Un’altra lettura che segnò profondamente i miei diciott’anni fu L’assommoir di Emil Zola – e si trattò di un episodio non scontato, per me che all’epoca prediligevo di gran lunga i territori del fantastico (non fantasy, né solo fantascienza: un repertorio più ampio e indefinibile, che comprendeva, per dire, Poe e Kafka, Borges e Landolfi - tutta gente, comunque, sempre un po’ ai confini della realtà). Una componente non secondaria del favore accordato allora a quel romanzo nasceva, certo, dalla scoperta di quanto potesse essere visionaria anche la cosiddetta letteratura realistica (provare per credere: l’alambicco della distilleria di papà Colombe ribolle della stessa forza maligna di It); tuttavia ciò che si sedimentò sotto traccia da qualche parte nella mia testa fu la consapevolezza che le potenzialità conoscitive di quel genere di scrittura andavano ben oltre la mera funzione documentaria che fin lì mi ero limitato, un po’ sdegnosamente, ad accreditarle e che me l’aveva fatta considerare, a torto, tutta piatta e noiosa. Ma da adolescente vivevo ripiegato nella mia fortezza interiore, piuttosto insensibile – anche se non me rendevo conto – all’appello di un mondo che mi appariva più accogliente di quello odierno, e di cui non mi sembrava perciò così importante comprendere il funzionamento. Ora che quel seme è definitivamente maturato ed ho imparato sempre più ad apprezzare l’interpretazione della storia che passa attraverso delle storie, ho deciso di rendere omaggio alla mia fonte prima d’ispirazione, approfittandone anche per arricchire ulteriormente il mio catalogo di testi spendibili a scuola, perché traduzione vivida di quanto raccontato, come si può, in classe.
Se Zola fosse vissuto oggi, avrebbe potuto tranquillamente realizzare il suo grandioso affresco dei Rougon-Macquart come una lunga serie televisiva suddivisa in stagioni dedicate, volta per volta, a questo o quel personaggio della linea genealogica, con conseguenti slittamenti tematici e d’ambientazione tali da non renderla mai ripetitiva. Qui, per esempio, i riflettori sono puntati su Etienne Lantier, che era un ragazzino nell’Assommoir, ma ora è cresciuto, fa l’operaio e, dopo aver perso il lavoro in seguito a una lite col suo capo, cerca impiego in una grande miniera di carbone del nord della Francia, grosso modo alla metà degli anni ‘60 dell’Ottocento. Da cittadino, il suo impatto con quella realtà è devastante: «era mai possibile ammazzarsi con un lavoro così duro in quelle tenebre mortali e non guadagnare nemmeno il necessario per comprarsi il pane quotidiano?». Nel villaggio dei minatori in cui viene accolto si respira un’atavica rassegnazione: centinaia di disgraziati sacrificano da generazioni le proprie vite e quelle dei propri figli immergendosi quotidianamente in un pozzo che sembra respirare affannosamente, come un mostro gigantesco, «a causa della laboriosa digestione di tanta carne umana» offertagli in dono da quell’altro mostro, il capitale, «dio impersonale, sconosciuto all’operaio, accovacciato da qualche parte, nel mistero del suo tabernacolo da dove succhiava la vita dei morti di fame che lo nutrivano». Lì si capisce cosa vuol dire che la Rivoluzione non era stata per tutti: «dall’89 era la borghesia che si ingrassava, con una tale ingordigia che al lavoratore non restava nemmeno il piatto da leccare. Chi poteva dire che la classe lavoratrice aveva ricevuto la sua parte nella straordinaria crescita di ricchezza e benessere degli ultimi cent’anni?». Il progresso, beata ingenuità.
Zola non è uno che va tanto per il sottile: la degradazione umana non la edulcora, ma te la sbatte in faccia, in tutta la sua disturbante sgradevolezza, senza facili idealismi e perfino con un filo di compiacimento per certe soluzioni melodrammatiche (il minatore è brutto, sporco e violento: quando si arrabbia non sa trattenersi e gode del sangue versato). Ma ancor più disturbante, nella sua ricostruzione, è il peloso moralismo con cui i pasciuti borghesi filtrano questa realtà senza capirla: brave persone, per carità, di quelle che non hanno mai fatto del male a nessuno e anzi si prodigano in elemosine (solo in natura, contessa, perché si sa che i soldi gli operai se li bevono tutti), ma che non sono neanche minimamente sfiorate da qualche dubbio sulla legittimità del sistema perverso che li nutre e li tiene bene al caldo. Di fronte a tutto questo, sin dal suo primo giorno di lavoro, Etienne sviluppa una propria coscienza politica attraverso un confronto spesso aspro con il riformista Rasseneur e l’anarchico Suvarin (controfigura di Bakunin e di tutti quei terroristi di cui è piena la letteratura russa del tempo), fino a diventare militante della Prima Internazionale e leader sindacale. Rapidamente, le parole con cui invita a spezzare il giogo dell’ineluttabilità accendono nei suoi compagni il desiderio di un’altra vita - e, immergendoti nella loro esistenza miserabile, capisci anche bene perché qualcuno era comunista. Zola paragona ripetutamente questi uomini infervorati dalla predicazione rivoluzionaria ai «primi cristiani che attendevano la nascita di una società perfetta dal letamaio del mondo antico»: «un’esaltazione religiosa li sollevava da terra, la febbre di speranza dei primi cristiani in attesa dell’imminente avvento del regno della giustizia».
