É la prima volta che mi capita di divulgare in rete le mie impressioni su un libro scritto non solo da una persona che conosco e che può leggere quel che ne penso perché è un “amico” su Facebook, ma che, per usare categorie antropologiche ancora più aggiornate, è stato ed è ben più che un amico, direi quasi un congiunto, uno che, sin da da quando avevo ancora più capelli che barba, ha cominciato a prospettarmi - in modo informale dapprima, e poi con crescente vigore, man mano che crescevo anch’io e che si addottorava lui - un orizzonte promettente verso cui indirizzare vita e pensiero, la cui sintesi più aggiornata si può trovare ora rifusa in questo libretto non troppo spesso, ma incredibilmente denso, disseminato di rimandi a personaggi e temi di cui negli anni ci è capitato anche di discutere insieme, scoperte progressive di un percorso che mi ha strutturato come persona e di cui lo ringrazio. L’autore può comunque dormire tranquillo: nonostante la premessa sdolcinata, non ho nessuna intenzione di commettere un parricidio.
Duilio sembra qui recuperare l’antico modus operandi dei glossatori medievali, capaci di sviluppare pagine e pagine di commento intorno a poche sezioni di testo autorevole. Il fatto che si concentri su un’espressione tratta da Evangelii Gaudium è già di per sé una scelta di campo, in quanto finalizzata a mettere in luce tutta la profondità teologica di un papa come Francesco e a restituircene così un profilo assai più ricco di quello da bonario curato di paese a cui vogliono ridurlo coloro che scambiano o fanno finta di scambiare per povertà di contenuti quella che in realtà è solo l’adozione, da parte sua, di un peculiare tipo di linguaggio (in linea, peraltro, con il Maestro di Nazareth, il cui continuo ricorso al lessico semplice dei contadini e al loro repertorio quotidiano d’immagini rendeva i suoi discorsi così distanti dal tono saccente dei dottori della legge e di quanti, in ogni epoca, sanno a memoria il diritto divino e le formule della dottrina). Se un solo rigo di un’esortazione apostolica può mettere in moto una riflessione così articolata, avremmo davvero di che meditare per i prossimi duecento anni. Sorprende invece che di tutto questo, in fondo, non se ne parli, se non in ristrettissimi circuiti, come se la fede non richiedesse appunto una continua rielaborazione per continuare ad essere qualcosa di significativo anziché ridursi ad un feticcio per collezionisti tenuto perennemente incellophanato perché non si rovini (il fatto che nella pastorale si senta così poco il bisogno della riflessione è un tema che bisognerebbe prima o poi affrontare).
É proprio di questo che qui si ragiona, con un’ampiezza di vedute che, dopo un paio di capitoli di rodaggio critico, si dispiega nella seconda parte con la forza di un vero e proprio discorso sul metodo. Fede e vita devono essere necessariamente giustapposte, secondo quella tradizionale distinzione di sacro e profano che le rende alla fine reciprocamente irrilevanti l’una per l’altra (o tutt’al più fa della fede un “supporto” non diverso dall’andare in palestra o iscriversi a un corso di yoga per conservare il proprio equilibrio psicofisico), oppure il cuore del messaggio di Gesù (prefigurato dallo squarcio nel velo del tempio all’ora della sua morte) è che tutta la vita può diventare sacra perché ogni suo momento, anche quello più estremo e doloroso, può essere abitato dalla presenza di un Dio che “salva” non perché ce ne tira fuori con un gioco di prestigio (come se ci dicesse: “vedi? La vita fa schifo e non porta da nessuna parte, l’ha inventata qualche demone malvagio, ti va bene che ci sono io a trasportarti nell’iperuranio”), ma perché ci apre continuamente gli occhi sulle «buone occasioni, che sono offerte, per realizzare il giusto senso del vivere»? Parlare di “fede cristana come agire nella storia” significa appunto incardinare la fede nella concretezza dinamica della nostra quotidianità, affinché smettiamo di concepirla come qualcosa che può immunizzarci dai rischi che la vita sempre comporta e impariamo ad accoglierla come ciò che, al contrario, ci abilita ad affrontarli, in quanto ci fa rintracciare nella vita stessa «le risorse disponibili per attivare una fiducia che si mostri effettivamente fondata», in quanto poggia su «Colui che si prende cura di quella promessa generativa, che sta alla base della storia di ciascuno». Solo in questo modo si può rendere vera testimonianza a quel «desiderio appassionato di Dio di scendere fino in fondo dentro tutte le dimensioni dell’esperienza umana» al punto da prendere definitiva dimora in mezzo a noi (mentre è noto il destino finale di coloro che, ripetendo “Signore, Signore”, continuano a cercare tra i morti colui che è vivo e non sanno riconoscerlo dove Lui si rende realmente presente, confondendo il dito con la luna).
