martedì 17 giugno 2025

Le avventure di Gordon Pym

Tra le innumerevoli ragioni per cui mi sento profondamente riconoscente alla vita, non considero certo secondario l’aver avuto accanto alcuni amici che - all’epoca delle primissime scelte autenticamente personali, quando si comincia a delineare in modo più netto il profilo della propria identità - non solo non mi hanno fatto pesare la passione per la lettura come qualcosa di cui vergognarmi, ma l’hanno anzi condivisa con me, sostenendola e nutrendola attraverso scambi, consigli, prestiti e discussioni, che potevano riguardare libri, certo, ma pure fumetti o riviste, come accadeva fino a quattro minuti prima che arrivasse anche da noi internet. Devo, appunto, a uno di loro (chissà se si riconoscerà in questo ricordo?) e al fatto che mi abbia un giorno messo in mano un volumetto economico contenente alcuni racconti di Poe (quelli “del terrore” – recitava il titolo: e c’era sicuramente dentro Il gatto nero e poi Il cuore rivelatore, La maschera della Morte Rossa e, ovviamente, il più agghiacciante e amato di tutti, Il pozzo e il pendolo), se nel volgere di un pomeriggio appena di prima media acquisii così tanti punti esperienza da sbloccare un livello di crescita del mio personaggio e ritrovarmi, quasi di colpo, un lettore adulto. Avendo sostanzialmente snobbato la letteratura per ragazzi pubblicata quand’ero ragazzo, e teoricamente prodotta proprio per soddisfare quelle che si presumevano essere le esigenze di un preadolescente degli anni ‘90, è invece a partire dagli scritti di quell’inquieto poeta americano morto più di un secolo prima che si è man mano forgiato il mio immaginario personale – e sebbene si sia trattato di un immaginario ancora in gran parte ottocentesco, tenderei a dire che non mi è andata poi così male.

In questo percorso di iniziazione, il Gordon Pym si rivelò presto un passaggio pressoché obbligato. Nel «divorante desiderio» di salpare che spinge il giovane protagonista del romanzo a litigare coi suoi stessi genitori pur di imbarcarsi su una nave e abbandonare la terra ferma si rispecchiava, in un certo senso, la mia analoga, vorace, frenesia di prendere ancora una volta il largo fra le pagine di un nuovo libro, come se non ne avessi mai abbastanza, mosso nella fattispecie da irrefrenabile curiosità – spontanea, genuina, commovente curiosità che si può avere solo ad un’età in cui tutto è davvero una continua scoperta – per quella che, a prima vista, si presentava come una grande avventura di mare affine ai cicli salgariani di cui fin lì ero stato cultore, ma che, al tempo stesso, - per quanto, nel frattempo, avevo già annusato di Poe - avevo anche sentore dovesse contenere qualcosa di più, e comunque di molto diverso da ciò a cui ero abituato. Ovviamente non restai deluso (anzi: non restammo, giacché quella lettura, come dicevo, fu condivisa). C’è davvero di tutto, qui dentro – naufragi, ammutinamenti, silenziosi velieri alla deriva con i loro equipaggi di cadaveri devastati da misteriose malattie, banchi di squali pronti ad avventarsi su ciò che resta di corpi mutilati, ammazzamenti vari, compresa una terrificante scena di cannibalismo preceduta da un’ancor più terrificante sequenza di sorteggio per stabilire chi sarebbe stato sacrificato in modo da garantire la vita agli altri (è l’episodio che più mi rimase impresso e che non ho mai scordato) – come una continua, ossessiva, sfida alla morte, quanto basta per far provare a un dodicenne più di un brivido per il presagio che essa effettivamente è lì fuori, perennemente in agguato, e ci dovrai fare ben presto i conti, e imparare a considerarti un reduce per ogni giorno in più che ti viene dato di stare in terra, stemperato però dalla sensazione di essere in fondo ancora al sicuro, ben protetto sotto le coperte spesse del tuo letto mentre leggi di questi sventurati a cui ne capitano letteralmente di tutti i colori. E se da allora in poi mi ero tenuto alla larga da questo libro non era per la paura di riprovare quella stessa paura, ma – tutt’al contrario – per il timore di non provarla più allo stesso modo e di dover perciò ridimensionare il valore delle emozioni vissute allora, al momento giusto, come accade quando rivedi da grande un film che da piccolo ti aveva spaventato a morte e non ti capaciti di come i suoi pessimi effetti speciali possano averti suscitato tanto orrore. Finché, a un certo punto, ha prevalso il desiderio di averne una copia a portata di mano e, in una di quelle interminabili pause di stasi in mezzo alla maturità, mi è venuta la voglia di correre il rischio e rileggerlo da cima a fondo.

