martedì 23 luglio 2024

Cronorifugio

Libro davvero bizzarro, questo, nei contenuti ma soprattutto nella confezione, e difficilissimo per questo da inquadrare senza un’irrimediabile sensazione di sfocatura: labirintico, dispersivo, proteiforme nel suo scivolare di continuo dalla riflessione saggistica alla narrazione, pieno di andirivieni, ammiccamenti, elenchi, citazioni e digressioni, nonché punteggiato di ghirigori e disegnini intercalati fra i paragrafi come se fosse un taccuino d’appunti più che un’opera compiuta, eppure capace come pochi altri di intercettare uno sbuffo dello spirito del tempo e di convertirlo, grazie a una felice intuizione poetica, nell’energia sufficiente per indirizzare le vele, al netto del summenzionato rollio, verso una direzione chiara, così da offrirci qualche coordinata in più per orientare la nostra sospettosa navigazione in quel mare aperto che è la contemporaneità. Gospodinov sa fin troppo bene che «i romanzi e le storie danno un falso conforto di ordine e di forma. Sembra quasi che qualcuno tenga tutti i fili dell’azione, conosca l’ordine e la conclusione, quale scena viene dopo un’altra», il che è però del tutto controfattuale rispetto all’esperienza concreta che facciamo del nostro essere nel mondo, per cui non siamo mai in grado di dire a che punto del racconto ci troviamo e che cosa ci riserverà la pagina successiva, se un prolungamento, quale che sia, della vicenda, o l’annichilimento definitivo dell’ultima pagina bianca (nulla distingue, a priori, questo pacioso pomeriggio estivo da quello del 30 agosto 1939, vigilia dell’ecatombe). Sa inoltre quanto avremmo disperatamente bisogno di aggrapparci a una fabula, come dicono i narratologi, ma sa anche che «la fabula non c’è. E in questo consiste la profonda natura non cinematografica della vita». Consapevole del potenziale effetto falsificante di qualsiasi ricostruzione, suggerisce che «davvero audace, audace e sconfortante allo stesso tempo» sarebbe perciò quel libro «in cui tutte le storie, accadute e non accadute, fluttino intorno a noi nel caos primordiale, gridino e sussurrino, preghino e sghignazzino, si incontrino e si separino nel buio», e ti lascia sottintendere, a tratti, con il suo continuo rimescolamento di carte, che un libro del genere sia proprio quello che ti sta offrendo alla lettura. Ma non ci crede fino in fondo, perché poi alla fin fine il suo bell’asso se lo gioca con una mossa letteraria sorprendente. Forse la vera audacia consiste dopotutto nell’azzardare comunque un’ipotesi, evitando di cadere nelle secche della ragion pigra solo perché si teme di naufragare nell’oceano delle storie che noi stessi ci raccontiamo.

Qual è dunque l’idea-guida che fa da perno all’intero ragionamento? È presto detto. Un singolare psichiatra gerontologo che ci viene presentato col nome di Gaustìn («anche se lui stesso usava questo nome come un cappello che renda invisibili») e che ha imparato a fare del dialogo con i suoi pazienti un’occasione per potersi spostare «di decennio in decennio come noi cambiamo volo in un aeroporto», decide di mettere in piedi un’innovativa struttura per malati di Alzheimer nella quale gli ospiti, sempre più a disagio in un presente faticoso per loro da riconoscere, possano trovare «uno spazio in sincronia con il loro tempo interiore», ossia corridoi e stanze arredati secondo il design e lo stile dell’epoca nella quale la loro memoria, progressivamente divorata dal morbo, è rimasta come intrappolata. Naturalmente, l’impresa è più facile a dirsi che a farsi, e pone sul tappeto tutta una serie di complicatissime questioni filosofiche sull’effettiva riproducibilità del tempo perduto, che, come ci ha insegnato Proust, è un intreccio di incalcolabili madeleines ed è assai più il risultato di una nostra rielaborazione che non un semplice magazzino di anticaglie appoggiate lì, una accanto all’altra. Fatto sta che l’esperimento decolla e la prima «clinica del tempo» viene felicemente inaugurata, ovviamente in Svizzera, paese d’elezione dei sanatori letterari, come tributo verso La montagna incantata, ma anche perché la Svizzera è un paese senza tempo e «può essere più facilmente popolato con tutti i tempi possibili».

