende un’idea puramente individualistica ed egocentrica di libertà. O, per citare gli ultimi venuti, dei fascisti con Mussolini tatuato sul cuore che scendono adesso in piazza sbraitando contro la dittatura e appellandosi alla Costituzione.

E allora vien veramente da dire che sì, «è vero, c’è un complotto, e io faccio volentieri il nome delle forze che lo animano: isterismo, ignoranza, rancore, stupidità, odio e paura. Che spettacolo ripugnante sta dando il nostro paese!». A pronunciare queste parole, nella finzione, è il sindaco di New York Fiorello LaGuardia, che rappresenta agli occhi di Roth quella parte di società americana conservatrice magari, ma non demagogica, di cui oggi si sente terribilmente la mancanza. É questa una componente del pool di anticorpi di cui, secondo l’autore, l’America disporrebbe e che la renderebbe alla fine capace di espellere, non senza qualche sussulto febbrile, il virus lindberghiano, tant’é che, passata la tempesta, la storia ritorna sui binari che conosciamo – e sia pure con un ritardo di due anni ci saranno un terzo mandato di Roosevelt, una Pearl Harbor e uno sbarco in Normandia. «Preso alla rovescia, l’implacabile imprevisto era quello che noi a scuola studiavamo con il nome di “storia”, la storia inoffensiva dove tutto ciò che nel suo tempo è inaspettato, sulla pagina risulta inevitabile. Il terrore dell’imprevisto: ecco quello che la scienza della storia nasconde, trasformando un disastro in un’epopea». Resteremo particolarmente esposti a questo terrore fintanto che «la sfacciata vanità di certi perfetti idioti» continuerà ad esercitare «un’influenza decisiva sulla sorte di altre persone».

(finito l'11 agosto 2020)

Ho parlato di


Philip Roth
Il complotto contro l'America
(Einaudi, 2014)

trad. di V. Mantovani

434 pp. | 13,50 €

(ed. or.: The Plot Against America, 2004)

domenica 4 luglio 2021

Il rumore del mondo

Credo che più o meno ogni monregalese abbia sentito almeno una volta nella vita la storiella secondo cui il generale Bonaparte, non ancora primo console né tantomeno imperatore, entrato trionfalmente in Mondovì dopo la vittoria del Bricchetto, dai giardini del Belvedere avrebbe affermato o scritto di essere “nel più bel paese del mondo”. Conoscendo un po’ il personaggio, non è neppure implausibile che l’abbia detto davvero, come l’avrà detto di mille altri luoghi, e che in quel momento ci credesse perfino, perché come può non essere il paese più bello del mondo quello che si attraversa quando si è giovani e vincenti? Peraltro, almeno su tale considerazione, questo libro ci suggerisce che i due secoli non avrebbero avuto motivo di essere l’un contro l’altro armati. Infatti, pur detestando visceralmente Napoleone e i suoi uomini, «i suoi soldati, i suoi burocrati, i suoi avvocati, notai, ingegneri e medici, l’intera compagine dei suoi seguaci», gente nuova, ubriacata dal pensiero «che si possano cambiare le cose e realizzare imprese mai fatte prima» - e perciò orgogliosamente in campo anche lui al Bricchetto, ma fra le fila dei granatieri di Sardegna, «per difendere la patria contro un popolo di bottegai travestiti da soldati che si vantavano di essere un’armata» e provare a tenere su «l’ultima diga (...) prima che l’inondazione travolgesse ogni cosa» e «quella modernità così volgare e rumorosa» proveniente dalla Francia si scatenasse anche sul torpido Piemonte sabaudo – anche un uomo d’altri tempi come il marchese Casimiro di Vignon avrebbe sottoscritto convintamente il giudizio di apprezzamento per questi luoghi. Tant’è che quando il figlio Prospero gli porta in casa come nuora una ragazza inglese di cui s’era innamorato a Londra e che tornato a Torino già non ama più, nel suggerirle di trasferirsi presso la tenuta di famiglia del Mandrone, sulle colline che da Mondovì scendono verso Vico, per sottrarsi così alla sofferta convivenza col marito, non pensa affatto di farle un torto. «Era convinto che non esistesse un posto al mondo più intensamente suggestivo del Piemonte meridionale, soprattutto in quel fazzoletto di terra stretto tra le Alpi, le Langhe e la pianura. Anne avrebbe avuto giornate frizzanti, mattine ricamate di brina. Sere di stelle pungenti come capocchie di spilli. Odore di freddo, di muschio, di erbacce. Si sarebbe sottratta a interminabili ricevimenti a corte, riverenze e pettegolezzi. Al Mandrone avrebbe avuto il silenzio di una notte scura come non ne esistevano altrove e le luci violette dell’alba, cangianti come gli ellebori; il paradiso era questo e non c’era crudeltà nell’offrirlo a qualcuno». Ciò che rende per me speciali queste considerazioni è che io questo paradiso ce l’ho proprio qui intorno mentre scrivo, poiché coincide esattamente con la campagna dove vivo e in cui mi ritrovavo di nuovo immerso non appena riemergevo dalle pagine che me ne stavano parlando – fenomeno abituale forse per chi abita in paesi già benedetti dalla grande letteratura (senza andare tanto distante, la Langa di Pavese o di Fenoglio), ma per me assolutamente inedito. É qui che ho avuto il privilegio di trascorrere il lockdown dell’anno scorso, ragion per cui capisco benissimo quel che dice il vecchio Casimiro pensando ad Anne: «se davvero di esilio si tratta, è illuminato dalla bellezza».

