Giusto pochi giorni fa alcune mie classi sono state coinvolte in un interessante percorso promosso dall’Archivio Storico di Savigliano sulla peste “manzoniana” del 1630 che colpì in realtà tutto il nord Italia. Dal momento che non ho potuto parteciparvi in prima persona perché contemporaneamente impegnato in un’altra attività didattica, nelle lezioni successive ho cercato di carpire agli studenti qualche informazione su ciò che era stato raccontato loro. Immancabilmente, tutti quelli che hanno condiviso le loro impressioni si sono detti affascinati soprattutto dal fatto di aver potuto prendere visione (sia pure a distanza) dei documenti ufficiali dell’epoca e delle altre meraviglie che un archivio comunale spesso custodisce senza che molti di noi neanche ne immaginino l’esistenza. Comprendo benissimo quel tipo di emozione. E però – che volete che vi dica? - l’amico Cesare Morandini c’era arrivato prima di tutti. Più o meno un anno fa, di questi tempi (ancora sotto quaresima, dice in effetti lui, ma Pasqua era una settimana dopo), nel cuore del lockdown duro, mentre i più si reinventavano fornai e pizzaioli casalinghi, lui si è invece ricordato che «in una remota cartella del (...) computer» aveva salvato le scansioni degli ordinati comunali di Mondovì (per capirci, i verbali del consiglio comunale) relativi, appunto, agli anni 1630-1631, li ha metaforicamente dissotterrati da lì e ha cominciato a trascriverli, «di sera, nel sottofondo della tv accesa sui notiziari» che a rullo continuo sciorinavano i numeri dell’apocalisse in corso, confrontando così passo passo le affinità e le diversità nel modo di affrontare la comune emergenza a quattro secoli di distanza.
Ora, la domanda è d’obbligo: ma perché mai uno dovrebbe avere salvato da qualche parte nel proprio hard disk gli ordinati seicenteschi del consiglio comunale di Mondovì accanto alle foto delle ultime vacanze a Spotorno, e poi proprio quegli ordinati lì, quelli che parlano della peste, mentre fuori infuria una pandemia globale assolutamente imprevista? Sulla prima parte soprassiedo: ognuno ha le sue personali perversioni. La risposta alla seconda domanda è che la ricerca, spesso, funziona così. Tu lavori, per dire, su un progetto ben preciso, finisci per questo in una qualche biblioteca seguendo un certo filone di indagine o apri un libro alla ricerca di determinate informazioni, ma nel farlo ti imbatti incidentalmente in qualcos’altro che ha tutta l’aria di essere molto interessante e a cui però in quel momento non puoi prestare troppa attenzione perché – appunto – esula del tutto dalla tua ricerca. Allora, senza pensarci più di tanto, te ne fai una copia e la metti da parte perché chissà, magari in futuro se ne potrà fare qualcosa, poi si vedrà. Qui vien fuori il fiuto dello storico, e non solo dello storico (Colombo, in fondo, ha trovato l’America mentre cercava l’Asia). Tante volte, effettivamente, questi reperti restano da parte per sempre, intonsi, perché l’occasione giusta non si presenta mai. A volte, però, accade il contrario – e così è andata. Racconta Cesare, riferendosi a quei giorni di un anno fa: «attorno a me il paese tenta di deliberare le azioni corrette in relazione ad una situazione che non si era mai presentata, o meglio, che si era già presentata molte volte, ma troppo tempo fa. (…) Io faccio la mia parte, e intanto scavo in una miniera che tutti ignorano (…). Io so che queste mura, questo panorama di monti e colline, questi nomi di luoghi hanno già visto tutto questo. Inizio a raccontare, nella penombra segreta del mio schermo, immerso nell’aria tesa di questa storia di coronavirus, quell’altra storia di peste. Senza ragioni particolari, se non per una elementare assonanza. Segretamente, inconsapevolmente, sperando di trovare delle profonde imprescindibili differenze. E per un brivido maligno di disvelamento, quello che sempre prude tra le dita dello storico».
