Insegnare (e prima ancora studiare) la storia è uno dei motivi per cui sono grato di esistere. E tuttavia non nascondo la frustrazione che immancabilmente provo quando mi rendo conto che, con tutta la buona volontà, le mie lezioni non riusciranno mai a restituire la complessità degli intrecci e dei percorsi che caratterizzano le vicende di cui parlo. Quando devi riassumere in un’ora la guerra dei Cent’anni, va da sé che è una battaglia quasi persa in partenza. Ma avvicinandosi ai nostri giorni le cose si complicano ulteriormente, perché le informazioni a disposizione crescono, i distinguo si moltiplicano e tutte le categorie impiegate per fare sintesi sembrano clamorosamente inadeguate non appena scavi un po’ sotto la superficie degli eventi e ti immergi negli irripetibili itinerari personali di chi quegli eventi ha prodotto. Oltrettutto si corre il rischio, semplificando, di condannare all’oblio proprio quegli eccentrici che dovrebbero invece farci da maestri per la loro capacità di mantenere un cuore caldo e una mente lucida anche nel buio e nel freddo della notte più nera.
Prendiamo il caso di Victor Serge. Figlio di esuli russi in Belgio, quando «dalla Russia sciamavano per il mondo uomini e donne plasmati da combattimenti senza quartiere», nato e cresciuto – come amava dire – «sulle vie del mondo», a stretto contatto con la miseria disperata di masse di uomini e donne stritolate e ridotte alla fame perché il progresso consentisse a pochi eletti di accumulare «insolenti ricchezze», secondo la spietata logica selettiva di «un individualismo primordiale» che li spinge a chiudersi nelle proprie case, «con le loro tende ben tirate sull’ognuno per sé – e Dio per tutti, se volete!», Serge matura precocemente l’esigenza di «battersi per una evasione impossibile» da tale sistema disumano e apparentemente invincibile, per la semplice, ma granitica ragione che «questo mondo è inaccettabile in sè». La decisione di impegnarsi «attivamente contro tutto ciò che sminuisce gli uomini e partecipare a tutte le lotte che tendono a liberarli e a farli più grandi» lo spinge ad aggregarsi ai circoli anarchici di Parigi, dove nel frattempo si è trasferito, e questa adesione gli costa il primo dei tanti arresti cui andrà incontro, che lo tiene lontano dalle trincee quando scoppia la Prima guerra mondiale. Offertosi con altri per uno scambio di prigionieri quando arriva la notizia della Rivoluzione d’Ottobre, approda con altri compagni a Pietrogrado nel gennaio 1919. In Russia si aspettava di respirare finalmente «l’aria di una libertà, senza dubbio dura e persino crudele con i suoi nemici, ma larga e tonica». E invece trova la Ceka e uno Stato poliziesco che poco per volta soffoca qualunque espressione di dissenso anche fra i suoi sostenitori. Serge decide in quel frangente che sarebbe stato comunque con i bolscevichi, «perché davano compimento con tenacia, senza scoraggiamenti, con ardore magnifico, con passione riflessa, alla necessità stessa», con una meravigliosa forza d’animo e assumendosene tutte le responsabilità; ma sarebbe stato con loro «liberamente, senza abdicare al pensiero né al senso critico», per combatterli lealmente, dall’interno, «con libertà di spirito e in spirito di libertà» – perché quella rivoluzionaria, ritiene, è l’unica battaglia giusta da portare avanti, anche a costo della vita.
Di qui in poi si muoverà perciò sempre all’opposizione, minoranza delle minoranze, perennemente sul filo del rasoio in un regime che stava erigendo il sospetto a sistema di governo. Lavorerà per conto della Terza Internazionale, sarà agente clandestino in Germania e in Austria, conoscendo un sacco di compagni e non stancandosi mai di denunciare nei suoi scritti la «controrivoluzione burocratica» che stava prendendo piede in Unione Sovietica, le sofferenze inenarrabili delle sue vittime e lo sviluppo totalitario che era entrato «in contraddizione con tutto ciò che è stato detto proclamato, voluto, pensato, durante la rivoluzione stessa». Alla fine pagherà questa sua schiettezza con un nuovo arresto, la deportazione in una regione interna a ridosso degli Urali, la proibizione di continuare a scrivere – e forse la cosa peggiore di tutte – la diffusione di menzogne sul suo conto per giustificare quel trattamento, a causa delle quali molti vecchi amici gli toglieranno il saluto. A salvarlo dalla morte è la fama e la mobilitazione per la sua scarcerazione promossa da alcuni scrittori francesi proprio nel momento in cui Stalin cercava sponde a Occidente avallando i Fronti popolari. Scarcerato, Serge rientra in Francia, boicottato da quanti pensavano solo quello che il partito diceva di pensare e invitato da altri a non parlare male dell’URSS perché per il popolo quello doveva restare un ideale saldissimo a cui aggrapparsi nei giorni duri che sarebbero venuti. Stretto tra l’ostilità comunista e il dilagare del nazifascismo, osserva con angoscia crescente le vicende disastrose della guerra civile spagnola, le faide intestine al campo rivoluzionario («la corruzione del meglio è quanto c’è di peggio») e poi il precipitare degli eventi che portano allo scoppio della Seconda guerra mondiale, finché decide di accodarsi agli sfollati che lasciano Parigi, imbarcandosi infine alla volta del Messico, dove troverà ospitalità e potrà scrivere le memorie raccolte in questo libro.