L’ennesima angheria contrattuale giustificata appellandosi ai mercati induce infine i minatori allo sciopero a oltranza. Non è una scelta facile. Niente lavoro vuol dire niente paga e quindi niente cibo, senza la sicurezza che tutto ciò serva davvero a cambiare le cose. Nonostante i rischi, i lavoratori «avevano (...) una fiducia assoluta, una fede religiosa, la cieca devozione di un popolo di credenti. (…) La fame infiammava le menti, mai l’orizzonte chiuso di questi uomini allucinati dalla miseria si era aperto come adesso a un aldilà più vasto. Quando la vista si abbassava a causa della debolezza, rivedevano la città ideale del loro sogno, vicina, come reale, con il popolo di fratelli e l’età d’oro del lavoro e dei pasti in comune. Niente scalfiva la convinzione che quel sogno si sarebbe avverato». In realtà lo sciopero non produrrà affatto i risultati agognati e, anzi, alla fine del romanzo tutto sembra tornare esattamente come prima, per lo meno per chi è sopravvissuto. Ma non si tratta di un totale fallimento. Mentre abbandona il villaggio, riprendendo il suo cammino, un anno circa dopo il suo arrivo, Etienne sente risuonare lungo la strada i colpi dei minatori al lavoro. «Sotto i raggi incandescenti del sole, in quella giovane mattina, era di quel rumore che la terra era gravida. Germogliavano uomini, un esercito nero, vendicatore, che cresceva lentamente nei solchi, pronto per le raccolte del prossimo secolo, e la sua germinazione avrebbe ben presto fatto esplodere la terra».
Vera e propria Iliade della modernità, per l’afflato epico e il respiro quasi mitologico del suo incedere, anche Germinale, come Cuore di tenebra, è un libro spartiacque, che chiude l’Ottocento della semina e apre il Novecento dell’auspicata mietitura: «la guerra era ormai dichiarata e la pace impossibile». Per Zola, il processo messo in moto dalle lotte operaie era come una forza tellurica destinata inevitabilmente a sovvertire l’ordine sociale, perché sarebbe presto giunto il momento in cui qualunque sacrificio sarebbe stato preferibile a quella vita offesa. «Le cose sarebbero ben presto cambiate proprio perché adesso l’operaio pensava. È vero, ai tempi del vecchio, il minatore viveva nella miniera come una bestia, come una macchina per estrarre carbone, sempre sottoterra, occhi e orecchie chiusi a quel che accadeva là fuori. Così i ricchi che governavano avevano buon gioco nel mettersi d’accordo, nel venderlo e nel comprarlo, nel mangiarselo vivo senza che lui se ne accorgesse. Ora però il minatore laggiù in fondo aveva cominciato a svegliarsi e germogliava nella terra proprio come fa un seme e un bel mattino tutti si sarebbero accorti di quello che stava spuntando nei campi: sì, sarebbero spuntati degli uomini, un esercito di uomini che avrebbero ristabilito la giustizia. (…) Ah! Cresceva, cresceva lentamente una robusta messe di uomini che sarebbe maturata al sole e dal momento che nessuno era più incatenato al proprio posto per tutta la vita, e che era possibile ambire al posto del vicino, perché non iniziare la lotta e cercare di vincere?».
Com’è andata davvero a finire, noi lo sappiamo. Nessuna palingenesi, ma quelle lotte e quei morti ci hanno comunque garantito fondamentali conquiste sociali, la cui odierna messa in discussione risuscita esattamente le stesse comprensibili paure di allora. Quando la Compagnia assolda dei belgi perché lavorino al posto degli scioperanti, fra i minatori si sollevano ad esempio grida preoccupate di questo tipo: «a morte i belgi! Niente stranieri a casa nostra! (…) Morte agli stranieri! (…) Vogliono essere padroni a casa nostra», il tutto per la gioia dei padroni che speculano sulle lotte fra poveri. Ma neanche i piccoli imprenditori possono stare al sicuro: uscita pressoché indenne dai disordini, alla fine la grande Compagnia riuscirà a comprarsi a prezzo agevolato l’unica miniera ancora indipendente della regione: «era la campana a morto delle piccole imprese, l’annuncio della prossima scomparsa dei piccoli proprietari, divorati uno a uno dall’orco del capitale perennemente affamato, sommersi dalla marea montante delle grandi compagnie». Problemi come questi oggi trovano ampia cassa di risonanza in quei politici che fanno di tutto per riprodurre le emozioni dei cittadini, ma non trovano reali soluzioni da parte loro, perché le soluzioni richiedono analisi, metodo, comprensione dei fatti – in una parola studio, motore di ogni autentica liberazione: «grazie all’istruzione un giorno sarebbe scoppiato tutto per aria. Era sufficiente guardare come andavano le cose all’interno di quello stesso villaggio: i nonni non erano capaci di scrivere il proprio nome, i padri ormai lo scrivevano, mentre i figli adesso scrivevano e leggevano come professori». L’ignoranza non è una colpa, se diventa premessa per la ricerca: che venga ostentata non come segno di modestia ma come motivo di orgoglio dai sedicenti profeti del cambiamento ci dice chiaramente da che parte stanno davvero costoro.
(finito il 21 novembre 2018)
Ho parlato di
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Émile Zola
Germinale
(Feltrinelli, 2013)
trad. di S. Valenti
512 pp. | 10 €
(ed. or.: Germinal, 1885)
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