Il problema, semmai, è che da queste parti si rischia sempre di essere qualche metro indietro rispetto al passo spedito della civiltà. Alla partenza per Londra, Prospero di Vignon riceve dal ministro d’Aglié un biglietto di felicitazioni in cui gli si dice senza tanti giri di parole «state partendo per il futuro». Ed effettivamente Londra, negli anni ‘30 del XIX secolo, è in pieno fermento: mentre nella Torino della Restaurazione erano ricomparse parrucche e codini, là tutto corre al ritmo della macchina a vapore, le merci come gli uomini come le idee. Laggiù «tutto luccica, le vetrine, i mantici delle carrozze, il dorso dei cavalli intriso di pioggia. Tutto è splendore. Tutto è moderno». C’è curiosità e simpatia verso l’Italia, ma è una curiosità, come spesso capita, da cartolina: gli inglesi «credono a qualsiasi cosa, perché vogliono sentirsi dire che la Penisola è tutta un chiaroscuro, drammatica e pericolosa ma anche pittoresca e soave». Non per nulla i librai di Barnes Street, insieme alle opere di Alfieri e Foscolo, si fanno spedire «casse di vino, salumi e prosciutti, che rivendevano con un piccolo sovrapprezzo». Benedetta Cibrario, che ha diviso parti significative della sua vita adulta tra Torino e Londra, deve aver percepito in prima persona questo contrasto nella sua perdurante attualità e l’ha sviluppato in un libro avvincente che, a scanso di equivoci, fin dal risvolto di copertina viene definito “romanzo-romanzo”, perché di ottocentesco ha non solo l’ambientazione, ma anche l’impianto, che mescola narrazione in terza persona, scambi epistolari e sezioni di diario, la descrizione puntuale dei sentimenti e degli ambienti, una spiccata attenzione per il retroterra sociale degli eventi, come se l’autrice avesse voluto provare a raccontare l’Italia preunitaria con le parole che avrebbero potuto usare una Jane Austen, un Dickens, uno Stendhal o un Balzac se mai fossero stati italiani (il Grande Romanzo Italiano, si sa, mette invece le questioni a distanza, ambientandole nel Seicento, anche se le due epoche sono legate insieme coi fili di seta prodotti nelle manifatture prealpine). Poi, certo, un conto è descrivere dei processi in corso, offrendone un’interpretazione in presa diretta che diventa anche fonte preziosa per i posteri, un conto è ricostruire centosettant’anni dopo uno scenario a partire da quelle fonti, tuttavia il risultato finale è tutt’altro che disprezzabile, in quanto, al di là dell’indiscutibile valore narrativo, il racconto del matrimonio fallimentare tra un altezzoso aristocratico piemontese e la brillante figlia di un ricco mercante inglese di stoffe offre una rappresentazione abbastanza verosimile di quelle dinamiche che da un po’ di tempo a questa parte sono state sottolineate anche dalla storiografia - e cioè che il Risorgimento italiano, prima ancora che dalle guerre di indipendenza, è stato innescato dal rinnovamento delle tecniche agricole e manifatturiere e che l’opera intrapresa da Cavour nelle sue terre di Leri non è stata meno importante di quella svolta poi come primo ministro del Regno, anzi è strettamente connessa con essa.

