Poiché la mia sincronizzazione tra lettura e scrittura è paragonabile alla velocità dello streaming di Dazn, parlo del mio primo libro da spiaggia stagionale quando ormai la stagione è finita, e dagli esami di maturità sono passato a quelli di recupero. Pazienza. Spiaggia, dicevo, e dunque fantascienza, con un ripescaggio proveniente nientemeno che dall’altro millennio. Il bello di avere in casa una libreria personale che contiene sempre più libri di quelli che hai già letto è che ogni tanto puoi girare tra gli scaffali come se davvero fossi un po’ in una libreria autentica, se non addirittura a un mercatino dell’usato, e gustarti un godibilissimo imbarazzo della scelta, riscoprendo come se fossero sempre nuovi testi che invece sono lì da un po’. Questo volume, per dire, uscì dai torchi nell’estate del 1999, quella dei miei diciott’anni e dell’eclisse di sole, quando compravo a scatola chiusa qualsiasi Urania riportasse in copertina l’invitante trigramma di Philip K. Dick, avido di quel carico da novanta di paranoie, deliri e scarti tra realtà e illusione che sapevo vi avrei sicuramente trovato dentro – ma l’ho letto solo ora, e ci ho trovato dell’altro. Un po’ è l’età, ma va detto che rispetto a quell’ingenuo impulso adolescenziale si è nel frattempo incuneata, come un’intercapedine, la biografia dickiana di Carrère, che ha ulteriormente arricchito la stratificazione dei possibili livelli di lettura, sì, ma mi ha anche sparigliato un po’ le carte interpretative, aprendomi gli occhi su elementi che altrimenti non avrei più di tanto considerato.
Il romanzo in questione è un caso esemplare: Dick lo tira giù nel 1966, un anno dopo il divorzio dalla terza moglie Anne, donna volitiva, forte, ma soprattutto capace di mantenere lui e le due figlie mentre Philip si barcamenava con lavoretti poco remunerativi. Scrive Carrère al riguardo: «per guadagnare quello che Anne considerava comunque poco, gli toccava lavorare a ritmi serratissimi. Le anfetamine gli permettevano di scrivere, se si impegnava al massimo, un romanzo in poche settimane; in due anni ne pubblicò una decina, ma a prezzo di atroci periodi di depressione. Si sentiva inadeguato, incapace di assumersi le sue responsabilità. Imbruttiva. Sotto la barba la sua faccia era diventata livida e gonfia. Grossi insetti neri ronzavano alla periferia del suo campo visivo. Ora Anne gli appariva come una nemica» (al punto da convincersi che lei lo volesse uccidere, finché riuscì a farla davvero internare per un certo periodo). E insomma, va bene le pecore elettriche, i simulacri e gli androidi, e va bene pure il sottotesto gnostico, il pleroma e la teologia paolina, ma la sensazione è che fantascienza e religione siano, almeno qui, depistaggi e coperture per affrontare un altro genere di ossessioni e cercare di venire a capo di una dolorosa vicenda personale.
A prima vista, in realtà, il contesto è quanto di più lontano si possa immaginare dall’interno familiare. In un futuro non troppo remoto, la Terra si ritrova presa nel mezzo di una guerra galattica tra due superpotenze aliene, alleata dell’una, ma pronta – se il caso – a chiedere l’armistizio e a schierarsi con l’altra, dal momento che a a tirare le fila della politica mondiale è un duttile italiano, il Segretario Generale dell’ONU Gino Molinari, capace di imbastire un pericoloso doppio gioco e di rinunciare alla sua anima, come il principe di Machiavelli, per la preservazione del pianeta - un misto di Lincoln, Mussolini e Gesù Cristo, si dice, e potete immaginarvi il guazzabuglio grottesco che ne esce. Da buona figura cristologica, Molinari paga questo suo sacrificio fin nelle carni, ricavandone una salute malandatissima. Anzi, la sua scommessa più ardita è proprio quella di mantenersi sempre al pelo della sopravvivenza, in modo da sfruttare il collasso in cui inevitabilmente precipita, ogni qual volta è chiamato a trattare con gli alieni, come scusa per procrastinare le scelte e prendere altro tempo prezioso. Per reggergli il gioco gli occorre però un medico abilissimo, ed è in questa veste che entra in scena il dottor Sweetscent (Dolceprofumo, una variante del quasi coevo Stranamore?), il vero protagonista della storia. Ora, questo Sweetscent non è esattamente un arrivista e in quella posizione di responsabilità ci arriva un po’ per caso, trascinato dagli eventi. A raccomandarlo è il direttore di una megacorporation a cui il dottore trapianta di continuo nuovi organi artificiali per garantirgli una quasi-immortalità, incarico che Sweetscent ha però assunto – ed ecco il punto – grazie ai maneggi della moglie, che lavora nella stessa azienda ma ha tutt’altra tempra e ambizioni, e non manca occasione di rinfacciarglielo. «Mi hai sposato per avere il lavoro. E non stai lottando da solo; invece un uomo dovrebbe farsi da solo la propria strada. (...) Sali più in alto. Trova un lavoro migliore», dice lei. «Ma a me piace il mio lavoro», replica lui. «Così ti contenti (...) di dar l’impressione di essere un uomo arrivato. Mentre in realtà non lo sei». Ecco, il mondo scivola letteralmente sull’orlo dell’apocalisse – ci sono gli alieni alle porte, perdio! - ma quasi ad ogni pagina ti imbatti di continuo in battibecchi come questo o monologhi come quest’altro: «quel mio dannato marito... Non mi lascerebbe venire. Io basto a me stessa, sono più che indipendente sotto il profilo economico; tuttavia devo sorbirmi i piccoli suoni irritanti e gli strilli che emette ogni volta che cerco di fare da sola qualcosa di originale». Tu volevi gli omini verdi e ti ritrovi Ibsen (sia pure sotto acido).