Una volta avviata, la sperimentazione richiede però quasi subito un’implementazione perché possa funzionare davvero. Questi non sono, infatti, convalescenti che si stanno semplicemente riprendendo da una frattura o un’operazione d’appendicite. La loro particolarissima condizione impone invece a chi voglia andarli a trovare di calarsi in qualche modo nel loro tempo soggettivo, per incontrarli davvero là dove essi credono di trovarsi. Il passo successivo proposto da Gaustin sarà dunque quello di «costruire un passato protetto, ovvero un “tempo protetto”», o ancora, come dice lui, «un cronorifugio», dove poter sostare per qualche giorno accanto ai propri cari, prima che perdano totalmente lucidità, «nell’unico “luogo” possibile, nell’anno che ancora balugina in lontananza nella memoria del genitore che si andava spegnendo». E tutto ciò significa, concretamente, aumentare gli spazi e la scenografia, allestire come dei veri e propri campus di bolle temporali entro cui garantire la possibilità di un effettivo contatto tra persone che, anche se fisicamente prossime, vivono in realtà in diverse epoche interiori.

Tanto basta per produrre un destabilizzante sobbalzo fantapolitico. In un continente ormai senilizzato e affetto da una forma collettiva di Alzheimer sociale, la terapia di Gaustin deborda infatti dai confini entro cui era stata pensata e inizia ad apparire attrattiva per un numero crescente di persone apparentemente sane. In principio si tratta solo di piccole avvisaglie, come un crescente revival di vecchie mode, analogo a quello per cui, periodicamente, gli antichi nerd passati ai posti di comando delle grandi agenzie di intrattenimento riversano con vent’anni di distanza l’intero loro mondo immaginario sulla collettività, con una gigantesca operazione di ammiccamento e di edulcorazione della realtà (chiamiamolo effetto Happy Days: sono fenomeni ben noti). Perfino «le vecchie barzellette sono di nuovo divertenti». Poi, però, le cose cominciano a prendere una piega ben più drammatica e, paese per paese, ci si comincia a chiedere se non sia il caso di indire appositi referendum per riportare indietro le lancette della storia all’epoca in cui la maggioranza dei cittadini ritenga che si stesse decisamente meglio di ora, posto che tutti sono sempre di per sé convinti che ci sia stato un prima in cui si stava decisamente meglio di ora. Perchè, cioè, se funziona con i vecchietti, non fare anche di ogni Stato, preso tutt’intero, un diverso cronorifugio, erigendo tra l’uno e l’altro confini non solo etnici, linguistici e monetari, ma anche temporali, come griglie di fusi non orari bensì decennali, in cui ciascun popolo possa godersi in santa pace la propria eterna età dell’oro, perennemente sospeso in quell’attimo prima che qualcuno di brutto e cattivo, contro cui vomitare il suo rancore, gliela rovini per sempre?

