Giunti circa a metà della storia, il buffone che dà il titolo all’opera (reincarnazione quasi omonima di un personaggio del repertorio folclorico tedesco, cugino germanico dei nostri arlecchini) dona un dipinto alla regina di cui è al servizio (che è una regina per modo di dire, come vedremo, e che anzi assolda un buffone proprio per dimostrare di essere una regina, perché solo le regine hanno dei buffoni al proprio seguito) - anzi non proprio un dipinto, ma «una tela bianca con niente sopra», raccomandandole di mostrarlo a tutti e di spargere la voce che «i figli illegittimi e gli idioti e i ladri e le carogne con cattive intenzioni non vedono niente, né il cielo azzurro né il castello né la splendida fanciulla affacciata al balcone che cala la treccia dorata, e nemmeno l’angelo alle sue spalle. Dillo a tutti, e guarda cosa succede!». E quel che succede è che gli ospiti a cui viene mostrato il quadro restano interdetti: naturalmente nessuno vede niente, e sono tutti perfettamente consapevoli che davanti a loro c’è solo un’anonima tela bianca, ma metti caso che invece la regina creda a quello che dice così come crede di essere una regina o che il dipinto sia davvero magico o che ci si voglia burlare di loro, mica possono ammetterlo apertamente e fare così la figura degli scemi – e perciò restano al gioco. Non so se l’apologo sia del tutto originale (poco importa), ma rende bene l’idea di quel che può accadere quando si commenta qualcosa che ti viene proposto come un capolavoro. Forse vale ancor più in filosofia che in letteratura: chi vuol restare col cerino in mano e confessare che un certo testo non dice niente, correndo il rischio di apparire come l’unico fesso che non ha la profondità di pensiero per seguire i complicatissimi ragionamenti che invece vi sarebbero formulati? A nessuno piace interpretare la parte dell’amico tontolone a cui si devono spiegare le barzellette. E allora che si fa? Si abbozza, e si rimescola nel torbido, rifugiandosi nel gergo per cercare di stare al passo con gli altri.
L’ho presa un po’ alla larga per arrivare a dire che la lettura di questo romanzo mi ha lasciato un po’ la stessa sensazione della tela bianca di cui sopra. Questo libro, infatti, ha venduto tantissimo, in giro se ne parla un gran bene, è in lizza coi favori del pronostico per un riconoscimento importante come il Man Booker International Prize, eppure, nonostante tutte queste sollecitazioni, io continuo a non vederla, la fanciulla con la treccia dorata e l’angelo alle sue spalle. Intendiamoci, Kehlmann scrive bene e diversi passaggi della storia sono effettivamente memorabili. Trovo, in particolare, che abbia un talento raro nel raccontare la caducità delle cose e la nostalgia che ne deriva, il senso di disfacimento degli orizzonti consolidati, lo sfumare del reale in irreale e della vita nella morte, oltre che una notevole capacità di giocare con le proprie fonti, mescolandole e rielaborandole in modo tale da trasformare quello che apparentemente è un romanzo storico in un “romanzo contemporaneo che si svolge nel passato” (definizione che, se ho capito bene, dovrebbe essere proprio sua). Tutti questi elementi erano già presenti nel precedente, e per me folgorante, La misura del mondo. Qui, però, la sensazione è che l’autore abbia voluto alzare l’asticella, perché la scelta di confrontarsi con quel carnaio che è stato la guerra dei Trent’Anni, vale a dire con l’altro Seicento rispetto a quello del cannocchiale galileiano e del metodo geometrico, sottintende l’intenzione di andare proprio alla radice dei conflitti e delle contraddizioni di una modernità da cui, per certi aspetti, non siamo ancora interamente usciti. E da questo punto di vista, forse anche per le altissime aspettative che avevo (mi capita di rado di acquistare un libro appena uscito e ancor più di rado di leggerlo subito dopo averlo comprato), mi viene da dire che la montagna ha partorito un topolino elegante, ma pur sempre un topolino.
Provo a spiegarmi. Il filo conduttore di una trama non lineare è costituito dal ripresentarsi, nelle varie sequenze narrative, del personaggio di Tyll Eulenspiegel, «qualcuno che fa davvero ciò che vuole e non crede a niente e non obbedisce a nessuno», il quale esordisce sulla scena – è il caso di dirlo – già adulto, con una performance che ricorda un po’ quella del funambolo dello Zarathustra (con la differenza che a ridere, alla fine, è lui, non la folla), ma di cui poi si racconta l’infanzia, segnata dalla figura di un padre che non solo fa lo stesso mestiere del mugnaio Menocchio, ma condivide con lui analoghi interessi spirituali oltre che la stessa fine violenta dopo un processo indetto dall’Inquisizione. Fuggito dal paesello ancora ragazzino e messosi a “camminare il mondo” (come si diceva allora), Tyll appare e scompare in diversi episodi cruciali della guerra, sotto diversi travestimenti, costituendo per un certo periodo quasi tutto il personale della striminzita e surreale corte itinerante del Re d’Inverno, lo sventurato Federico del Palatinato, dalla cui temeraria decisione di accettare il trono di Boemia aveva preso le mosse il conflitto e che dopo essere stato destituito percorse tutta Europa rivendicando una corona che nessuno aveva più intenzione di dargli (la moglie Elizabeth, che lo accompagna in questo calvario, è appunto la regina cui Tyll regala la sua tela bianca). Lo troviamo anche sul campo di battaglia di Zusmarshausen, terreno dell’ultimo, devastante, scontro della guerra, avvenuto quando ormai le trattative in Vestfalia erano già a buon punto. In quell’occasione, l’ufficiale che era andato a cercarlo per portarlo a Vienna su ordine dell’imperatore e che pure, da anziano, scriverà delle compiaciutissime memorie, si rende conto che quello cui sta assistendo «non si poteva descrivere. (…) Già quando raggiunse la sommità dell’altura uscendo dal bosco e, al di là del fiume in fondo alla valle, vide l’esercito dell’imperatore che si allargava fino all’orizzonte, con le postazioni per i cannoni, i moschettieri nelle trincee e i reparti di picchieri, le cui picche gli apparvero come un secondo bosco, il grasso conte ebbe l’impressione di assistere a qualcosa di irreale. Tutti quegli uomini insieme schierati in formazione erano così difficili anche solo da concepire, che destabilizzarono l’equilibrio naturale». Ma cos’è reale e cosa irreale? La regina Elizabeth, che da giovane figlia del re d'Inghilterra aveva assistito in prima fila alle rappresentazioni di Shakespeare, era giunta a questa conclusione: «le persone salivano sul palco e fingevano di essere qualcun altro, ma lei aveva capito subito che non era così e che anche la finzione era soltanto una maschera, perché non era il teatro a essere falso, no, era tutto il resto a essere posa, travestimento e orpello, era falso tutto ciò che non era teatro».