Memorie, non autobiografia, come uno potrebbe anche lasciarsi sfuggire. É Serge stesso a notare, quasi in chiusura, che, nonostante il filo conduttore del racconto sia fornito dal susseguirsi cronologico delle vicende che gli sono accadute, «ci si sarà accorti che non sento molto interesse a parlare di me stesso». Sappiamo incidentalmente che ha un figlio, una moglie – poco altro. E questo perché «mi è difficile dissociare la persona dai complessi sociali, dalle idee e dalle attività cui partecipa, che importano più di lei e le conferiscono un valore», in quanto «il senso stesso della vita consiste nella partecipazione cosciente al senso della storia». Altrove è ancora più esplicito: «l'“Io” mi ripugna come una vana affermazione di se stessi, contenente una gran parte di illusione e un'altra di vanità o di ingiusto orgoglio: ogni volta che è possibile, vale a dire ogni volta che posso non sentirmi isolato, che la mia esperienza illumina da qualche lato quella di uomini ai quali mi sento legato, preferisco impiegare il “noi”, più generale e più vero. Non si vive mai soltanto di se stessi, per sé, non bisogna tentarlo, bisogna sapere che il nostro pensiero più intimo, più nostro, si ricollega con mille legami a quello del mondo; e colui che parla, colui che scrive, è essenzialmente un uomo che parla per tutti coloro che sono senza voce», perché schiacciati da un sistema sociale ingiusto o perché ingoiati dalle fauci di un mostruoso apparato totalitario. A molti di questi compagni perduti, di cui non si è più saputo nulla, Serge dedica straordinari ritratti, lasciando intendere che ciascuno di essi potrebbe essere protagonista di uno specifico romanzo, se il romanzo tradizionale fosse il modo adeguato di raccontare la storia della sua generazione, che è stata invece un’impresa collettiva («descrivo questi uomini perché sono loro riconoscente di essere esistiti e perché incarnano un’epoca. La cosa più probabile è che siano morti tutti»). Del resto, le radici della sua militanza affondano sostanzialmente in un appassionato, sconfinato, irrinunciabile «bisogno di partecipare alla sorte comune». «Nulla ci appartiene veramente, se non la nostra buona volontà di partecipare alla vita comune». Il rivoluzionario, infatti, «non vive per se stesso»; è «al servizio di un’infinito – che per noi è l’umanità» ed è, per questo, in «comunione (…) con tutti gli uomini di tutti i tempi». Non siamo distanti dal “mi rivolto dunque siamo” di Camus, ma anche da certa mistica medievale. E vien quasi da piangere, a pensare agli orizzonti meschini e alle pulsioni narcisistiche di chi oggi occupa il centro della scena politica.
Eppure, quest’uomo che dice che «le esistenze individuali non mi interessavano – a cominciare dalla mia – altro che in funzione della grande vita collettiva di cui siamo soltanto frammenti più o meno dotati di coscienza» non esita poi a rivendicare con assoluta intransigenza, anche quando ciò significa esporre il fianco all’implacabile pressione del regime, la difesa e il rispetto dell’uomo, «l’uomo, chiunque esso sia, fosse pure l’ultimo degli uomini», senza di cui «tutto è falso, fallito, viziato», socialismo compreso. Il tema della libertà è esattamente ciò che la Rivoluzione non ha saputo tematizzare, dominata com’era da un’aspirazione verso l’assoluto (derivata almeno in parte dalla mentalità russa dei suoi capi) facilmente convertibile in intolleranza (che è cosa ben diversa, per Serge, dalle durezze anche comprensibili che la lotta richiede). Per questo, se rifiuta nettamente l’etichetta di “individualista”, non disdegna invece quella di “personalista” – ed è significativo che «sulla semplice dottrina del rispetto della persona umana» si riconosca in perfetta sintonia con quei «cattolici di sinistra che erano cristiani autentici e belle intelligenze oneste», come Mounier e il gruppo di Esprit, i quali «avevano orrore della menzogna e del sangue versato sotto il sigillo della menzogna, e lo dissero fortemente» («i cattolici di sinistra – aggiunge in un altro passo, lasciatemelo notare – sono di una bella stoffa morale e intellettuale. Dei preti concorrono alla salvezza dei profughi più perseguitati. E uno di essi mi dice: “I soli che senza dubbio non convertiremo mai al cristianesimo sono i vecchi borghesi cattolici...”»).