Il “rumore del mondo” è appunto quello che a un certo punto comincia ad arrivare perfino qui, alla periferia dell’impero, nella sonnacchiosa provincia granda. É sempre il marchese Casimiro a percepirlo nitidamente: «aveva visto avvicendarsi al potere re, consoli, prefetti, imperatori, altri re; cravatte alte, basse, zimarre, parrucche, spadini; non era così sordo da non sentire ovunque un brusio sotterraneo, un intreccio di voci nuove, mai avvertite prima; e non era così cieco da non vedere gli sguardi del mondo che puntavano verso orizzonti ignoti. Qualcuno continuava a voltarsi indietro, nella speranza che il passato potesse fare da scudo contro le incognite del futuro; qualcun altro confidava nel domani; c’era chi tesseva e chi disfaceva la tela, chi tirava i fili e chi li svolgeva. Contro questo rumore del mondo non aveva difese adeguate; temeva che tutta la complessa architettura del secolo – quella in cui si sentiva protetto e al sicuro – gli sarebbe crollata addosso, come aveva visto crollare la sua quercia scavati dai tarli: un involucro vuoto che al primo colpo di accetta si era schiantato a terra con un boato». Eppure quest’uomo già incamminato verso la vecchiaia, che deplora la velocità garantita dai più recenti piroscafi perché «uno dei vantaggi della distanza è che ciò che è troppo dissimile da noi possa restare lontano a sufficienza», e che ha passato la vita a litigare con la moglie ginevrina perché lei considerava sepolcrale quell’atmosfera torinese che per lui era invece, fin nella topografia «regolare, logica, mai scalena» della città, la quintessenza dell’ordine e della «società gerarchica, ordinata e ubbidiente, che aveva conosciuto da bambino», quest’uomo che si vestirà a lutto il giorno in cui Carlo Alberto concederà lo Statuto, ecco, persino lui finisce per essere coinvolto da tutto questo sommovimento e cede almeno in parte alle sirene dell’epoca presente, arrivando a considerare il figlio, totalmente sordo a questi richiami, come «un pollone nato da una vecchia radice, all’apparenza pieno di gioventù e vigore, ma in realtà un getto sterile, di quelli che i giardinieri recidono al piede». Di ben altra tempra è Enrico Verra, un audace imprenditore monregalese «convinto che in tutte le cose può nascondersi un “oltre”» e che mettendo insieme competenza tecnica, visione del mondo e intraprendenza si possa letteralmente fare tutto: «non è appassionante? Non è il futuro, questo?». Verra ha in mente di costruire «la prima grande fabbrica del Piemonte meridionale», «un edificio solido e multipiano. Grandi navate, come in una cattedrale», «una cattedrale di seta», ma per farlo ha bisogno di capitali e di entrature, che Casimiro, lungamente corteggiato, infine gli concede, attratto dall’idea di lasciarsi per un attimo trascinare anche lui dal «vento del secolo». Non si tratta solo di soldi, nota infatti Verra - «il punto è che non possiamo restare indietro. Non sentite l’energia che c’è nell’aria?».

L’Ottocento è «un secolo ridondante, enfatico; meravigliosamente ingenuo», ma è anche «il secolo che vede il mondo diventare contemporaneo», con un salto mortale durato lo spazio di una sola generazione – e per questo, accanto alle sue magnifiche promesse, esso squaderna anche le contraddizioni che caratterizzano ancora il nostro tempo, come ricchi che diventano sempre più ricchi mentre i poveri diventano sempre più poveri e invenzioni nate per liberare gli uomini che si trasformano in strumenti di rinnovata schiavitù. Significativamente, il romanzo si conclude nel 1848, e cioè appena all’inizio del percorso che avrebbe cercato di dare un’adeguata cornice istituzionale a tutte queste trasformazioni, per lo meno in Italia. Questo finale aperto mi pare un modo indiretto per alludere al fatto che ora il problema si pone in un certo senso di nuovo, benché su scala più ampia. Non vorrei forzare troppo le cose, ma mi sembra che il messaggio tendenzialmente ottimistico proposto da questo libro sia in fondo il seguente: niente paura, anche i sovranisti apparentemente più incalliti, nel momento stesso in cui usano i social network o progettano – per dire – improbabili coalizioni a livello europeo, stanno involontariamente contribuendo al superamento dell’ordine che vorrebbero difendere, perché ne stanno già accettando di fatto le regole, anche se dicono il contrario. Chissà se Londra detta ancora la linea del futuro e se un’italiana d’Inghilterra come la Cibrario, pur parlando del passato, ne abbia davvero fiutato qualche anticipazione.

(finito il 20 luglio 2020)

Ho parlato di


Benedetta Cibrario
Il rumore del mondo
(Mondadori, 2018)

756 pp. | 22 €