martedì 2 luglio 2024

Taràs Bul'ba

Anche se tutte le evidenze sembrerebbero attestare il contrario, aspetterei ancora prima di liquidare come una semplice boutade il parere espresso nella sua corrispondenza con Einstein dal dottor Freud, secondo cui il processo di incivilimento porterà poco per volta la nostra specie a introiettare una sorta di istintiva repellenza per ogni forma di guerra. Pensate per un attimo a come abbiamo reagito alla notizia dell’invasione russa dell’Ucraina, quando ci siamo chiesti con sgomento come fosse possibile che la guerra (e una guerra classica, fatta cioè di reticolati, prime linee, sconfinamenti, non quella versione “umanitaria”, “preventiva”, “asimmetrica”, “sporca” che ci è stata venduta dalla caduta del muro di Berlino in poi) potesse scoppiare proprio da noi, in città come le nostre, attorno a stadi che in tempi meno interessanti farebbero risuonare la musichetta della Champions League. E pazienza se questa costernazione rivela la cattiva coscienza di noi anime belle vissute, come si dice, nel più duraturo periodo di pace sperimentato dal nostro continente (i conflitti nella ex Jugoslavia a quanto pare li derubrichiamo istintivamente a scontri tribali balcanici, qualcosa di fatale come le zuffe fra gli animali nella savana): tale miscuglio di stupore, paura e inquietudine rivela appunto che, se non per virtù o sincero spirito di fratellanza, quantomeno per convenienza, utilità e quieto vivere, la guerra è qualcosa che ormai non ci piace più tanto fare (almeno quando ci tocca direttamente).

Ma se noi oggi simpatizziamo senza neanche porci il minimo dubbio con Archiloco quando abbandona lo scudo sul campo per salvare la pelle, non è sempre stato così. Al contrario, tutta l’epica che ha espresso i codici di condotta esemplari della nostra civiltà, e che ancora in gran parte assorbiamo a scuola, dall’Iliade alla Gerusalemme liberata, passando per le saghe nordiche e quelle dei paladini di Francia, ci presenta la guerra non solo come una triste necessità cui è doveroso applicarsi, ma come qualcosa di bello, onorevole, compiutamente virile – e le stesse canzoni trobadoriche, messe momentaneamente da parte le dolci maniere e la bella cortesia, ci ricordano che per secoli il canto degli uccellini all’inizio della primavera è stato per il buon cavaliere il segnale al suono del quale scuotersi di dosso il torpore invernale e rimettersi finalmente in sella alla ricerca della fama promessa a chi avesse irrigato con quanto più sangue possibile quei paesaggi bucolici riemersi dal disgelo.

Così andavano le cose un po’ dappertutto nel mondo, ma forse così andavano ancor di più, «nel difficile XV secolo», in quell’«angolo seminomade d’Europa» posto lungo l’imprecisato confine con l’Asia, dove per chilometri e chilometri non si incontravano «mai villaggi, solo sempre la stessa steppa, infinita, libera, bellissima», anche perché – come nello stato di natura hobbesiano – nessuno si azzardava a costruire più di un rifugio di paglia per sé e per i suoi familiari, ben conscio che tutto il suo lavoro sarebbe stato spazzato via, presto o tardi, dall’inevitabile incursione dei predoni mongoli. Eppure in queste inospitali regioni tanto remote e selvagge che per Plinio non potevano accogliere se non mastodontici scontri tra draghi e altre creature colossali qualcuno che sta perfettamente a proprio agio c’è: sono i guerrieri cosacchi – uomini fieri, rudi, liberi, che fecero dell’isola di Chortycja, sul Dnepr, primo nucleo della Zhaporizzja oggi famosa per la sua centrale nucleare, il centro di una singolare repubblica militare, una roccaforte preclusa alle donne, dove i maschi adulti trascorrevano la maggior parte del tempo nella «gozzoviglia, segno dell’ampia sfrenatezza della loro libertà interiore», interrotta solo dalle stagionali spedizioni intraprese ora contro i tartari, ora contro i turchi, ora contro quei polacchi rinnegati che avevano abiurato la santa fede ortodossa per abbracciare quella cattolica, nobilmente convinti com’erano «che fosse indifferente dove combattere pur di combattere, perché non è bene che un uomo d’onore viva senza battaglie» e che un giovanotto superi una certa età senza mai essersi buttato nella mischia. Sì, ci saranno cadaveri dappertutto, «ma grande sarà il bene in una simile distesa di morte sparpagliata in lungo e in largo! Nessuna impresa magnanima va distrutta, e non si perderà la gloria cosacca come non va perduto nemmeno un granello di polvere nella canna di un fucile. Ci sarà, ci sarà un bandurista con la barba canuta sul petto, e forse sarà un vecchio con la testa bianca ma ancora nel pieno della sua forza virile, saggio spirito, capace di parlare di loro con la sua parola profonda e possente. E si spargerà per tutto il mondo la loro gloria».