Ora, fra i requisiti fondamentali per garantire la dignità della persona un posto essenziale ha la difesa congiunta della verità e della libertà di pensiero, termini non antitetici qualora si abbandonino pregiudizi e schematismi e si prenda atto che «i rapporti tra l'errore e la conoscenza giusta sono ancora troppo oscuri perché si possa pretendere di regolarli autoritariamente; senza dubbio all'uomo occorrono lunghi erramenti attraverso le ipotesi, gli sbagli e i tentativi dell'immaginazione, per giungere a mettere in chiaro conoscenze più esatte, in parte provvisorie; giacché ci sono poche esattezze definitive». Ciò che bisogna temere non è dunque la mancanza di certezze, ma semmai il loro eccesso, che si manifesta sotto forma di falsificazione diffusa. Il Mein Kampf spiega con cinismo perfetto come applicare alla politica le tecniche della pubblicità commerciale, «aggiungendovi, su un fondo di irrazionalismo, una violenza forsennata» - come ha imparato bene a fare la Bestia di Morisi: «la sfida all’intelligenza umilia quest’ultima e ne prefigura la disfatta. La affermazione enorme e inattesa sorprende l’uomo medio, il quale non concepisce che si possa mentire in quel modo. La brutalità lo intimidisce e riscatta in certo qual modo l’impostura; l’uomo medio, mentre sviene sotto il colpo, ha la tentazione di dirsi che dopotutto quella frenesia deve avere una giustificazione superiore che oltrepassa la sua comprensione».
Serge aggiunge poi che «il buon successo di simili tecniche è possibile soltanto in epoche torbide e a condizione che le minoranze coraggiose, che incarnano il senso critico, siano bene imbavagliate o ridotte all’impotenza dalla ragion di Stato e dalla mancanza di risorse materiali», e forse, nel dire così, si dimostra persin troppo fiducioso nelle capacità razionali degli uomini, ma non poteva prevedere la pervasività molecolare dei social media e il costante chiacchiericcio di fondo della rete, che vanifica gli sforzi argomentativi senza doverli neanche proibire. É la stessa fiducia che gli fa confessare, concludendo il libro, nel 1943, a guerra ancora in corso, di provare un sentimento di «piena attesa». Quello che ha imparato dagli esuli russi fra cui è cresciuto, infatti, è che «la rivoluzione veniva loro incontro dal fondo dell'avvenire, inesorabile». Per questo, apparentemente del tutto a sproposito, mentre descrive il suo rocambolesco abbandono della Francia e l’«usura morale» che l’ha portata a svendersi a Hitler per tutelare il suo meschino benessere, può comunque sostenere che, nonostante tutto, «ci sentiamo, sul nazismo vittorioso, in splendido vantaggio: lo sappiamo condannato». Ciò non significa però automaticamente la discesa del paradiso in terra. Il mondo, dice Serge, è vertiginosamente cambiato in pochi decenni e «nessuna dottrina ha resistito all’urto». Chi lo ha trasformato è invece la potenza tecnica, che sta predisponendo uno scenario radicalmente nuovo, tutto da programmare e da costruire. Per farlo servono, più che mai, teste pensanti e mani volenterose, altrimenti, come un po’ già è accaduto, «le rivoluzioni inevitabili saranno dirette da ex nazisti, ex fascisti, ex totalitari comunisti, avventurieri senza idee e senza umanismo oppure uomini di buona volontà disorientati». Un mondo nuovo si sta aprendo, «pieno di possibilità maggiori di quelle che noi intravedemmo per il passato. Possano la passione, l’esperienza e gli errori stessi della mia generazione combattente illuminarne un poco il cammino!». Questo vale ieri, oggi, sempre: perciò un testo pieno di storie di un secolo fa può sorprendentemente aiutarci ancora a immaginare il nostro futuro, ricordandoci che «l’egoismo del “ciascuno per sé” è ben sorpassato, che l’arricchimento personale non è il fine della vita, che i conservatorismi di ieri non conducono ad altro che a catastrofi». Nulla è scontato: facciamone tesoro.
(finito il 12 dicembre 2019)
Ho parlato di
Memorie di un rivoluzionario
(Edizioni e/o, 2017)
Trad. di A. Garosci
440 pp., | 16 €
(ed. or.: Mémoires d'un révolutionnaire 1901-1941, 1951; 1ª ed. it., 1999)
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