Pare proprio che Einstein abbia impiegato meno tempo a tirare giù la teoria della relatività e a darne conto sugli Annali di Fisica del 1905 di quanto ce ne abbia messo io prima a leggere It e poi a scriverci queste due righe sopra. D’accordo, son 1200 pagine, eppure di libri voluminosi ne ho letti tanti, mi piacciono e quello di King è pure scritto come si deve, con tutte quelle maledette furberie da consumato storyteller che ti inchiodano alla pagina per vedere cosa diavolo succederà in quella dopo. Perché tutto questo tempo, allora? Mi son dato questa risposta: perché un conto è possedere un testo sotto specie di volume, in tutto il suo corpulento spessore, a implorare attenzione sul comodino, un conto è possederlo nella sua eterea veste digitale, racchiuso all’interno di un sottile dispositivo tecnologico. Sembra una stupidaggine, eppure in questo modo è molto più facile venir meno ai propri impegni (occhio non vede...) – e per un pigro come me, oltretutto, tra trovare il lettore, accenderlo e cominciare a leggere c’è sempre di mezzo non uno, ma sette mari. Per non parlare di quel sottile meccanismo psicologico per cui, man mano che sfogli le pagine di un libro, provando una reale sensazione fisica di progresso, acceleri inevvertitamente il ritmo di lettura e quando poi butti l’occhio oltre il punto e vedi che il capitolo successivo ha solo poche pagine – che vuoi fare? mica ti fermerai proprio lì? E avanti così.
Dirò di più. Per tanti aspetti, l’ebook presenta davvero molte comodità (su questo sono un convertito della prima ora), ma gli manca ancora quel peso specifico che fa del libro qualcosa in più di un mero supporto di lettura e lo rende un oggetto da custodire, manipolare e personalizzare, persino da accarezzare ed amare. E se poi tu da anni leggi tutto con la matita in mano, il passaggio al touch non è indolore, per lo meno finché non si inventeranno (e ci arriveranno) arnesi più sofisticati in grado di riprodurre in modo davvero efficace sia l’esperienza della lettura, sia quella – assai più complessa – dell’annotazione, dello scarabocchio e della rilettura mirata (tutte cose che al momento gestisco discretamente con una determinata categoria di testi letti attraverso il pc, ma non ancora sull’e-reader portatile: e questo spiega anche perché ci abbia messo così tanto a ripensarci su, finita la lettura, e perché vada a memoria, senza citare). Inoltre, anche se non c’entra nulla, diciamolo: lo scaffale virtuale non è minimamente paragonabile a una biblioteca reale. Tant’è che mi è già successo di acquistare in cartaceo testi che avevo già letto in digitale, perché disporli proprio lì, fra quel libro e quell’altro, dice qualcosa di essenziale su di te, come un autentico specchio magico con cui misurarti quotidianamente.
Son problemi, si capisce. Ma problemi maggiori deve avere avuto Stephen King da ragazzetto se ha saputo costruire così bene questo grandioso bildungsroman pop raccontato dalla parte dei perdenti, con le attenzioni di chi sembra esserci passato. L’attenzione è posta su quella fase di transizione tra infanzia ed età adulta in cui ci si trasforma così profondamente che si smettono di vedere mostri dappertutto, non tanto perché si matura, ma piuttosto perché ci si abitua all’orrore quotidiano, che non assumerà più le forme grottesche e tuttavia ben riconoscibili del clown Pennywise, bensì l’aspetto ordinario della violenza familiare, dell’odio razziale, della ristrettezza mentale, del bullismo – insomma, di tutte quelle forme di aggressività latente che germinano nella provincia più retriva e diventano alla fine, messe più o meno in bella copia, dopo vari caucus e meet-up, programma di governo. Per quanta strada tu possa fare, da quella stagione della vita non ti schiodi mai veramente – e le ferite apparentemente rimarginate, in un modo o nell’altro, presto o tardi, si riapriranno, quando riconoscerai allo specchio il volto butterato del sedicenne che pensavi di esserti definitivamente lasciato alle spalle.
It è la favola amara del natio borgo selvaggio (che qui è l’ipotetica Derry, nel Maine) riscritta da uno che conosce Lovecraft ma ne ribalta l’ideologia, aggrappandosi a quella fioca speranza veterospielberghiana secondo cui i bambini, meglio se sfigatelli, salveranno il mondo perché sanno chiamare il male con il suo nome (e in questo senso è anche una variazione sul tema di E.T., con la differenza che in quel caso il focus è sulla loro capacità di cogliere candidamente ciò che è comune in chi è alieno: non saprei dire se sono entrambe sintesi riuscite degli anni ’80 o se quel che ci ricordiamo degli anni ’80 è irrimediabilmente contagiato da queste rappresentazioni così assonanti). Poi, per la verità, quei bambini un po’ sfigatelli degli anni ’80, usciti dai loro garage, hanno creato la Silicon Valley e non è ancora chiaro se siano diventati angeli o demoni, ma del resto anche per King c’è uno scarto tra la sua età dell’innocenza (gli anni ’50, prima di Kennedy) e quella del disincanto (gli ’80, appunto). Anzi la stessa ciclicità con cui It si manifesta nella storia, versando sangue che sarà poi dimenticato, mostra come il progresso sia solo un’illusione sotto cui covano sempre le solite ancestrali pulsioni. Non per nulla, a mio avviso, le pagine qualitativamente migliori sono quelle in cui si descrive la topografia di Derry con tutta la sua intricata rete idraulica che si sviluppa come un tumore appena sotto la superficie urbana. In Stranger Things tutto questo è diventato il “sottosopra” – e ci hanno aggiunto gli scienziati cattivi. Come tutti i grandi autori horror, King vira invece verso il teologico (o l’antiteologico) presentando It come una creatura malvagia e polimorfa caduta in epoca remotissima dai confini della realtà sulla Terra, dove ha trovato terreno fertile su cui attecchire. Giusto per ricordarci ancora una volta che le tanto decantate radici – che comunque ci rendono quello che siamo – alle volte sono semplicemente marce.
P.s. Venti-venticinque anni fa, quando vendeva come il pane, nonostante qualche tentativo, King non mi “prese” mai del tutto, a differenza di quanto accadde a diversi miei amici e coetanei. Penso che gli darò una seconda chance.
(finito il 18 febbraio 2018)
Ho parlato di
Stephen King
It
(Sperling & Kupfer, 2017)
Trad. di T. Dobner
1216 pp. | 21,90 €
(ed. or.: It, 1986)
(finito il 18 febbraio 2018)
Ho parlato di
Stephen King
It
(Sperling & Kupfer, 2017)
Trad. di T. Dobner
1216 pp. | 21,90 €
(ed. or.: It, 1986)
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