A tutto quello che sto per dire andrebbe anteposto l’equivalente della scritta che per tardivo senso del pudore è stata posta in sovrimpressione a molti programmi televisivi attualmente in onda – e cioè che questo libro è stato scritto e letto prima dei DPCM sul coronavirus. Non troppo, ma quanto basta per farlo sembrare, a prima vista, di un’altra epoca: pubblicato poco meno di un anno fa (c’era già Conte in carica, ma con la casacca gialloverde), comprato a maggio mentre cercavo in realtà un altro testo (questo qui, per i più curiosi) e aperto poi con più di un brivido lungo la schiena grosso modo negli stessi giorni in cui un ministro invasato teneva conferenze stampa sulla spiaggia e invocava pieni poteri ingollandosi di Mojito sotto il sole (sotto il sole) di Riccione. La sindrome richiamata dal titolo non ha perciò nulla a che fare con il covid-19, ma con una condizione patologica di altro genere, di cui le smargiassate del Papeete potevano sembrare, in quel momento, uno dei sintomi più appariscenti, coerenti peraltro con casi clinici simili già conosciuti in passato. Nel 1933, per esempio – di cui evidentemente in queste pagine si parla.
“Eccolo lì”, mi si fermerà subito, sbuffando e sbracciando (perlomeno se si ha un’idea di cosa sia successo nel 1933), “l’ennesimo sproloquio di chi non ha niente di meglio da fare che dare del fascista o del nazista a Salvini”. In realtà le cose sono forse un pelo più complesse, ma ci arrivo. Però, sì, certo, questo è un libro dichiaratamente fazioso, che «tra i fatti e gli argomenti privilegia quanto può richiamare al lettore vicende, cronache e polemiche della nostra attualità. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti è puramente intenzionale». L’idea nasce proprio da un vago senso di déjà vu che, alla prova dei fatti, ossia andandosi a scartabellare le cronache del tempo, anziché svanire – perché in realtà “erano altri tempi, era tutta un’altra storia” –, si è invece consolidato, nel senso che, a cercarle, le somiglianze si sono moltiplicate, estendendosi a campi a cui magari non si era mai prestata particolare attenzione (come, che so?, titoli e toni della stampa di Weimar, ossessionata dalla vivisezione delle storie truculente in modo non troppo diverso dai nostri contemporanei talk-show). É chiaro, se hai uno schema in testa, finirai per vederlo ovunque: è l’assioma di partenza di ogni teoria del complotto - e come metodologia non è consigliabile. Ginzberg mi pare se ne renda conto e, pur ammiccando continuamente al lettore, ogni tanto forse pure un po’ troppo, al tempo stesso evita però di trarre la facile conclusione che la storia si starebbe ripetendo tal quale. «Che sia andata una volta in circostanze simili, in quel modo, non significa che debba andare allo stesso modo». Infatti, «incrociando le dita, potrebbe andare anche peggio».
Questo perché, a soffermarsi solo sui sintomi, si rischia di perdere di vista le loro cause. Ginzberg insiste molto sul concetto di “analogia” (e cita a proposito il meraviglioso Superfici ed essenze, su cui ho speso due parole quando riuscivo ancora a condensare le mie recensioni in dieci righe), ma soprattutto ricorre, in parte consapevolmente, in parte forse no, a un armamentario teorico che affonda le sue radici nella storia dell’epistemologia medica, ossia in ciò di cui mi sono occupato nella mia tesi di dottorato. Scusate la divagazione autobiografica, ma ritrovare in filigrana quello su cui ho sgobbato per tre anni della mia vita perdendomi dietro alle riflessioni di oscuri pensatori della prima età moderna mi ha fatto un certo effetto e mi ha anche fatto capire una volta di più quanti orizzonti avrebbe potuto aprirmi quella ricerca se non fossi stato, per certi aspetti, così ottusamente pedante e cauto nella scrittura (ricordo lo splendido consiglio di una carissima professoressa, che riprendeva a sua volta quanto le aveva detto il suo maestro: “e lo scriva, signorina, lo scriva!”, non stia lì a cincischiare con giri di parole e allusioni per pochi iniziati. Non l’ho fatto - peccati di gioventù – e quella tesi è giustamente diventata un mattone). “Analogia” – dicevamo – è una formula elastica, imperfetta, che consente di non cadere nella trappola dell’identico, da cui la preda in realtà esce più facilmente del predatore (“fascisti? Vedete forse dei manganelli, l’olio di ricino, il confino? Su, dai, non scherziamo”). Proverei a dirla così: rischia di essere fuorviante gridare al fascista di fronte a chi ce li ricorda oggi, perché il fascismo, quel fascismo, molto probabilmente non ritornerà più; ma l’humus su cui è attecchito, quello è di nuovo lì, o è ancora lì, è sempre stato lì, e può produrre piante magari di una specie differente, ma di genere non troppo diverso (perché, appunto, il terreno è quello). E allora anziché etichettare i populisti odierni come dei fascisti redivivi ci aiuterebbe forse di più riconoscere che il fascismo potrebbe essere stata solo una delle varie configurazioni che il populismo è stato capace di assumere, nessuna delle quali è pienamente sovrapponibile all’altra, pur presentando ciascuna, appunto, delle analogie l’una con l’altra. Cambiano cioè mitologie, ritualità, simboli, cambiano riferimenti e modelli (tutta acqua al mulino di chi vuole sottolineare la distanza fra i diversi fenomeni), ma il propulsore più o meno resta sempre quello. «Mi preoccupa – dice Ginzberg – una specie di coazione a ripetere involontaria, il riaffacciarsi di dinamiche, meccanismi che avevano portato al disastro la Germania di Weimar, e con lei l’intera Europa. Temo il presente che imita il passato inconsapevolmente, senza volerlo, magari anche senza accorgersene. Ecco perché sono andato in cerca di analogie. Non come strumento di polemica o propaganda, ma come strumento di comprensione».
