Con vent’anni di ritardo capisco finalmente anch’io perchè tutte le volte Roth entra papa nel conclave di Stoccolma e un po’ meno perché ne esce sempre e solo cardinale. Forse perché la storia è davvero inconcludente e farsesca, come ci insegna questo romanzo, che – ironia nell’ironia – ha un protagonista soprannominato lo Svedese. Il quale, peraltro, di svedese ha solo la mascella vichinga: ebreo di Newark, polisportivo con preferenza per il football, il nostro eroe calza il suo essere americano come uno dei guanti preparati a regola d’arte nella fabbrica ereditata dal padre e portata avanti con passione una volta subentratogli nella direzione (a tratti, sembra di sentire parlare il Faussone di Primo Levi). Un uomo così, capace – si dice a un certo punto – di “amoreggiare con la propria vita”, sarebbe stato perfetto nei panni di Capitan America, se la guerra non lo avesse appena sfiorato, così come la futura moglie sfiorerà a sua volta, nel ‘49, il titolo di Miss America, dopo essere stata eletta reginetta del New Jersey – lei che invece è cattolica e di origine irlandese. A raccontarla così sembra un’oleografia, l’incipit di una storia senz’anima, patinata come una rivista illustrata dedicata agli hobby tipici dell’american way of life, stucchevole come un santino sulla vita di Giovannino Semedimela, che non per nulla lo Svedese elegge a proprio modello di vita. E probabilmente verrebbe fuori proprio una storia di barbecue, tacchini e palle da baseball, se Roth non si cimentasse nel crudele esercizio di offrire profondità alla superficie pura dell’immagine, proiettando attraverso il prisma di una vicenda personale la parabola storica dell’America tutta, la cui autorappresentazione vincente sbiadisce progressivamente come i colori di una vecchia foto, fin quasi a rendersi irriconoscibile. Ciò che più colpisce è la totale padronanza che Roth dimostra della scrittura, con quel suo continuo andirivieni lungo un asse temporale che ha il suo cuore nel periodo compreso tra Hiroshima e il Watergate, in cui motivi appena accennati all’inizio dell’opera ritornano con il fragore di un ampio movimento a pagine e pagine di distanza, senza mai perdere il controllo di un racconto che, invece, sta proprio lì a dirci che nella storia non c’è mai davvero nulla di controllabile. «Essere vissuti: e in questo paese, nel nostro tempo, e da quelli che eravamo. Stupefacente» - questa sarebbe dovuta essere la morale della favola, pregustata nei giorni inebrianti del dopoguerra. E invece, «in un modo assolutamente inverosimile, ciò che non avrebbe dovuto accadere era accaduto e ciò che avrebbe dovuto accadere non era accaduto». Tollerante, aperto, pieno di premure verso la famiglia, innamorato del suo paese, icona di una vita “come si deve” e sinceramente incapace di comprendere le ragioni di chi la rifiuta, a cominciare dalla figlia divenuta bombarola negli anni del Vietnam, lo Svedese scopre poco per volta, suo malgrado, «che siamo tutti in balia di qualcosa di impazzito», che «tutto è orribile», che l’identità che uno faticosamente cerca di costruirsi mediando fra le generazioni non è che una parodia di integrità, sotto cui ribolle un irresponsabile e indefinibile caos: «la gente, dappertutto, si alzava in piedi urlando: - Questa persona sono io! Questa persona sono io! – Ogni volta che li guardavi si alzavano e ti dicevano chi erano, e la verità era che non avevano, non più di quanto l’avesse lui, la minima idea di chi o che cosa fossero. Credevano anche loro ai segnali che lanciavano». Per questo, pur essendo un libro lucidamente pieno di America – con lo Svedese a giocare in vitro la parte che è stata di Kennedy nella coscienza nazionale – questo non è solo un libro sull’America. É la storia di come tutto può sfuggire di mano, senza che si riesca a far niente per evitarlo: «aveva creduto che per la maggior parte fosse ordine e che solo una piccola parte fosse disordine. Aveva capito a rovescio».
(finito il 2 aprile 2017)
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