Quel che ci ho ritrovato, inevitabilmente, sono stati sparsi, ma ben definiti, pezzi di me. Mi rivedo chiaramente, poco più che bambino, mentre abbocco all’amo delle coordinate fornite da Poe e mi metto a tracciare a matita sul mio atlante De Agostini la rotta che a un certo punto spinge Gordon Pym e i suoi compagni a costeggiare quello che mi è sempre apparso come l’autentico orlo del mondo, l’estrema propaggine meridionale del globo, ancora in gran parte incognita a inizio Ottocento, memento di tutti i luoghi che per un uomo sarebbe meglio non esplorare, come ebbe a imparare a sue spese, nella versione dantesca, il prototipo di tutti gli altri escapisti della morte, Ulisse, a cui qui non sarebbe riuscito l’ultimo trucco. Non saprei dire quali siano, rispettivamente, la causa e l’effetto, ma è un fatto che, nella mia generale suggestione verso le regioni più isolate della Terra (che spinse mia moglie a regalarmi un giorno il bellissimo Atlante delle isole remote), un posto privilegiato hanno proprio le lontanissime terre australi, luoghi come l’isola della Desolazione, Tristan da Cunha, le Crozet, con le loro coste battute da correnti gelide dove vanno a morire i ghiacciai e su cui si agitano solo colonie di pinguini, foche, albatros ed elefanti marini, senza la minima presenza umana. Le isole Kerguelen, che ebbero qualche minuto di gloria perché toccate da Cook nel terzo dei suoi viaggi, sono qui presentate con dovizia di particolari come «uno dei luoghi più desolati e abbandonati del globo», ma non è ancora nulla. Quando la navigazione supera la banchisa polare e la spedizione trova un passaggio per dirigersi sempre più a sud, Poe si immagina che le condizioni climatiche paradosalmente cambino, diventando meno estreme, senza che però questo renda meno inquietanti i panorami. «Era un luogo d’incredibile desolazione, il cui aspetto mi evocò alla mente le descrizioni fatte dai viaggiatori spintisi nelle squallide regioni ove sorgono le rovine dell’antica Babilonia. Senza tener conto della massa di detriti caduti dalla collina sconvolta, che chiudeva come una barriera informe tutto l’orizzonte settentrionale, la superficie del terreno era fittamente disseminata di tumuli giganteschi, forse i resti di mastodontiche costruzioni dovute all’opera di creature titaniche, benché a un più minuto esame risultassero privi di ogni parvenza d’arte umana. V’erano scorie da per tutto e grandi informi blocchi di granito nero, frammisti ad altri di marna, sia gli uni che gli altri irruviditi da granulazioni metalliche. Di vegetazione, in quel tratto brullo oltre ogni dire, neppure l’ombra. Vedemmo soltanto alcuni scorpioni enormi e vari rettili che non si trovano altrove a latitudini così elevate». Così, in appena dieci righe è contenuto in nuce tutto il materiale che esploderà cent’anni più tardi nella cosmogonia di Lovecraft (e a questo punto devo aggiungere che anche Le montagne della follia fu un passaggio obbligato delle nostre letture e che questo concentrato di fantasie ci indusse persino ad abbozzare la stesura di un romanzo a più mani in cui ciascuno, a rotazione, avrebbe dovuto realizzare un intero capitolo cercando di lasciare il racconto in sospeso alla fine della sua parte, per stimolare, di volta in volta, l’inventiva di chi fosse venuto dopo: l’ambientazione da cui partimmo, manco a dirlo, fu proprio un centro di ricerca al Polo Sud).

Più ancora di tutto, forse, a segnarmi fu la precoce presa di coscienza che il terrore è tanto più forte quanto meno è definito il suo oggetto, ovvero che «l’agghiacciante orrore a volte provocato debba attribuirsi, anche nei casi più clamorosi e nei quali fu sperimentata una vera e propria ambascia fisica, più a una paura fatta di presaga inquietudine che l’apparizione possa essere reale che non all’assoluta certezza della sua realtà». Questa sensazione è tipica dei racconti di Poe e vale qui soprattutto per la visione finale (altro ricordo indelebile), spaventosa non per il suo contenuto, ma per la sua incomprensibilità e il suo irrudicibile mistero, su cui il libro stesso magistralmente si chiude, pur avendo annunciato, in corso d’opera, che a Gordon Pym sarebbero toccate «mille avventure (…) in nove lunghi anni», di cui non sappiamo però assolutamente nulla. Se i malcapitati, a quel punto, fossero infatti sprofondati nell’abisso e riemersi nella terra cava, avremmo avuto a che fare con un Burroughs qualunque (Edgar R., non William S.), mentre è l’assoluta trascendenza dell’ignoto a spaventare e a sedurre a un tempo, ad esercitare una forza attrattiva quasi incontenibile, per quanto potenzialmente persino autodistruttiva. Ed è proprio questo genere di esperienza ciò che, sotto sotto, da allora in poi, ho sempre continuato a cercare, criterio dirimente per separare, nella letteratura fantastica, l’essenziale da ciò che invece è trascurabile.