Già, perché, man mano che la trascrizione procedeva, il lavoro di Cesare ha preso un’altra forma. A ricopiare son buoni tutti, bastano due nozioni di paleografia e tanta pratica come correttori di compiti in classe. Quella che alla fine ha compiuto è invece un’operazione che non esito a definire di alto valore culturale, ma anche sociale, e che, mi sbilancio, apre una vera e propria strada tutta da percorrere (al di là del caso specifico preso qui in esame). In buona sostanza, cos’ha fatto Cesare? Ha preso del materiale d’archivio che era lì da secoli – nulla dunque di misterioso o esoterico, nessun manoscritto inedito di Qumran per intenderci - ma che tuttavia non era realmente accessibile a tutti - perché scritto in una lingua ostica, perché stringato come deve esserlo un verbale e al tempo stesso pieno di sottintesi e informazioni ovvie forse per i lettori di un tempo, ma non per noi (a cominciare, per dirne una, dalla toponomastica) – e da questo solido materiale grezzo ha ricavato un’opera che non è narrativa in senso stretto (perché non si può dire che ci sia un intreccio vero e proprio, men che meno una deriva romanzesca) e però neanche puramente saggistica (non solo perché la prosa scorre via che è un piacere e non manca il racconto di episodi gustosissimi, ma anche perché informazioni che in volumi d’altro genere sarebbero state confinate nelle note o negli apparati qui sono rifuse nel testo stesso, integrandolo senza appesantirlo, così da fornire man mano al lettore gli strumenti necessari per orientarsi in un mondo che non è più il nostro, anche se ci assomiglia molto). Direi allora che quella che ne è venuta fuori, dietro l’aspetto di una cronaca mensile degli eventi, è un’opera di affabulazione come lo possono essere le lezioni ad popolum di un Alessandro Barbero, con personaggi indimenticabili (uno su tutti: l'instancabile vicesindaco Orazio Vitale), momenti di grande tensione narrativa, suggestive ipotesi interpretative – e anzi, a dirla tutta, il principale limite di questo libro è proprio il fatto che sia solo scritto, perché chi lo conosce sa bene quanto Cesare, pur scrivendo benissimo, sia ancor più bravo a raccontare le cose a voce, coinvolgendoti nel racconto con le pause, i cambiamenti di tono e la gestualità (ed è per questo che me la vedrei proprio bene la versione video di questo testo, con l’autore che ci parla di medici, suffumigi e calce viva girando nei luoghi della nostra Mondovì via via che ne parla, dal lazzaretto di San Bernolfo e delle Ripe ai palazzi di via Vico in cui il medico Durando attesta il primo caso ufficiale di peste entro le mura cittadine. E quanto sarebbe bello allargare poi il discorso alla Mondovì medievale e a quella napoleonica, alle lotte di fazione e alle dinamiche produttive?).
Apro una parentesi. Quella appena descritta è un’esigenza che mi pare si stia manifestando in molti modi. Per restare grosso modo agli anni della peste secentesca, è uscita da pochissimo una “traduzione” in lingua corrente dei Discorsi e dimostrazioni di Galileo realizzata dal fisico Alessandro De Angelis: operazione che può far storcere il naso ai puristi, ma che, se condotta con intelligenza e competenza, può aiutare un pubblico di studenti o di non specialisti ad accostare testi che diventano via via sempre più difficili da decodificare e che rischiamo per questo di dimenticare. Chiusa parentesi.
Rendere in questo modo di pubblico dominio un pezzo della nostra storia cittadina, i personaggi che l’hanno vissuta e i luoghi in cui si è svolta, è esattamente come rendere di nuovo agibile un vecchio edificio andato in disuso: ci si riappropria collettivamente di qualcosa che è di tutti ritrasformando in risorsa ciò che era diventato un problema (tema a cui noi monregalesi siamo per forza di cose particolarmente sensibili). Un recupero delle nostre radici condotto in questa maniera, brioso nei toni eppure metodologicamente accurato, costituisce inoltre un antidoto al vizio diffuso di spacciare per autentico rispetto del passato quello che è solo un volgare saccheggio della storia per fini ideologici e propagandistici da parte di chi ricorda tutt’al più cos’ha mangiato due sere prima, se va bene. Da questo punto di vista, poi, la storia locale è un vero e proprio campo minato, perché spesso ha l’odore asfittico di certi musei etnografici in cui si glorifica la roncola del nonno come se fosse una reliquia dei Re Magi. Questa lettura, al contrario, ti cattura con i suoi riferimenti a un mondo così familiare eppure così diverso come la tua stessa città di quattro secoli fa, che impari così a far riemergere sotto quella attuale, ma si serve di questo escamotage per allargare i tuoi orizzonti anziché ripiegarli nella contemplazione di un sedicente “eterno ieri” (che la vera storia ha anzi il compito di problematizzare e riproblematizzare).
Su questo libro ho avuto il privilegio di dialogare pubblicamente con Cesare stesso al momento della sua uscita, e per questo qui ho un po’ divagato, immaginando che gli interessati lo abbiano già letto. Aggiungo solo questo. Quando ne discutemmo, cominciavamo appena a rimettere il naso fuori di casa e sembrava che il peggio fosse superato. Anche per questo, l’attenzione allora si focalizzò su certi aspetti anziché su altri. Eppure, nelle pagine finali si ricorda che «con la primavera il contagio riprende con forza»: non è devastante come nei mesi precedenti, «ma è ben vivo». E anche che «la lotta al morbo ricomincia, solo più in sordina rispetto a un anno prima», perché «manca l’allarme, maturato in una rassegnazione amara». Le avevamo forse trascurate un po’, sul momento, quelle considerazioni, anche per scaramanzia. E invece eccoci qua.
(finito il 27 maggio 2020)
Ho parlato di
Cesare Morandini
La peste e la città. Mondovì 1630
(Cooperativa Editrice Monregalese, 2020)
120 pp. | 9,50 €
(Cooperativa Editrice Monregalese, 2020)
120 pp. | 9,50 €
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