Poi si aprono pure le realtà parallele, perché sbuca fuori una droga che consente di fare degli autentici trip nel tempo e fra le dimensioni – e di questa droga si serve segretamente lo stesso Molinari, per esplorare scenari alternativi, in cui i nemici sono amici e gli amici nemici, per comprendere che la realtà non deve per forza andare così come va in questo mondo, e pure per assoldare dei suoi doppi che nel loro mondo non sono diventati nessuno, ma che condividono la sua intelligenza e potrebbero perciò prenderne il posto nel caso lui alla fine ceda fisicamente, come Roosevelt, o forse l’hanno persino già preso, all’insaputa di tutti («tre o quattro Gino Molinari, costituenti un comitato, sarebbero piuttosto terribili... Non è d’accordo? Pensi alla somma dei loro ingegni! Pensi ai progetti fantastici, astuti, grandiosi, che potrebbero stendere lavorando insieme») – e no, niente, nonostante questi squarci visionari sempre lì si va a parare, e ad ogni essere che incontra, sintetico o organico, Sweetscent tira giù dei pipponi sui suoi problemi relazionali: «un uomo impelagato in un matrimonio infelice perde la facoltà metabiologica di sapere ciò che vuole: ne è totalmente depauperato, capisce? Lei è un piccolo mollusco andato a male, che cerca di agire nel modo giusto ma che non ce la fa mai completamente, perché non ci mette il cuore, il suo cuore infelice e paziente». Insomma, l’Alto Castello in cui ci si ritrova imprigionati qui sembra proprio essere la vita matrimoniale («Bene, ecco il matrimonio d’oggi. Odio legalizzato») e il vero risiko non è quello militare-fantapolitico che fa solo da sfondo bensì quello nuziale, pieno di ripicche e dispetti e però, al tempo stesso, attraversato da improvvisi e inspiegabili ritorni di fiamma. «Sua moglie, per esempio. I sentimenti che lei prova sono contrastanti: per la maggior parte paura, poi odio, e quindi un certo quantitativo di amore sincero». L’illusione di potere sembrerebbe dunque essere quella di chi crede di controllare la propria vita e in realtà è controllato da un altro, anche se il titolo originale, Now Wait for Last Year, punta per la verità l’indice su un altro pericolo non meno insidioso nella vita coniugale: «Da tanto tempo aspetto l’anno passato. Ma suppongo che non tornerà più» (“Non può essere mai come ieri”, cantavano giustappunto proprio tra ’98 e ‘99 Mario Venuti e Carmen Consoli).
Quando scrive questo libro, dicevo, è ancora fresco in Dick il ricordo dell’ex-moglie rientrata a casa e ridotta a uno straccio dalle terapie farmacologiche subite in ospedale. «Lui si chiedeva – leggo ancora in Carrère – che cosa avrebbe fatto se le condizioni di Anne non fossero migliorate. Avrebbe divorziato, avrebbe cercato un’altra donna? O avrebbe continuato a sopportare per tutta la vita quella palla al piede (a portare quella croce, come direbbe un cristiano)?». Non so se qui il biografo abbia altre fonti o se estrapola la sua ricostruzione dai testi dickiani, ribaltando sulla sua vita considerazioni sparse nei libri, ma – date le circostanze – le ultime righe del romanzo sembrano effettivamente abbozzare la risposta che, dopo tutto quel girovagare fra i mondi possibili, Dick a un certo deve essersi dato. “Lei rimarrà con lei”, confida un androide a Sweetscent, «perché la vita è una realtà che deve essere accettata così com’è. Se lei abbandonasse sua moglie, sarebbe come se dicesse: “Io non posso sopportare questo tipo di realtà. Deve avere delle condizioni speciali, più favorevoli”». Quanto credesse a questa morale lo dimostra il fatto che, quando la scrive, Dick se ne era già andato di casa (anche se va detto che, nel frattempo, Anne si era ripresa). E con tutto questo, alla fine, da che parte ha deciso di stare Molinari? Boh, te lo sei dimenticato.
(finito il 23 giugno 2018)
Ho parlato di
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Philip K. Dick
Illusione di potere
(Mondadori, 1999)
(Classici Urania 270)
trad. di G. Tamburini
288 pp. | 6500 lire
(ed. or. Now Wait for Last Year, 1966)
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