Stanze

mercoledì 22 maggio 2019

Cuore di tenebra

Tra le tante possibilità che ti offre l’insegnamento in una scuola superiore c’è anche quella di poter ritornare, a distanza di vent’anni (per ora), sulle piste letterarie già battute nella tua adolescenza per proporre ai tuoi studenti di oggi quel che un tempo affascinò lo studente che fosti. E dato che non basta andare a memoria per reggere il confronto con chi sta al gioco e decide inopinatamente di assecondarti, ecco che ne approfitti per riprendere davvero certi libri in mano, magari in edizione più recente, e per rileggerli con l’occhio e la testa di chi nel frattempo ha macinato migliaia di altre pagine e stabilito centinaia di altre connessioni (massì, esageriamo). 

In un appunto datato marzo 2000 (ultimo anno di liceo) collocavo, appunto, Conrad fra gli autori eletti del mio canone personale. Di lui mi affascinava soprattutto – annotavo – «il suo modo di descrivere il mare come nemico metafisico». Questo, però, è un romanzo di terra, o tutt’al più un romanzo di fiumi: il Tamigi, anzitutto, la «tranquilla via d’acqua» che dal centro economico del mondo moderno «conduceva agli estremi confini della terra» e dunque anche alla foce di quell’altro imponente fiume africano, risalire il quale era invece «come viaggiare indietro nel tempo sino ai più lontani albori del mondo, quando la vegetazione cresceva sfrenata sulla terra e i grandi alberi erano re». Qui è appunto la foresta, non il mare, con il tifone o la bonaccia, a incombere minacciosa sui protagonisti del racconto: «alberi, alberi, milioni di alberi, imponenti, immensi; che s’arrampicavano altissimi; e ai loro piedi abbrancato agli argini per difendersi dal fiume, quel sudicio battello si trascinava come un pigro scarafaggio che striscia sul pavimento di un nobile porticato». Dall’antichità remotissima pietrificata in questo paesaggio ancestrale riemerge una «verità spogliata del manto del tempo». Anche se qui il cielo è perennemente terso, l’aria è soffocante e «non c’è gioia nello splendore del sole». Troppa luce, anzi stordisce: «qualcosa di mostruoso e di libero» assale le ingenue sicurezze di chi si spinge avanti, sempre più avanti, presumendo di estendere il raggio luminoso della civiltà e sprofondando invece incautamente «nel cuore di un’immensa tenebra». É ciò che accade a Kurtz, musicista prestato al commercio d’avorio, «un uomo notevole» che fissa così a lungo l’abisso finché l’abisso non se lo prende e se lo divora, come il povero islandese leopardiano sbranato dai leoni dopo il rivelatorio dialogo con la natura. Marlow, il narratore, si ferma un attimo prima di varcare la soglia, ma tanto gli basta: «nel sole accecante di questo paese avrei conosciuto il demone flaccido, pretenzioso e miope di una follia rapace e spietata», l’oscuro movente che tiene in piedi quella farsa che è la storia umana abbandonata a se stessa. 

«“Voi non potete capire. Come potreste? - con un solido pavimento sotto i piedi, tra vicini sempre pronti ad applaudirvi o a saltarvi addosso, voi che v’insinuate guardinghi tra il macellaio e il poliziotto, nel sacro terrore della forca, dello scandalo e dei manicomi – come potete immaginare in quali particolari regioni dei tempi primordiali i suoi piedi senza pastoie possano condurre un uomo sulla via della solitudine – di una solitudine totale senza neanche un poliziotto – sulla via del silenzio – di un silenzio totale, dove non si può neppure udire la voce ammonitrice di un vicino gentile che si fa tramite sussurrante dell’opinione pubblica?». “Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case...” ripeterà di lì a poco Primo Levi: perché, di lì a poco, sarebbe crollata la messinscena autoconsolatoria su cui si reggeva la benpensante società europea, capace di esorcizzare la violenza solo perché aveva saputo spostarla un po’ più in là, dove gli ideali andavano continuamente a infrangersi sulla muraglia immota della giungla eterna – e l’orrore del colonialismo si sarebbe ritorto contro l’Europa producendo l’orrore dei lager. Questa confessione presentata quasi come un sogno, con «quella mescolanza di assurdità, di sorpresa e di smarrimento, in un fremito di spasmodica rivolta, quell’impressione di essere prigionieri dell’incredibile che è l’essenza stessa dei sogni», costituisce anche per i suoi tratti visionari uno dei più potenti e geniali apologhi dell’intera parabola occidentale, un’apocalisse in piena regola, rivolta a chi ha orecchi per intendere. Pubblicato nel 1899, Cuore di tenebra chiude idealmente l’Ottocento delle magnifiche sorti e progressive, ma il suo battito continua a pulsare sangue umano, oltre le stragi novecentesche, dalle ferite aperte di questo piccolo scorcio di XXI secolo.