Ecco, di fronte a un mondo ingovernabile, in cui sangue vero scorre a fiumi in base alla credenza che uno sia re oppure no, ed evanescenti opinioni immateriali hanno il singolare potere di muovere il pesante acciaio delle spade, si possono assumere diversi atteggiamenti. Si può ragionare, infatti, come il coltissimo gesuita Athanasius Kircher (“the last man who knew everything”, come recita il titolo di una recente raccolta di saggi a lui dedicata), il quale, messosi in viaggio alla ricerca di un drago dal cui sangue ricavare un rimedio contro la peste (pur sapendo che «un drago che fosse stato visto sarebbe un drago a cui manca il principale requisito di un drago, che è appunto quello di rendersi introvabile»), si trova a rimpiangere il «suo laboratorio, dove tutto era sotto controllo mentre in qualunque altro posto regnava il caos totale». «Perchè – si chiede – la creazione di Dio si mostrava tanto recalcitrante, da dove veniva quella ostinata tendenza al disordine e allo scompiglio? Ciò che per lo spirito era chiaro, là fuori si rivelava un groviglio inestricabile. Kircher aveva compreso presto che bisognava seguire la ragione senza lasciarsi turbare dai ghiribizzi della realtà. Se si sapeva quale risultato doveva dare un esperimento, l’esperimento doveva dare quel risultato, e se si possedeva una visione nitida delle cose, nel descriverle bisognava rendere giustizia alla sostanza e non all’apparenza». In questo modo era riuscito nell’impresa ineguagliabile di decodificare i geroglifici egiziani, anche se dall’Oriente gli giungevano di continuo lettere di confratelli duri di comprendonio che «riferivano di sequenze di simboli che non rientravano nello schema da lui descritto, costringendolo a rispondere che non aveva alcuna importanza cosa avesse inciso sulla pietra diecimila anni prima un babbeo qualunque, un misero scribacchino, che su quella scrittura non vantava certo la competenza di un’autorità come lui». Kircher ne è talmente convinto che ha già scritto il capitolo del suo libro dedicato ai draghi prima ancora di partire per la missione. L’idea precede la realtà e la realtà non fa che confermare l’idea: è su questa base, appunto - magari non fanatica, ma certo dogmatica - che si pretende di incatenare il divenire e si intentano tutte le indagini di tipo inquisitoriale, come quella che lo stesso Kircher aveva allestito per condannare il padre di Tyll, convinto com’era che trafficasse col demonio. L’alternativa proposta da Kehlmann è fare invece proprio come Tyll, ossia ridere e deridere tutto e tutti, con la leggerezza a tratti anche feroce dell’equilibrista che sta sospeso a mezz’aria mentre sul resto del mondo si stende la falce della morte e i regni si susseguono l'un l'altro. «Rido perché io non muoio», ripete, da buon escapista, sepolto sotto una muraglia crollata durante l’assedio di Brno: «io non muoio. (…) Me ne vado. Ho sempre fatto così. Quando si mette male, me ne vado». A differenza, però, di Tom Joad, che continua a girovagare per denunciare le ingiustizie diffuse nel mondo, Tyll vagabonda ancora, come ha sempre fatto, sottolineandone assurdità e incongruenze. Tutto questo è molto interessante e sicuramente ben detto, anche se alla lunga risulta un po’ dispersivo (ripeto, La misura del mondo giunge a conclusioni simili in modo meno faticoso). Ma soprattutto c’era davvero il caso di scomodare il Seicento e disseminare il testo di continue criptocitazioni per ripetere quello che in fondo ci ha già rivelato il Comico di Watchmen?
(finito il 4 settembre 2019)
Ho parlato di
Daniel Kehlmann
Tyll. Il re, il cuoco e il buffone
(Feltrinelli, 2019)
trad. di M. Pesetti
320 pp. | 18 €
(ed. or.: Tyll, 2017)
Che peccato che il libro non ti sia piaciuto! Io l'ho amato moltissimo, più per la capacità di delineare una cultura popolare, un modo di vedere la vita, un caos di fondo che nulla ha a che fare con la nostra razionalità, che per la trama in sé. D'altronde lo sottolinei con chiarezza anche tu, non è un romanzo storico. forse nemmeno "un romanzo contemporaneo che si svolge nel passato" come dice l'autore stesso. Per me è stato un ritorno all'infanzia, il ricordo di quel Tyll vivace e scanzonato che veniva a rallegrare le mie serate di bambina. C'è qualcosa di mitico, di irrazionale in questo libro: o ti affascina o ti annoia. Sei comunque un ottimo recensore!
RispondiElimina