mercoledì 6 febbraio 2019

Le mosche del capitale

Quando l’estate scorsa (perché sono ancora fermo lì col recap delle mie letture) è morto Sergio Marchionne, e il giornale di famiglia lo salutò con una prima pagina esclusiva – di quelle che non si riservano neanche più agli artisti e ai capi di Stato – corredata da un fondo intitolato “Pioniere del nostro tempo”, ho capito che era venuto il momento di tirare fuori dallo scaffale e leggere questo libro-testamento di Paolo Volponi, un autore che mi sembra condividere l’oblio in cui sono caduti col tempo anche altri scrittori italiani che pure hanno giocato un ruolo non irrilevante nella cultura italiana del Novecento. Uno che tra gli anni ‘50 e gli anni ‘80 fu dirigente alla Olivetti e alla Fiat e contemporaneamente militante, poi perfino senatore, del Partito Comunista, ne ha sicuramente di cose da raccontare su quel che avveniva allora nelle stanze dei bottoni del Palazzo pasoliniano. Certo, del Pasolini saggista (a cui fu legato da un amichevole contrasto di idee) non ha lo stile incisivo, e siamo lontani anche dalla prosa limpida di un Calvino o di un Sciascia – il che non aiuta a mantenerne viva la memoria. Qui, anzi, i barocchismi abbondano, ed anche la scelta di una narrazione multifocale, sebbene affascinante, rende tortuosa la lettura. Ma soprattutto parla, Volponi, di un mondo che sembra ormai distante anni luce dal nostro, anche se ne porta in grembo le premesse, e col quale si può perciò faticare a misurarsi, specie se – come in questo caso – riferimenti a fatti e persone non sono per niente puramente casuali, ma i codici di decodificazione, nel frattempo, non risultano più così trasparenti, per lo meno per me.

«Un giorno dirò tutto, scriverò un memoriale, un libro bianco sui grandi dirigenti, sulle grandi politiche aziendali, la verità sulla ricerca e sullo sviluppo, sulle qualità produttive, sugli investimenti, sulle grandi novità tecnologiche, sui grandi, questi sì, altro che grandi, prelievi personali e soprusi, sulle mosche, sì, le mosche del capitale». A ridosso della caduta del Muro, Volponi rifuse il suo itinerario personale nella vicenda del protagonista del romanzo – un intellettuale progressista sostenitore della necessità di promuovere un’autentica “cultura industriale”, a cui per un attimo sembra affidata la guida di un’importante azienda italiana («sarebbe potuto diventare un protagonista, il primo e il più grande, di un rinnovamento e di una razionalizzazione dell’industria, in una nazione recalcitrante, arretrata, e insieme promotore, se non maestro, di una democrazia...»), salvo capire poi che si tratta di un bluff da cui esce sconfitto – e rispose a suo modo alla domanda se il capitalista italiano assomigliasse al suo mentore Olivetti o avesse piuttosto il volto terso del supermegadirettore Paolo Paoloni nel primo Fantozzi (il paragone non è azzardato: il brodo di cultura è lo stesso, e in questo libro si dà letteralmente voce, in alcune sequenze, a quell’oggettistica del potere che si ritrova anche nell’universo di Villaggio, dal ficus ornamentale alla poltrona, alla valigetta e perfino al pappagallo del grande dirigente: a mio avviso, sono le parti più suggestive e originali del romanzo, qualcosa a metà tra il bestiario aziendale e l'operetta morale). 

Il responso, ad ogni modo, è impietoso: «l’industria italiana non pensa a se stessa quanto alla propria comodità. L’industria italiana non pensa a svilupparsi ordinatamente: alla ricerca, alla perfezione della propria organizzazione, dei propri prodotti, ad un confronto aperto e leale con il mercato, con la cultura industriale, con l’università… pensa alla propria comodità, nel senso che esclude queste reali ipotesi di ricerca per restare nell’ambito dell’esercizio del comando e basta… Produrre quel che sa produrre, vendere quel che sa vendere… E per restare così arretrata, evidentemente, ha bisogno di tenere arretrato l’intero paese». Noi qui a scappellarci con le piccole-medie imprese e il “made in Italy” e l'export e il brand, ma la sostanza è sempre la stessa. Ordine, disciplina e sovvenzioni statali dietro una cortina di apparente liberismo: chi ha un lavoro ringrazi, pensi solo a svolgere il compitino senza alzare la testa che come lui ne troviamo mille altri, taccia e lasci manovrare i manovratori perché possano pagarsi la serata di lusso al Billionaire. Nessuna reale visione, nessuna capacità progettuale, nessun senso di responsabilità sociale, neppure un utilitaristico interesse a valorizzare il proprio personale. Solo un'insopprimibile tentazione per il fascismo, momentaneamente insabbiata, pronta però a riemergere per difendere «la vera democrazia, la vera libertà, la vera gente per bene che lavora e vuol lavorare», finché i padroni ritroveranno «il diritto, la voglia e l’orgoglio di essere padroni» e appoggeranno la nascita di un «regime reazionario di massa» così simile a quello in cui stiamo sprofondando. Di fatto, non è altro che un nuovo sistema cortigiano, che dietro al rispetto formale del comune sentire democratico, ha istituito «vari ordini di potere sopra gli organi del medesimo corpo aziendale: amministratori delegati dirigenti consulenti assistenti esperti quadri funzionari addetti capi, via via graduati infeudati remunerati complicizzati in teorie di sostegno, in corone pendagli lustri che comunque ripetono riflettono spandono la gloria e l’interesse del padrone. (…) I padroni più bravi e più colti, autentici capitani alla Medici o alla Krupp, arrivano addirittura a dotarsi, attraverso questo sistema di investiture, di veri e propri musei, in ogni campo del sapere e della cultura». 

Volponi denuncia insomma il tradimento degli industriali, di quegli industriali che una certa modernità aveva salutato come i nuovi cavalieri proiettati lancia in resta verso un progresso luminoso e condiviso, rivelatisi invece beceri e parassitari signorotti dell'anno Mille con dei buoni agenti di marketing. «Adesso comincio a convincermi che il grande affare del 2000 sarà vendere aria insieme al fumo, vendere acqua potabile e non, acquistare in tempo i pozzi e le sorgenti. Impadronirsi anche delle nuvole». I dati, il cloud: a Ivrea, oggi, nel terreno seminato da Olivetti sono sbocciate le convention della Casaleggio Associati. E questo ci teniamo.

(finito il 24 settembre 2018)

Ho parlato di


Paolo Volponi
Le mosche del capitale
(Einaudi, 2010)

388 pp. | 22 €

(ed. or. 1989)

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