Il punto è che in questo modo tutta le risorse necessarie per immaginarsi cosa si vuol diventare vengono interamente rivolte al passato, per specchiarsi in ciò che si pensa di essere stati, con l’inevitabile corredo di falsificazioni e autosuggestioni (una su tutte: «la gente non si rendeva conto che di per sé la nazione è un piagnucoloso neonato storico, che vuole sembrare un anziano della Bibbia»). È un meccanismo di cui siamo tutti più o meno vittime, a fasi alterne, nella vita, e per questo così potente (mi è capitato di sentire dei miei studenti sedicenni dire che i “ragazzi di oggi” non sono più come erano loro), così come la stessa propensione del nostro cervello a ricercare spiegazioni ci ha permesso di inventare la scienza, ma ci ha reso inevitabilmente anche un po’ tutti complottisti. Per quanto appaia strano, ci vuole comunque uno scatto del pensiero per interiorizzare il fatto che non erano le nevicate di un tempo a essere molto più copiose delle attuali, ma eri tu a essere piccolino e quando avevi a fianco trenta centimetri di neve di sembrava d’essere Mosé che passava in mezzo alle pareti d’acqua del mar Rosso. Non c’è allora da meravigliarsi se la nuova carta dell’Europa prodotta da questo susseguirsi di consultazioni popolari veda il costituirsi di una sorta di impero napoleonico degli anni’80 , perché «in fin dei conti al referendum le persone hanno scelto gli anni in cui erano stati giovani. I settantenni di oggi erano giovani nei ‘70 e negli ‘80, sui venti e trent’anni. Invecchiati sceglievano il tempo della loro giovinezza, ma ci sarebbero vissuti i giovani che allora non erano nati» (l’Italia fa eccezione, perché da noi si ritornerebbe sempre e comunque ai favolosi anni ‘60 delle rotonde sul mare, ma forse è solo perché da noi l’età media è più alta). Non ci si rende conto, però, che ad essere bramata, più che la giovinezza in quanto tale, è quel che la giovinezza porta sempre con sé, ovvero una certa aspettativa di futuro. La sensazione, infatti, è che, da qualche parte tra la fine degli anni novanta e l’inizio degli «anni con lo zero», sia «accaduto qualcosa col tempo, qualcosa si è incastrato, ingarbugliato, ha scoppiettato, si è bloccato e fermato». E come certifica l’Alzheimer, «la prima cosa a scomparire quando si perde la memoria è proprio la capacità di immaginare il futuro». A quel tempo, ma anche prima, «c’era una riserva intatta di futuro»; ora che non riusciamo più a immaginarcene uno inedito, ci accontentiamo di «un futuro “di seconda mano”», tanto più suggestivo quanto più assomiglia a quello che ci raffiguriamo essere il passato, con l’effetto distorsivo dell’omino ritratto in copertina, che sembra lasciare le impronte dei propri passi davanti a sé anziché alle proprie spalle. Sembra solo una fantasmagoria, con tutte le implicazioni satiriche che ben si possono immaginare e che lascio al lettore scoprire da sè. Eppure… eppure, a pensarci bene, filtrato attraverso la lente del paradosso, «è quello che succede con tutte le elezioni», quando i lungoviventi, in nome di quel che capitava “ai loro tempi”, dettano l’agenda per tutti, scandendo il motto Great Again.

(finito il 23 marzo 2022)

Ho parlato di


Georgi Gospodinov
Cronorifugio
(Voland 2021)

trad. di G. Dell'Agata

320 p. | 19 €

(ed. or.: Vremeubeziste, 2020)

martedì 2 luglio 2024

Taràs Bul'ba

Anche se tutte le evidenze sembrerebbero attestare il contrario, aspetterei ancora prima di liquidare come una semplice boutade il parere espresso nella sua corrispondenza con Einstein dal dottor Freud, secondo cui il processo di incivilimento porterà poco per volta la nostra specie a introiettare una sorta di istintiva repellenza per ogni forma di guerra. Pensate per un attimo a come abbiamo reagito alla notizia dell’invasione russa dell’Ucraina, quando ci siamo chiesti con sgomento come fosse possibile che la guerra (e una guerra classica, fatta cioè di reticolati, prime linee, sconfinamenti, non quella versione “umanitaria”, “preventiva”, “asimmetrica”, “sporca” che ci è stata venduta dalla caduta del muro di Berlino in poi) potesse scoppiare proprio da noi, in città come le nostre, attorno a stadi che in tempi meno interessanti farebbero risuonare la musichetta della Champions League. E pazienza se questa costernazione rivela la cattiva coscienza di noi anime belle vissute, come si dice, nel più duraturo periodo di pace sperimentato dal nostro continente (i conflitti nella ex Jugoslavia a quanto pare li derubrichiamo istintivamente a scontri tribali balcanici, qualcosa di fatale come le zuffe fra gli animali nella savana): tale miscuglio di stupore, paura e inquietudine rivela appunto che, se non per virtù o sincero spirito di fratellanza, quantomeno per convenienza, utilità e quieto vivere, la guerra è qualcosa che ormai non ci piace più tanto fare (almeno quando ci tocca direttamente).