(finito il 20 ottobre 2018)

Ho parlato di


Joseph Conrad 
Cuore di tenebra
(Feltrinelli, 2013)


trad. di E. Capriolo

124 pp. | 6 € 


(ed. or. Heart of Darkness, 1899)

mercoledì 1 maggio 2019

Processo a Socrate

Anche noi filosofi abbiamo il nostro evento pasquale, il punto in cui è davvero cominciato tutto – e che, proprio come la Pasqua, non coincide con l'inizio cronologico della storia, ovvero con una delle tante intuizioni, vere o presunte, di Talete. Anche qui c'è di mezzo un processo, di quelli in cui la folla pare giocare un ruolo non proprio irrilevante, e una condanna a morte, sebbene per assunzione di cicuta e non per crocifissione. In entrambi i casi, pare che a morire sia stata la vittima innocente di un qualche complotto politico-religioso. Nell’offrire la sua ricostruzione degli ultimi giorni di Socrate – impresa ardimentosa perché si rischia facilmente l’ovvio, come con tutto ciò che è stato già detto e ridetto mille altre volte – Mauro Bonazzi prova invece a prendere sul serio l’accusa che gli fu mossa, riconoscendo che quello intentatogli fu un processo regolare e non «un processo politico camuffato», né tanto meno una tappa già scritta della storia dello spirito. 

Come molti amici sanno, ho da sempre un rapporto di viscerale ammirazione per Socrate, sin da quando, ragazzino, ho letto l’Apologia e il Gorgia, con quella riflessione sui pasticcieri e le loro torte che inevitabilmente vincerebbero una gara contro i medici e le loro medicine, se a giudicare fosse una giuria di bambini – e che assumeva un significato del tutto particolare mentre l’Italia si ricopriva di manifesti 6 metri per 6 con scritto sopra “meno tasse per tutti”. Quello che amo di Socrate, Bonazzi lo sintetizza in poche battute: la sua ricerca procede «per ipotesi, nella consapevolezza che ogni conclusione raggiunta, per quanto promettente, conserva una validità solo provvisoria (nel senso che può sempre essere rimessa in discussione da un nuovo ragionamento)» ed è una ricerca «sempre capace di sorprendere», in quanto con il dialogo incita, ogni volta e di nuovo, a rimettere in movimento il discorso, perché – aggiungo io, ed è ciò a cui serve per me la filosofia - l’importante non è convincere gli altri della propria opinione (che dunque sfugge, non si sa mai bene quale sia), ma mantenere costantemente aperta un’alternativa, intonare un controcanto, insinuare un dubbio, cosicché nessuno (individuo, popolo o civiltà) resti prigioniero di un proprio ricorsivo e perciò pericoloso monologo. 

Orbene, un personaggio così, dice Bonazzi riprendendo l’interpretazione di Leo Strauss, è «un pensatore libero e indipendente quant’altri mai, sempre pronto a mettere non importa quale tesi in discussione, e non particolarmente interessato a offrire contenuti positivi in sostituzione delle idee sbagliate che ha confutato». Il che, a noi post-romantici, può apparire molto suggestivo, ma impone una domanda, e cioè: «davvero la città ha bisogno di un maestro come Socrate, capace di mettere tutti in discussione, ma privo di idee capaci di riempire il vuoto che ha creato?». Insomma, agli occhi della comunità, Socrate è a buon diritto un eversore perché insegna a sviluppare «una capacità di riflettere criticamente sul sistema di valori (spesso corrotto) su cui si fonda la città», indebolendo però quel senso di appartenenza comune che permette a un popolo di riconoscere dei punti minimi di intesa e di non sfaldarsi. Così oggi quelli che si vantano di “non credere a quello che ti raccontano” e ti esortano ad “aprire gli occhi”, a “documentarti non sui libri ma in rete”, sono appunto quelli che diventano terrapiattisti o che pensano che le camere a gas nei lager non siano mai esistite e che gli effetti del cambiamento climatico siano una montatura giornalistica. Naturalmente non sarebbe stato questo l’esito auspicato da Socrate. Ma, usando il suo metodo contro di lui, potremmo concludere che, a forza di invitare le persone a pensare con la loro testa, poi qualcuno lo fa davvero e non è detto che sia un bene, visto come pensa certa gente. Di qui l’invito a darsi una calmata, per il bene comune. Ma possiamo accettare tutto questo? 

Il processo fu indubbiamente una forzatura nei confronti di Socrate, a cui Socrate rispose però – inaspettatamente – con altrettante forzature. Di fronte all'accusa, quest’uomo che per tutta la vita aveva cercato di far ragionare chiunque gli capitasse a tiro, ascoltando con pazienza e con altrettanta pazienza intrappolandolo in una rete di contraddizioni, non si mostrò più per niente accomodante, cercando quasi lo scontro e portando il livello della sfida su un piano che - non poteva non rendersene conto - era troppo fuori dagli schemi per essere accolto dai suoi concittadini. Bonazzi parla a questo proposito di un «doppio fallimento»: quello di «una città che non ha saputo ascoltare» e quello di «un filosofo che forse non ha trovato le parole giuste per farsi ascoltare». La scelta di Socrate lo ha consegnato alla storia e ci ha lasciato il dubbio che filosofia e democrazia siano perciò incompatibili. Ma deve andare per forza così? É questa la domanda che, al di là della componente prettamente storica, anima queste pagine. Se la città è infantile, possiamo permetterci la bella morte per evitare con spocchia la fatica della negoziazione? Socrate, dopo una vita spesa a fare proprio questo, sembra aver voluto tagliare corto e suggerire che finché non ti ammazzano non sei veramente un provocatore, ma una macchietta, un personaggio del teatrino, come lui stesso era diventato per mano di Aristofane. Ma forse è proprio questo il rischio da correre per evitare vittorie che siano solo postume.

(finito il 15 novembre 2018)

Ho parlato di


Mauro Bonazzi
Processo a Socrate
(Laterza, 2018)

176 pp. | 18 €