A quanti amano dire che Dio è fuggito dal nostro tempo di povertà, si può perciò rispondere che, se Dio ha saputo stare su una croce romana, saprà stare anche nel moderno e derelitto tecnoevo consumistico e turbocapitalistico, anche se non certo per benedirlo, dal momento che il Dio biblico, a differenza degli dei mitologici e degli idoli di ogni epoca, non supporta mai l’esistente, ma «si schiera dalla parte delle vittime e pronuncia il suo “amen” sull’impegno umano contro l’ingiustizia e la prevaricazione dispotica» (ed è per questo che «non vi può essere alcuna ermeneutica teologica senza critica dell’ideologia», compresa la stessa ideologia religiosa). Così, anche ammettendo che oggi siamo davvero immersi nella notte più buia, «il regno di Dio è già presente, perlomeno in forma inaugurale, ovunque si spezza la logica ferrea e apparentemente ovvia del destino. Il Dio di Gesù è appunto l’iniziatore, ossia colui che con gli uomini avvia il bene che porterà a compimento nel suo Regno» - l’iniziatore del bene, si badi, non l’estirpatore del male. Questo Regno con la maiuscola non può avere l’aspetto arcaico del “già dato”, dal momento che ogni sosta non è che una tappa momentanea della marcia, non necessariamente progressiva, verso una terra promessa che supererà qualsiasi provvisoria configurazione terrena, e neppure può essere espresso con parole esotiche che evochino il “totalmente Altro”, perché quell’Altro si è impegnato in una relazione con l’uomo in cui «l’uomo è implicato come partner, in quanto la sua libertà è sollecitata ad una risposta che richiede una disposizione di fiducia e al contempo un coinvolgimento in prima persona, nella scelta di esporsi ed agire a beneficio di altri». Di conseguenza, e analogamente, la “vita eterna” di cui parla Gesù non potrà essere un’immersione totale e annichilente in Dio, perché così Dio tornerebbe ad essere l’Unico neoplatonico e finirebbe per perdere il carattere strutturalmente relazionale che la sua stessa Rivelazione manifesta. “Vita eterna” è invece il compiersi della promessa, contro ogni evidenza, che nulla di buono sarà perduto, e che dunque ciò che è “buono” merita di essere coltivato già qui ed ora, anche se i suoi frutti restano ancora frammentari e incompleti, perché, senza questa fiducia, allora sì che tutto sarebbe vanità delle vanità, un inutile correre dietro al vento (sta qui, per me, la differenza fondamentale tra immortalità dell’anima e resurrezione della carne). La liturgia pasquale è quanto mai esplicita al proposito: Dio apre, apre e apre – la barriera d’acqua del Mar Rosso, i sigilli del sepolcro, le porte del recinto in cui vogliono entrare ladri e briganti per esercitare il loro potere - e ci invita a non avere paura non perché e in quanto le “nostre” strutture terrene sono solide e trionfanti, ma perché la sua compagnia non verrà mai meno, in nessuna circostanza, e proprio per questo, in nessuna circostanza, verrà mai meno la possibilità di riattivare sorprendenti forme di fraternità, anche attraverso la barriera apparentemente insuperabile della morte.
Con tutto ciò – e chiudo, per esigenze di sintesi, non perché manchino le cose da dire – uno degli aspetti più interessanti sottesi all’intero discorso è che il richiamo fondativo alla cultura come orizzonte ineliminabile con cui deve misurarsi anche la fede religiosa (dal momento che la libertà umana «risulta sempre collocata entro la situazione concreta di una determinata epoca storica e di un preciso legame interpersonale e sociale» e il Verbo stesso non si è fatto semplicemente "uomo", ma giudeo sotto Augusto) offre gli strumenti per elaborare un’efficace ecclesiologia – e, di riflesso, una politica - “popolare” ma non “comunitarista”, capace cioè di accogliere gli specifici contributi che sono stati prodotti e tramandati nella storia degli uomini e delle nazioni, senza per questo cedere alla logica di chi vorrebbe erigere barriere fra queste diverse tradizioni, immaginandole come i mondi a sé ed eternamente uguali che non sono mai stati, ma anzi promuovendone lo sviluppo interno e facilitando il dialogo tra essi (compresa la già citata società contemporanea che, quanto a vizi e virtù, non sarà poi tanto diversa dal mondo pagano con cui si misurò la comunità apostolica – sì, proprio quella che di fronte al problema delle vedove di lingua greca si inventò, per esempio, la figura inedita del diaconato offrendoci un modello di cosa si intende per «ripresa creativa» del passato). Che poi, è davvero così strano? I nostri genitori noi li amiamo eppure siamo distinti da loro e vivere la nostra vita non significa rinnegare per forza le proprie origini: è tipico, semmai, dell’astrazione, cioè di quanto di più distante ci sia dalle decantate “radici”, ridurre tutto a opposizioni irriducibili – in questo caso: lacerazione aut immedesimazione – quando la vita, appunto, ci insegna ben altro, per esempio che la felicità di un genitore è la felicità del figlio e che c’è qualcosa di morboso nel padre a cui preme solo mostrare al figlio la sua inadeguatezza e per questo fa le cose al posto suo. Poi, sicuramente anche qui ci saranno correttivi da fare, aggiustamenti, e verrà anche il tempo della revisione, ma affermare che questo modo di pensare sia un cedimento alla logica moderna, un allontanamento dal vero modo di intendere l’esperienza cristiana, addirittura una forma di apostasia mascherata mi pare talmente incredibile che faccio fatica a non vederci dietro o pura malafede o un sincero terrore di avventurarsi in mare aperto o una concezione latamente gnostica per cui il creato sarebbe talmente orrendo che neanche Dio potrebbe redimerlo. Ma in questo modo, paradossalmente, proprio chi più pensa di glorificare Dio nell’unico modo adeguato si ritroverebbe in realtà a doverne ammettere la sostanziale sconfitta.
(finito il 30 agosto 2019)
Ho parlato di
Duilio Albarello
«La grazia suppone la cultura».
Fede cristiana come agire nella storia
(Queriniana, 2018)
(Giornale di Teologia, 408)
188 pp. | 14 €
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