Ma se noi oggi simpatizziamo senza neanche porci il minimo dubbio con Archiloco quando abbandona lo scudo sul campo per salvare la pelle, non è sempre stato così. Al contrario, tutta l’epica che ha espresso i codici di condotta esemplari della nostra civiltà, e che ancora in gran parte assorbiamo a scuola, dall’Iliade alla Gerusalemme liberata, passando per le saghe nordiche e quelle dei paladini di Francia, ci presenta la guerra non solo come una triste necessità cui è doveroso applicarsi, ma come qualcosa di bello, onorevole, compiutamente virile – e le stesse canzoni trobadoriche, messe momentaneamente da parte le dolci maniere e la bella cortesia, ci ricordano che per secoli il canto degli uccellini all’inizio della primavera è stato per il buon cavaliere il segnale al suono del quale scuotersi di dosso il torpore invernale e rimettersi finalmente in sella alla ricerca della fama promessa a chi avesse irrigato con quanto più sangue possibile quei paesaggi bucolici riemersi dal disgelo.

Così andavano le cose un po’ dappertutto nel mondo, ma forse così andavano ancor di più, «nel difficile XV secolo», in quell’«angolo seminomade d’Europa» posto lungo l’imprecisato confine con l’Asia, dove per chilometri e chilometri non si incontravano «mai villaggi, solo sempre la stessa steppa, infinita, libera, bellissima», anche perché – come nello stato di natura hobbesiano – nessuno si azzardava a costruire più di un rifugio di paglia per sé e per i suoi familiari, ben conscio che tutto il suo lavoro sarebbe stato spazzato via, presto o tardi, dall’inevitabile incursione dei predoni mongoli. Eppure in queste inospitali regioni tanto remote e selvagge che per Plinio non potevano accogliere se non mastodontici scontri tra draghi e altre creature colossali qualcuno che sta perfettamente a proprio agio c’è: sono i guerrieri cosacchi – uomini fieri, rudi, liberi, che fecero dell’isola di Chortycja, sul Dnepr, primo nucleo della Zhaporizzja oggi famosa per la sua centrale nucleare, il centro di una singolare repubblica militare, una roccaforte preclusa alle donne, dove i maschi adulti trascorrevano la maggior parte del tempo nella «gozzoviglia, segno dell’ampia sfrenatezza della loro libertà interiore», interrotta solo dalle stagionali spedizioni intraprese ora contro i tartari, ora contro i turchi, ora contro quei polacchi rinnegati che avevano abiurato la santa fede ortodossa per abbracciare quella cattolica, nobilmente convinti com’erano «che fosse indifferente dove combattere pur di combattere, perché non è bene che un uomo d’onore viva senza battaglie» e che un giovanotto superi una certa età senza mai essersi buttato nella mischia. Sì, ci saranno cadaveri dappertutto, «ma grande sarà il bene in una simile distesa di morte sparpagliata in lungo e in largo! Nessuna impresa magnanima va distrutta, e non si perderà la gloria cosacca come non va perduto nemmeno un granello di polvere nella canna di un fucile. Ci sarà, ci sarà un bandurista con la barba canuta sul petto, e forse sarà un vecchio con la testa bianca ma ancora nel pieno della sua forza virile, saggio spirito, capace di parlare di loro con la sua parola profonda e possente. E si spargerà per tutto il mondo la loro gloria».