É esattamente questo genere di gloria quella cui ambiscono anche Ostap e Andrij, i due figli che il vecchio Taras Bul’ba accompagna tutto orgoglioso per la prima volta al raduno annuale del suo popolo, perché diventino, come lui, due cosacchi tutti d’un pezzo, nonostante i piagnucolii della mamma dinanzi all’alta probabilità che nessuno dei due avrebbe mai più fatto ritorno a casa. E sarebbe diventata sicuramente una grande epopea, la loro storia, se a cantarla fosse stato un anonimo bardo d’altri tempi, anziché un romanziere moderno, con una maggiore sensibilità per le ambiguità del reale. Il destino di questi fratelli è, infatti, totalmente opposto - almeno secondo i codici di condotta cosacchi - eppure, alla fin fine, anche così terribilmente simile da imporre qualche domanda. Andrij, innamoratosi di una bella polacca durante l’assedio di Dubno, abbandona in segreto il proprio accampamento per seguirla all’interno della città compiendo quello che agli occhi di Taras Bul’ba non può non apparire come il più spregevole dei tradimenti. Il figlio, in realtà, ha le sue ragioni («chi ha detto che la mia patria è l’Ucraina? Chi me l’ha data come patria? La patria è quel che l’anima nostra cerca, quel che per lei è più dolce d’ogni altra cosa. La mia patria sei tu! Ecco la mia patria!», afferma, rivolgendosi alla ragazza amata), ma sono argomenti che il padre semplicemente non può capire, tant’è che sarà lui stesso a trafiggerlo con la propria spada quando finiranno per reincontrarsi, a riparazione di un’onta quasi sacrilega («io ti ho generato, io ti ucciderò»: questa è la sua elementare legge morale). Ostap, al contrario, è la luce dei suoi occhi: forte e impavido come pochi altri, paga però la sua irruenza con la cattura, sempre ad opera dei polacchi – e tale è stato il terrore da lui seminato in battaglia che la pena a cui verrà sottoposto dovrà risultare memorabile. In quel secolo brutale, il suo supplizio diventa così un autentico spettacolo che richiama tutti i cittadini di Varsavia, comprese «una moltitudine di vecchie, le più devote, una quantità di fanciullette e di donne, le più delicate, che in seguito per tutta la notta avrebbero sognato cadaveri insanguinati»; anche i macellai presenti commentano sotto il palco «con l’aria dell’intenditore» le tecniche di squartamento impiegate dal boia. Ad una ad una gli saranno spezzate tutte le ossa, senza che gli aguzzini riescano però a strappargli dalla gola una parola di lamento, finché, dopo aver sopportato tutto questo con la massima fermezza, il ragazzo viene assalito dall’angoscia e, novello Cristo crocifisso, invoca il soccorso paterno («Bat’ko!», che potrebbe stare per Abbà, «Dove sei? Mi senti?»). E proprio in quel momento, in mezzo alla folla ammutolita, Taras Bul’ba, che era riuscito a intrufolarsi furtivamente nella città nemica, risponde con voce tonante «Sento!».

Difficile immaginarsi scena più potente, che a un certo tipo di lettore potrebbe apparire come un modo per celebrare un complesso di valori in cui l’ossequio verso le tradizioni dei padri fa tutt’uno con la percezione di se stessi quale estremo baluardo difensivo della cristianità contro la minaccia degli infedeli provenienti dai confini del mondo e ancor più contro quella degli infedeli già mischiati fra noi, portatori di tendenze effeminate e corrotte (qui tipicamente rappresentate dall’ebreo che accompagna i cosacchi nelle loro spedizioni, pur subendone le angherie, per succhiare profitti dalla devastazione mentre loro sputano sangue). Per un miracolo della letteratura, uno scrittore russo nato in Ucraina come Gogol’, anche se forse non capirebbe quello che sta accadendo ora da quelle parti, perché le linee di demarcazione che aveva in testa non prevedevano significative distinzioni tra la Rus’ di Kiev e quella di Mosca, ci offre comunque degli strumenti utili per provare a comprendere il nocciolo ideologico che sorregge la retorica di Putin, con tutto la sua fortissima carica escatologica («aspettate, verrà il tempo, ci sarà il tempo, verrete a sapere cosa sia la fede ortodossa! Già adesso lo sentono i popoli lontani e vicini: si alzerà dalla terra russa il suo zar, e al mondo non ci sarà forza che gli si potrà opporre»). Per un miracolo ancora maggiore, però, in quegli schemi di pensiero possiamo riconoscere anche gli stessi meccanismi che operano attivamente, sia pure con diversi livelli di semplificazione, nei discorsi delle forze politiche oggi riemergenti in Europa, alle quali Gogol’ sembra preventivamente obiettare: ma davvero non sappiamo fare di meglio che preparare il terreno all’ecatombe dei nostri figli? Perchè è questo quello che succede quando non si riesce a capire che, nonostante l’addobbamento cristiano, sotto il petto di Taras Bul’ba continua a pulsare il cuore di una divinità guerriera delle steppe e non quello del Padre misericordioso che spezza definitivamente la logica della violenza. Spero vivamente che, quando suonerà la prima tromba, gli opportunisti ci salvino dagli invasati.

(finito il 5 marzo 2022)

Ho parlato di


Nikolaj Gogol'
Taràs Bul'ba
(Gruppo Editoriale L'Espresso 2011)

trad. di S. Prina

La Biblioteca di Repubblica - I Grandi della narrativa n. 24

160 p.

(ed. or.: Taràs Bul'ba, 1835)

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