(finito il 1 luglio 2022)

Ho parlato di


Edgar Allan Poe
Le avventure di Gordon Pym
(Rizzoli 2009)

trad. di M. Gallone

240 p. | 8 €

(ed. or.: The Narrative of A. Gordon Pym of Nantucket, 1838)

giovedì 5 giugno 2025

Il mondo sommerso

Ecco, io, per esempio, di questo libro qui non sarei più capace di ricostruire oggi la trama esatta, e senza l’aiuto di qualche sbirciatina in rete non sarei stato in grado di riprendere neppure per linee generali il capo e la coda degli eventi che vi sono narrati per darne un’idea a voialtri ipotetici miei interlocutori. Mi si potrà dire che è passato troppo tempo dalla lettura – ed effettivamente è vero; così come è vera quell’altra cosa che si potrebbe anche dire, ossia che questo libro qui appartiene a quel genere di testi la cui trama esatta non conta poi forse ricordare più di tanto, perché pensato piuttosto per essere fruito quasi come se fosse un condensato allucinogeno di frasi sintetizzate fra loro allo scopo di simulare l’effetto prodotto dall’azione prolungata di molecole di acidi sulla corteccia cerebrale del lettore, che dunque, man mano che procede nella storia, meno sembra anche capire quale direzione essa stia prendendo. Tutto ineccepibile, se non fosse che a venire a galla, in questo modo, non è altro che la mia forma naturale di praticare l’esercizio della lettura, non solo come folle rincorsa verso il finale, né tantomeno come dotto esorcismo contro la noia, bensì quale autentica attività immersiva attraverso cui esplorare virtualmente tutti quei mondi possibili preclusi alla nostra limitata esperienza fisica – proprio come accade con certi sogni, le cui atmosfere inquietanti o gioiose (per mia fortuna ho fatto esperienza d’entrambe) possono impregnarti a tal punto l’immaginario da segnarti tutta la vita, nonostante le numerose incongruenze interne e i loro clamorosi buchi di sceneggiatura, che in fondo non interessano a nessuno.

La meraviglia impagabile di questa attività così semplice è che per innescare tali viaggi può bastare anche un thriller post-apocalittico come quello di cui dovrei parlare, che è per inciso uno dei primissimi romanzi pubblicati da un giovane Ballard, all’inizio degli anni ‘60, quando, con ampio anticipo sulla transizione ecologica e persino sulla crisi petrolifera, la questione dei cambiamenti climatici che vi è sottesa non era ancora diventata il luogo comune a cui rischiamo purtroppo di assuefarci prima di essere riusciti a trovargli una soluzione in grado di salvarci. Lo scrittore inglese si immagina infatti che, in un futuro non troppo remoto, senza neanche bisogno di attendere l’effetto dell’azione autodistruttiva dell’uomo, il combinato disposto di violente tempeste solari e dell’allargamento delle fasce di Van Allen abbia determinato un generale surriscaldamento dell’atmosfera terrestre, con il conseguente scioglimento dei ghiacci polari, la liquefazione del permafrost e il progressivo innalzamento del livello del mare, fino al punto di trasformare irrimediabilmente il profilo delle terre emerse cui siamo abituati sotto l’incedere di una dilagante pantalassa e dei milioni di metri cubi di sedimenti che essa trascina con sé: in questo nuovo mondo un golfo d’America esiste sul serio, non solo nella mente di Trump, e corrisponde grosso modo alla distesa d’acqua che ha inondato le grandi pianure del Midwest, mentre quella che un tempo era stata l’Europa si è trasformata in un reticolo di gigantesche lagune tropicali. I cinque milioni di Sapiens ancora in vita si sono spinti sempre più a nord o a sud, colonizzando l’Antartide e le aree artiche di quanto resta di Russia e Canada per sfuggire al soffocamento, alla disidratazione e alle radiazioni generate in quelle saune perenni che gli antichi avevano battezzato zone torride e che solo adesso sono diventate realmente inabitabili per l’uomo. Di tanto in tanto, però – il racconto comincia all’incirca così – qualche équipe di scienziati si avventura ancora nelle aree non totalmente inospitali per effettuare incursioni e rilevamenti sui fondali dove riposano quali novelle Atlantidi le grandi metropoli della fu modernità trionfante. Ed è qui, nel bacino da cui affiorano le memorie della gloriosa Londra, che uno di questi gruppi di ricercatori si imbatte in un personaggio quanto mai ambiguo, detto Strangman, «mezzo pirata e mezzo demone», vero erede di una lunga tradizione di antieroi del mare che risale fino a Melville e Conrad, «con la sua faccia bianca e sorridente e i lineamenti crudeli che si acuminavano come frecce quando sorrideva», «lo sguardo viscido» e il volto stesso «simile a un teschio», perennemente vestito di bianco come gli scheletri in smoking del quadro di Delvaux, il cui aspetto è reso ancora più sinistro dal contrasto con la ciurma di neri deferenti che presta servizio sul suo panfilo kitsch zeppo di robaccia trafugata qua e là e spacciata per vera arte. Sarà appunto l’irrompere sulla scena di quest’uomo dalla dubbia moralità, che si circonda di giganteschi alligatori come se fossero cani da caccia, a dare improvviso e brusco movimento a una vicenda che pareva invece destinata lentamente ad assopirsi come un sole morente.