É esattamente questo genere di gloria quella cui ambiscono anche Ostap e Andrij, i due figli che il vecchio Taras Bul’ba accompagna tutto orgoglioso per la prima volta al raduno annuale del suo popolo, perché diventino, come lui, due cosacchi tutti d’un pezzo, nonostante i piagnucolii della mamma dinanzi all’alta probabilità che nessuno dei due avrebbe mai più fatto ritorno a casa. E sarebbe diventata sicuramente una grande epopea, la loro storia, se a cantarla fosse stato un anonimo bardo d’altri tempi, anziché un romanziere moderno, con una maggiore sensibilità per le ambiguità del reale. Il destino di questi fratelli è, infatti, totalmente opposto - almeno secondo i codici di condotta cosacchi - eppure, alla fin fine, anche così terribilmente simile da imporre qualche domanda. Andrij, innamoratosi di una bella polacca durante l’assedio di Dubno, abbandona in segreto il proprio accampamento per seguirla all’interno della città compiendo quello che agli occhi di Taras Bul’ba non può non apparire come il più spregevole dei tradimenti. Il figlio, in realtà, ha le sue ragioni («chi ha detto che la mia patria è l’Ucraina? Chi me l’ha data come patria? La patria è quel che l’anima nostra cerca, quel che per lei è più dolce d’ogni altra cosa. La mia patria sei tu! Ecco la mia patria!», afferma, rivolgendosi alla ragazza amata), ma sono argomenti che il padre semplicemente non può capire, tant’è che sarà lui stesso a trafiggerlo con la propria spada quando finiranno per reincontrarsi, a riparazione di un’onta quasi sacrilega («io ti ho generato, io ti ucciderò»: questa è la sua elementare legge morale). Ostap, al contrario, è la luce dei suoi occhi: forte e impavido come pochi altri, paga però la sua irruenza con la cattura, sempre ad opera dei polacchi – e tale è stato il terrore da lui seminato in battaglia che la pena a cui verrà sottoposto dovrà risultare memorabile. In quel secolo brutale, il suo supplizio diventa così un autentico spettacolo che richiama tutti i cittadini di Varsavia, comprese «una moltitudine di vecchie, le più devote, una quantità di fanciullette e di donne, le più delicate, che in seguito per tutta la notta avrebbero sognato cadaveri insanguinati»; anche i macellai presenti commentano sotto il palco «con l’aria dell’intenditore» le tecniche di squartamento impiegate dal boia. Ad una ad una gli saranno spezzate tutte le ossa, senza che gli aguzzini riescano però a strappargli dalla gola una parola di lamento, finché, dopo aver sopportato tutto questo con la massima fermezza, il ragazzo viene assalito dall’angoscia e, novello Cristo crocifisso, invoca il soccorso paterno («Bat’ko!», che potrebbe stare per Abbà, «Dove sei? Mi senti?»). E proprio in quel momento, in mezzo alla folla ammutolita, Taras Bul’ba, che era riuscito a intrufolarsi furtivamente nella città nemica, risponde con voce tonante «Sento!».

Difficile immaginarsi scena più potente, che a un certo tipo di lettore potrebbe apparire come un modo per celebrare un complesso di valori in cui l’ossequio verso le tradizioni dei padri fa tutt’uno con la percezione di se stessi quale estremo baluardo difensivo della cristianità contro la minaccia degli infedeli provenienti dai confini del mondo e ancor più contro quella degli infedeli già mischiati fra noi, portatori di tendenze effeminate e corrotte (qui tipicamente rappresentate dall’ebreo che accompagna i cosacchi nelle loro spedizioni, pur subendone le angherie, per succhiare profitti dalla devastazione mentre loro sputano sangue). Per un miracolo della letteratura, uno scrittore russo nato in Ucraina come Gogol’, anche se forse non capirebbe quello che sta accadendo ora da quelle parti, perché le linee di demarcazione che aveva in testa non prevedevano significative distinzioni tra la Rus’ di Kiev e quella di Mosca, ci offre comunque degli strumenti utili per provare a comprendere il nocciolo ideologico che sorregge la retorica di Putin, con tutto la sua fortissima carica escatologica («aspettate, verrà il tempo, ci sarà il tempo, verrete a sapere cosa sia la fede ortodossa! Già adesso lo sentono i popoli lontani e vicini: si alzerà dalla terra russa il suo zar, e al mondo non ci sarà forza che gli si potrà opporre»). Per un miracolo ancora maggiore, però, in quegli schemi di pensiero possiamo riconoscere anche gli stessi meccanismi che operano attivamente, sia pure con diversi livelli di semplificazione, nei discorsi delle forze politiche oggi riemergenti in Europa, alle quali Gogol’ sembra preventivamente obiettare: ma davvero non sappiamo fare di meglio che preparare il terreno all’ecatombe dei nostri figli? Perchè è questo quello che succede quando non si riesce a capire che, nonostante l’addobbamento cristiano, sotto il petto di Taras Bul’ba continua a pulsare il cuore di una divinità guerriera delle steppe e non quello del Padre misericordioso che spezza definitivamente la logica della violenza. Spero vivamente che, quando suonerà la prima tromba, gli opportunisti ci salvino dagli invasati.

(finito il 5 marzo 2022)

Ho parlato di


Nikolaj Gogol'
Taràs Bul'ba
(Gruppo Editoriale L'Espresso 2011)

trad. di S. Prina

La Biblioteca di Repubblica - I Grandi della narrativa n. 24

160 p.

(ed. or.: Taràs Bul'ba, 1835)