sabato 20 aprile 2019

La ferrovia sotterranea

La “ferrovia sotterreanea” (Underground railroad) è il nome con cui comunemente si indica la rete di itinerari e contatti sicuri attraverso cui, nell'America della prima metà dell’Ottocento e fino alla Guerra di Secessione, gli schiavi neri degli stati sudisti potevano sperare di raggiungere le regioni del nord, dove la schiavitù era già stata abolita. Si tratta di un’espressione metaforica, che rende bene l’idea di una cospirazione solidale contro l’oscenità della discriminazione razziale eretta a sistema. Con un colpo di lucida follia narrativa, quasi infantile nell’interpretazione letterale del termine, ed anche per questo geniale, Colson Whitehead (che, a dispetto del nome, è nero) si immagina invece che una ferrovia sotterranea sia esistita davvero, con tanto di treni, macchinisti e un suo intricato sistema di gallerie, snodi e stazioni distribuiti sotto il suolo americano, quasi come un controtumore benigno finalizzato a contrastare segretamente quanto accadeva alla luce del sole. Questa e qualche altra piccola licenza storica seminata qua e là danno al libro quella venatura ucronica che gli ha consentito di vincere nello stesso anno, oltre al Pulitzer e al National Book Award (che è come dire Oscar e Golden Globe), anche il premio fantascientifico intitolato alla memoria di Arthur Clarke. Tutto il resto, però, è tristemente verosimile e crudissimo, senza sconti. Se c’è fantasia, è alla maniera di Train de vie – anche lì c’entravano binari e ferrovie – remixato però con Django Unchained

Un esempio? La storia di Big Anthony, a cui la fuga dalla piantagione non riesce e che per questo viene punito in modo spettacolare, per ingordigia di potere da parte del padrone e anche perché tutti gli altri schiavi si mettano bene in testa che prima o poi sarebbe potuto capitare anche loro lo stesso destino. Il primo giorno Big Anthony viene lasciato esposto alla gogna davanti alla casa padronale. «Il secondo giorno arrivò in carrozza un gruppo di ospiti, nobili anime di Atlanta e di Savannah», per i quali viene allestito nel prato un pasto succulento. «Big Anthony venne frustato per tutta la durata del pranzo, e mangiarono lentamente». Il terzo giorno, mentre gli ospiti sorseggiavano rum speziato, «Big Anthony venne cosparso di petrolio e arrostito. Ai testimoni vennero risparmiate le sue grida, perché il primo giorno gli era stato tagliato il membro virile, infilato in bocca e cucito lì». Gente timorata di Dio, quella congrega, come altri della stessa risma, antenati di quanti ancora oggi piangono magari per la passione di Cristo venerando devotamente un crocifisso di legno il Venerdì Santo, mentre condannano allo stesso supplizio, e sganasciandosi, tanti miserabili crocifissi di carne, senza capire nulla, proprio nulla, di quello che fanno e del posto che ha scelto per sé il loro Dio in questa storia. 

E appunto dall’orrore della piantagione cerca di fuggire Cora, che con Caesar imbocca, non senza angosce, la strada solo apparentemente protetta verso la libertà. Sarà infatti una fuga continua, ostacolata da un implacabile cacciatore di schiavi, ma ancor più dal riproporsi della medesima intolleranza, sia pure in forme diverse, nei diversi stati che tocca – dal momento che «l’imperativo americano» ha spinto i pionieri dal Vecchio al Nuovo Mondo perché andassero a «conquistare, costruire e civilizzare. E distruggere quello che va distrutto. A elevare le razze inferiori. Se non a elevarle, a sottometterle. Se non a sottometterle, a sterminarle. Il nostro destino prescritto da Dio». Ora sono gruppi di ronde guidati da delinquenti che hanno passato più tempo in carcere degli schiavi che catturano, persone provenienti «dalla fascia più bassa e più viziosa della popolazione, (…) spesso troppo stupidi per lavorare anche solo come sorveglianti», gli eterni spiriti fascisti che si scappellano quando gli regalano un’uniforme con cui sentirsi importanti e che votano chi amplifica i loro rutti; ora sono quei tristi che di fronte al modello realizzato di una fattoria gestita da neri capace di sollevare l’economia di un’intera contea, la mettono a ferro e fuoco, contro il loro stesso interesse, come a Riace, perché se noi poi non si può più gridare al lupo al lupo, e che preferiscono farsi ammazzare piuttosto che vedere altre persone felici. Ma non mancano le versioni più raffinate, perché la fenomenologia dell’intolleranza, ahimé, è ricca e comprende delatori, falsi progressisti, collaborazionisti, anime belle, indifferenti, intellettuali e chi più ne ha più ne metta. 

Verrebbe da concludere che non c’è mai da fidarsi, che anche quando le acque sono apparentemente calme devi sempre temere l’emersione di un mostro sommerso pronto a divorare tutto quanto. Però poi capita anche di imbattersi in quella «confraternita di anime bizzarre» che rischia la propria pelle per salvare quella degli altri: non eroi, in qualche caso personaggi anche ruvidi e strani, talvolta pure mezzi matti. Sono i 36 giusti che salvano continuamente il mondo, senza che nessuno lo sappia. «Il mondo in superficie dev’essere così banale in confronto al miracolo che c’è sotto, il miracolo che hai compiuto tu, col tuo sudore e il tuo sangue. Il trionfo segreto che ti porti nel cuore». Non è ben chiaro se c’è davvero una resurrezione in fondo al tunnel, e nulla, comunque, può redimere tutto il dolore impartito, ma se la storia umana potrà avere un minimo di senso sarà solo grazie a loro.

(finito il 17 ottobre 2018)

Ho parlato di


Colson Whitehead
La ferrovia sotterranea
(Sur, 2017)

trad. di M. Testa

376 pp. | 20 €

(ed. or. The Underground Railroad, 2016)

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