lunedì 21 maggio 2018

Patria. 1967-1977

Sono nato due giorni prima dell’attentato a Giovanni Paolo II e sei prima del referendum sull’aborto, nelle stesse ore in cui a Miami moriva Bob Marley, più o meno tre anni dopo il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro in via Caetani e di quello di Peppino Impastato sui binari ferroviari nei dintorni di Cinisi. Per questo, quando dieci anni fa Enrico Deaglio pubblicò Patria. 1978-2008, la lettura di quel libro fu un’esperienza di progressivo rischiaramento, man mano che gli eventi rievocati cessavano di essere pura storia per diventare frammenti di vita vissuta (a scuola chiedo sempre ai miei studenti qual è l’evento storico più antico di cui hanno memoria diretta. Le risposte più gettonate, per gli attuali sedicenni, sono l’elezione di Obama o la vittoria dell’Italia ai mondiali tedeschi. Io, che ho assistito ai mondiali spagnoli, ma senza rendermene conto, ho scoperto che invece il mio ricordo più remoto è probabilmente l’incidente di Chernobyl e quell’oscuro terrore di una nube radioattiva capace di contaminare perfino l’erba dei giardinetti dell’asilo). Partendo proprio dal sequestro Moro come punto di non ritorno della nostra storia nazionale, Deaglio provava a rispondere a una domanda secca e anche un po’ imbarazzante (e badate che nessuno sapeva ancora cosa fossero lo spread né le cene eleganti): ma com’è che siamo arrivati a tutto questo? Com’è che i valori scolpiti nella Costituzione si sono sbriciolati in un solenne vaffanculo? Perché poi dire “patria” significa dire appartenenza anche affettiva a una casa comune, che spesso e volentiere viene deturpata proprio da chi più si vanta di difenderla. E difatti il suo diario retrospettivo – un impasto di sangue e calcestruzzo, mescolati l’uno all’altro con una spruzzata di eroina e tritolo quanto basta – lasciava intendere che alla fine la guerra segreta della repubblica l’avessero vinta loro, piduisti e trattativisti, mafiosi e palazzinari, evasori fiscali e neofascisti. Per inciso, quasi non si parlava di migranti, perchè in sella, sull’altra sponda del mare, ubi sunt leones, c’era ancora Lui, il colonnello libico. 

Deaglio presentava quel suo libro come un “film di carta”. Se prendiamo per buono il paragone, questo ne sarebbe dunque il prequel, dedicato al decennio che si aprì con le morti di Che Guevara, Tenco e Meroni e si chiuse con l’agguato di via Fani. Lo stile è lo stesso dell’altro volume: paragrafi relativamente brevi, scritti al presente, così da proiettarti subito sulla scena e farti sentire la voce in presa diretta dei testimoni oculari – tessere sparse di un puzzle a schema libero, che spazia dalla geopolitica alla cronaca nera. Tutto ruota grosso modo intorno al ’68, alle richieste di modernizzazione provenienti da una società in rapida evoluzione e alla spietata reazione che avallò la strategia della tensione. «L’Italia di allora era cattiva, ipocrita ed egoista. I cardinali, esangui o sanguigni che fossero, erano disumani e inquisitori, i padroni erano dei tirchi da barzelletta, la polizia picchiava e nelle cattedre, nelle scuole nell’esercito, nelle aule di tribunale era sopravvissuta una casta di impuniti che si era plasmata con il fascismo italiano, che, come sappiamo, fu un misto di protervia e codardia». Non per nulla, a scandire il ritmo del racconto, come un ritornello, è la sequenza di ciò che, pian piano, tra mille contrasti, divenne legge, diritto (momentaneamente) acquisito: la proibizione del lavoro minorile, l’equiparazione tra uomo e donna in caso di adulterio, il libero accesso all’università, lo statuto dei lavoratori, l’obiezione di coscienza, eccetera eccetera eccetera. La domanda qui è perciò un’altra, ma non meno diretta: nonostante tutti i limiti e gli errori del caso, preferivate forse davvero com’era prima? 

Ora, di quel periodo io ne so in effetti ben poco: per ragioni anagrafiche, non posso chiedermi dov’ero o cosa facevo il giorno del golpe Borghese o dei disordini di Valle Giulia, ma neppure si può dire che gli eventi di quel decennio siano entrati a far parte della narrazione familiare, se non per sommissimi capi (ricordo quel professore all’università che si rivolgeva a noi ventenni affermando che, a differenza di tutte le altre generazioni del passato, questa volta eravamo noi a ricondurre al principio di realtà quelli che erano stati i sogni e le aspirazioni dei nostri genitori. E io pensavo ai miei che, quando avevano la mia età, non erano sulle barricate, ma si stavano per sposare e si barcamenavano fra vari lavoretti – e ne traevo la conclusione che quel docente aveva letto molti libri ma non aveva una chiara percezione di come andassero le cose nelle periferie, oltre le mura delle grandi città). Ed è anche per questo che sobbalzo ogni volta che scopro che tanti odierni cialtroni sono stati leader di movimenti avanguardistici di allora. Non ci riesco proprio a immaginarmi un Paolo Liguori aggregato al gruppo aristofanesco de “Gli Uccelli”, intento a provocazioni situazionistiche come una parodia dell’incontro di Teano con la collaborazione di un vecchissimo Ungaretti: «portano capelli lunghissimi sulle spalle, come gli indiani pellerossa, e il compito che si sono assegnati è quello di contestare il sistema vecchio di contestare, anticipare i temi artistici, volare al di sopra di una politica che appare loro già vetusta». Il che mi fa pensare che per fortuna i fenomeni storici sono sempre più complessi di quanto non lascerebbe intendere il profilo dei singoli personaggi che vi prendono parte. Anche il bene ogni tanto è banale: accanto ai venticinque Basaglia che hanno posto le basi di un’Italia più moderna c’erano probabilmente decine di conformisti che hanno poi semplicemente cambiato casacca al cambiare del vento. É una delle pochissime ragioni di residua e fideistica speranza quando guardo in faccia Rocco Casalino e tutti questi sedicenti costituenti che oggi si accingono – dicono loro – a scrivere la storia e penso con un brivido a che "Patria" sarà quella che, fra quarant’anni o giù di lì, faremo cominciare nel nostro 2018.

(finito il 9 febbraio 2018)

Ho parlato di




Enrico Deaglio
Patria. 1967-1977
(Feltrinelli, 2017)


640 pp. | 22 €

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