giovedì 5 ottobre 2017

Il signore della svastica

Può un romanzaccio dozzinale che sembra partorito dalla mente malata del più becero hater seriale essere baciato da un crisma di pura genialità? Sì, se gli si antepone, a mo’ di nota biografica, una fondamentale premessa nella quale si dice press’a poco così: il giovane Adolf Hitler, abbandonata una breve ed inconcludente militanza politica radicale nei burrascosi mesi successivi alla Grande Guerra, si trasferisce a New York, dove frequenta gli ambienti bohémien del Greenwich Village; qui, mentre in Germania si verifica un colpo di stato comunista, avvia una fortunata carriera di fumettista e scrittore di fantascienza, consacrata dalla vittoria (postuma) di un Premio Hugo proprio con il libretto che state per cominciare a leggere. Ohibò. E che ci racconterà questo libretto? Una vicenda farsesca e totalmente inverosimile per un lettore di pulp in questa immaginaria America degli anni ’50, quale l’irresistibile ascesa di Feric Jaggar a leader del paese di Heldon, ipotetica repubblica collocata in un remoto futuro che fonda i propri diritti di cittadinanza su rigidi criteri di purezza genetica, la quale però si è rammollita al punto di concedere a pelliblu, nani gobbi, testaduovo, pappagalloidi e altri mutanti dei paesi circonvicini di calcare quotidianamente il proprio sacro suolo per dedicarsi a lavori che i veriuomini considerano troppo degradanti per loro.

Anche Jaggar, in realtà, ha trascorso la sua infanzia nel vicino stato di Borgravia, ma solo perché i genitori erano stati esiliati in seguito a certe clausole infami di un precedente trattato di pace; divenuto maggiorenne e acquisita finalmente l’agognata cittadinanza heldoniana, sdegnato per la rilassatezza che inopinatamente scopre nel suo paese d’elezione, si reinventa arruffapopolo e, grazie sostanzialmente solo a una sovrumana forza di volontà, partendo da un comizio improvvisato in un bar di frontiera diventa in men che non si dica il capo incontrastato di un movimento politico e paramilitare chiamato I Figli della Svastica, alla guida del quale a un certo punto prende il potere allo scopo di proiettare Heldon verso il suo destino di purificazione globale della razza umana. La sua fortuna è di imbattersi, all’inizio della sua scalata, nel Grande Manganello di Held, che lui solo si dimostra in grado di sollevare – un po’ come il martello di Thor o la Spada nella Roccia – , cosa che lo rende una sorta di novello re taumaturgo.

Brandendo questo scettro, Jaggar può scagliarsi così contro i suoi principali nemici: il governo corrotto e lassista in carica, ma soprattutto il paese di Zind, i cui abitanti sono chiamati anche Dom (ovvero, Dominatori), in quanto capaci di controllare le menti altrui e piegarle al loro progetto di sottomettere l’intero genere umano tramutandolo in una massa regredita e imbastardita di automi (con l’appoggio involontario degli Universalisti, partito heldoniano ma cosmopolita, che proprio per questo viene subito zittito con le cattive non appena Jaggar assume il comando delle operazioni). Quando si arriva allo scontro frontale, per intenderci, la scena è questa: «l’intera vallata era piena di quelle mostruosità, creature tali da intimidire l’eroe più coraggioso. Erano macchine per uccidere appositamente riprodotte, orribili caricature protoplasmatiche della forma umana: alte tre metri, con torace, braccia e gambe incredibilmente massicci, avevano la testa tanto piccola da ospitare a stento minuscoli occhi rossi, piccole orecchie e bocche sbavanti e senza labbra. Quelle creature erano nude, tranne per una rozza cintura di cuoio da cui pendevano enormi mazze, sporche di escrementi e ogni sorta di lerciume. La cosa più orribile, però, era che ogni contingente di quelle aberrazioni, composto da circa cinquecento elementi, marciava in perfetto unisono, fin nell’oscillare delle braccia massicce e dei fucili, quasi fossero stati ingranaggi intercambiabili della medesima macchina».

E via, quello che accade non è altro che una parafrasi della storia degli anni ’30-’40, dalle elezioni del ’32 in Germania fino all’operazione Barbarossa, passando per la notte dei lunghi coltelli e altri episodi poco edificanti, filtrata però – ed è qui il colpo d’ala letterario – attraverso lo sguardo ideologicamente ammorbato di un outsider che in un romanzetto tirato giù per contratto condensa senza filtri tutte le sue ossessioni irrisolte e le sue manie paranoidi, delineando un quadro tanto allucinato quanto perversamente coerente del mondo "come avrebbe dovuto essere". Il che spiega anche le esagerazioni e le innumerevoli incongruenze narrative che si susseguono nella storia, come se la realtà stessa venisse di volta in volta riplasmata dai desideri dell’autore e del suo alter ego (per dire: si comincia che sembra di essere nel mondo delle fiabe o quasi e si finisce che ci sono le astronavi, anche se saranno trascorsi, al più, pochi mesi). Ma proprio questo è il gioco, e non è affatto facile scrivere bene scrivendo male. Alla fine, quando un’esplosione nucleare compromette definitivamente il patrimonio genetico dell’umanità, agli heldoniani non resta che inviare cloni altamente selezionati per colonizzare altri pianeti. «Con un rombo assordante splendide lingue di fiamma arancione scaturirono dal razzo. Ogni gola heldoniana si unì a lui in un grido di gioioso trionfo mentre su una colonna di fuoco il seme della Svastica saliva a fecondare le stelle».

Insomma, è un gigantesco ancorché beffardo trip che ti porta a vedere il mondo come lo vedono quelli che fanno i titoli di Libero e altri soggetti della stessa forza. Un autentico orrore.

(finito il 4 agosto 2017)

Ho parlato di



Norman Spinrad
Il Signore della Svastica
(Mondadori 2017)

(Urania Collezione 172)

trad. di A. Guarnieri

266 pp. | 6,90 €

(ed. or. The Iron Dream, 1972)


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