E quali sono queste dinamiche? C’è l’imbarazzo della scelta. Possono essere, appunto, gli strilli dei quotidiani tedeschi pronti a sbattere il mostro in prima pagina, il sordo rancore provato da chi non si sente più rappresentato dalle istituzioni e vota per chi gli promette semplicemente qualcosa di nuovo, “il cambiamento”, oppure l’enfasi con cui «su tutto si aggiunge un pizzico di popolo» - festa del popolo, membro del popolo, compagno del popolo, cancelliere del popolo, macchina del popolo – dove però il popolo è definito «principalmente per esclusione di chi non fa parte del popolo», siano gli ebrei o i miliardari, e meglio ancora se sono le stesse persone, o, ancora, immancabili, le divisioni nel campo di chi avrebbe avuto i numeri per opporsi (perché guarda caso è solo dopo che si controllano i ministeri dell’interno che il consenso diventa veramente bulgaro), o lo stato di campagna elettorale permanente, o la tendenza ad attribuire sempre la colpa di tutto a qualcun altro. Ecco, queste pagine restituiscono un po’ quell’atmosfera e lo fanno spesso ricorrendo a fonti non scontate, come i romanzi dell’epoca, per esempio quelli di Hans Fallada, di cui non sapevo assolutamente nulla, ma che sto per recuperare (e un libro che ti fa conoscere altri libri è sempre un libro benemerito, per come la vedo io).
Su tutto, però, un elemento che stupisce più di altri è «il senso diffuso di normalità» condiviso da chi visse quei giorni in presa diretta: nessuno capisce per davvero che cosa sta succedendo, neanche i grandi, neanche quelli che, dopo, ci avrebbero aiutato a capire che cos’era successo (o forse qualcuno sì, ma non a caso stava in carcere: era Gramsci). Il presente non è mai come te lo aspetti. E noi siamo ancora succubi di una sorta di malattia storica per cui tendiamo a pensare che epoche drammatiche debbano per forza aver avuto interpreti di spessore, mentre con quelli che son toccati a noi – i Di Maio, i Giordano, i Feltri – vuoi mica pensare che si arrivi davvero a una cosa come lo sterminio di massa? Solo che a forza di prendere sul serio la battuta per cui la storia si presenta la prima volta come tragedia e la seconda come farsa abbiamo finito per considerare come giganti dei personaggi da operetta che si sono semplicemente rivestiti di una bella uniforme. La curva esponenziale del contagio di questi giorni ci sta insegnando che minimizzare non è sempre la strategia giusta. Quando tutto questo finirà scopriremo se sarà stato un bagno di realtà capace di spegnere le braci dormienti del risentimento diffuso o l’ennesima tanica di benzina che potrà innescare nuovi cataclismi.
(finito il 16 agosto 2019)
Su tutto, però, un elemento che stupisce più di altri è «il senso diffuso di normalità» condiviso da chi visse quei giorni in presa diretta: nessuno capisce per davvero che cosa sta succedendo, neanche i grandi, neanche quelli che, dopo, ci avrebbero aiutato a capire che cos’era successo (o forse qualcuno sì, ma non a caso stava in carcere: era Gramsci). Il presente non è mai come te lo aspetti. E noi siamo ancora succubi di una sorta di malattia storica per cui tendiamo a pensare che epoche drammatiche debbano per forza aver avuto interpreti di spessore, mentre con quelli che son toccati a noi – i Di Maio, i Giordano, i Feltri – vuoi mica pensare che si arrivi davvero a una cosa come lo sterminio di massa? Solo che a forza di prendere sul serio la battuta per cui la storia si presenta la prima volta come tragedia e la seconda come farsa abbiamo finito per considerare come giganti dei personaggi da operetta che si sono semplicemente rivestiti di una bella uniforme. La curva esponenziale del contagio di questi giorni ci sta insegnando che minimizzare non è sempre la strategia giusta. Quando tutto questo finirà scopriremo se sarà stato un bagno di realtà capace di spegnere le braci dormienti del risentimento diffuso o l’ennesima tanica di benzina che potrà innescare nuovi cataclismi.
(finito il 16 agosto 2019)
Ho parlato di
Siegmund Ginzberg
Sindrome 1933
(Feltrinelli, 2019)
188 p. | 16 €
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