Ma, come dicevo, di queste peripezie poco ricordo. Invece, sin dalle prime righe, anche se non capita quasi niente, quel che si è impresso indelebilmente nella mia fantasia è stato lo scenario in cui si muovono i personaggi del romanzo. Se chiudo gli occhi, me lo vedo davanti. Tra i resti ancora affioranti degli edifici prosperano infatti ormai «le fronde verde cupo delle gimnosperme, residuo del triassico», e «adagiati sulle poltrone e sulle finestre di quelle che una volta erano state sale di importanti di consigli di amministrazione, i rettili avevano preso possesso della città», tornando ad essere, «dopo milioni di anni, (...) la forma di vita dominante». Con le «loro teste antiche e impassibili», le iguane riattivavano nei loro osservatori umani «arcaiche memorie delle giungle terrificanti del Paleocene», rinnovando «l’ostilità implacabile che una classe zoologica prova nei confronti di un’altra che ne ha usurpato il posto». Al posto della frenesia degli assembramenti automobilistici delle nostre tangenziali è subentrata una tersa quiete meridiana, e con essa il sovrumano silenzio degli spazi primigeni, l’indescrivibile solitudine degli oceani, ma anche «il rallentamento del metabolismo e il regresso biologico che si manifestano in tutte le forme di vita animale in procinto di affrontare importanti metamorfosi». Come in una pausa di sospensione prima di una nuova accelerazione evolutiva, suggestionata dall’umidità che aleggia perennemente su questi mari caldi analoghi a quelli del Cambriano, la coscienza dei protagonisti sembra riadattarsi a condizioni di vita preumane e, sempre più incapace di distinguere chiaramente sonno e veglia, pare a un passo dal collassare a uno stadio ancor più arcaico di quello bicamerale. «Stiamo precipitando nel nostro passato archeopsichico, riscoprendo gli antichi tabù e gli istinti primordiali rimasti sopiti per migliaia di anni. Il pensiero della brevità della singola vita umana è fuorviante. Ognuno di noi ha la stessa età dell’intero regno biologico e il nostro flusso sanguigno è immissario dell’immenso oceano della sua memoria collettiva. L’odissea uterina del feto in crescita riassume in sé l’intero passato biologico e il sistema nervoso centrale del feto è una tabella temporale codificata, in cui ogni connessione di neuroni e ogni livello spinale rappresentano stadi simbolici, un’unità di tempo neuronico».

Ecco perché, più che andare avanti con la storia, qui poco per volta si scende. L’acqua che sommerge inesorabilmente i prodotti di una storia durata appena un battito di ciglia, su scala cosmica, ci riporta infatti alla nostra origine protozoica, prefigurando il nostro riassorbimento in quello stesso accogliente liquido amniotico planetario da cui a un certo punto siamo affiorati, forse per sbaglio, convinti d’essere più che una semplice variazione sul tema, una buffa fantasia passeggera delle sempiterne piante, l’increspatura onirica che ha turbato per un attimo il perenne sonnecchiare della Terra. Trascinati «in calde profondità traslucide dove le realtà puramente nominali del tempo e dello spazio cessavano di esistere», gli ultimi uomini di cui parla il libro sembrano chiudere definitivamente il cerchio cosmologico fissato dalla Moira, esaurendo il ciclo vitale della nostra specie con larghissimo anticipo rispetto a una sua eventuale migrazione interplanetaria. Qualcuno comincia a capire che resistere non ha più senso. Al più lucido, che però vuol dire anche il più folle, fra loro non resta che imbarcarsi in una apparentemente insensata «odissea verso sud», attratto da un atavico e inspiegabile richiamo primordiale, «come un sognatore alla disperata ricerca di una porta che lo conducesse fuori dal suo incubo». Tutto ciò che siamo stati verrà digerito, assimilato e riutilizzato. Ci vorrà il suo tempo – ma all’universo, a differenza che per noi, questo non manca.

(finito il 16 giugno 2022)

Ho parlato di


J.G. Ballard
Il mondo sommerso
(Feltrinelli 2005)

trad. di S. Massaron

200 pp. | 7,50 €

(ed. or.: The Drowned World, 1962)