Tra marzo e aprile, mentre come paese sprofondavamo in questo scempio quotidiano, senza premeditarlo mi sono ritrovato a leggere una classica testimonianza di quando si è cominciato decisamente a prendere sul serio il lato oscuro della forza e la sua capacità di influenzare la nostra tranquilla routine di esseri mediamente pensanti. Oltretutto, c'è questo bel paradosso che mi ha sempre incuriosito, per cui - quando parliamo di “gotico” - a noi vengono subito in mente fantasmi, castelli diroccati, porte cigolanti, cimiteri di campagna e in genere tetre e brumose atmosfere nordiche (e a buon diritto, perché effettivamente il gotico si colora spesso di tali tinte), ma se poi andiamo a leggerci per davvero i testi fondativi del genere, si scopre che l'elemento conturbante tipico di questi scritti ha invece un’aura mediterranea e direi pure cattolica. Testi come Il castello di Otranto, L'italiano, Il monaco te lo dicono apertamente sin dal titolo che è lì che si va a parare, nei conventi della nostra Europa meridiana a bassa velocità storica, immaginata a cavallo fra ‘700 e ‘800 come un relitto medievale rimasto vergognosamente a galla nel secolo dei Lumi (ritratto un po' ingeneroso: d’accordo, ai tempi, i Viceré sguazzavano felicemente nel brodo della loro mostruosità, ma c'erano anche i Pietro Verri e i Cesare Beccaria che spiegavano al mondo l'insensatezza della tortura. Oggi invece...).
Anche E.T.A. Hoffmann, che del gotico è uno dei massimi virtuosi, sembra condividere un’idea simile. In questi otto racconti pubblicati tra il 1816 e il 1817 non mancano certo gli ululati marini e gli spettri della fredda Curlandia (come ne Il maggiorasco, che da questo punto di vista è esemplare: «quivi non si ode mai il lieto cinguettio degli uccelli ridestati a nuova gioia ma soltanto il lugubre gracidare dei corvi e l’acuto stridio delle procellarie»), tuttavia, quando viene evocato, il diavolo veste alla spagnolesca e ha un’insolenza tutta napoletana (Ignazio Denner), così come i due personaggi che portano alla follia il povero Natanaele ne L'Orco insabbia sono un tale professor Spallanzani (un chimico omonimo del ben più noto Lazzaro, ma soprattutto collega dell'altrettanto celebre dottor Frankenstein) e l'artigiano piemontese Giuseppe Coppola, fabbricante di binocoli e barometri. Con una precisazione, però. Quando a un certo punto di “gotico” espressamente si parla, infatti, lo si fa per elogiare la forma slanciata della cattedrale medievale, che «aspira al cielo» e, proprio per questo, rappresenterebbe il «vero cristianesimo, il quale con la sua spiritualità contrasta proprio con lo spirito sensuale del mondo antico, sempre legato alla cerchia terrena» - in aperto contrasto con quanto affermato da un prosaico gesuita a difesa dell’estetica trionfante delle chiese della Compagnia così vicine alle «vivace serenità degli antichi» rispetto al contemptus mundi dei secoli bui: «la nostra patria è senza dubbio lassù. Ma finché viviamo qui, il nostro regno è anche di questo mondo» (La chiesa dei Gesuiti di G.). Non confondiamo, insomma, il tanto vituperato Medioevo, così ansioso di infinito, con l’ordine cattolico moderno – sembra dirci: è quest’ultimo che ritarda l’apocalisse.
Però non è detto che l’apocalisse sia dominabile. L'opposizione a tratti ossessiva e morbosa tra l’idealità trascendente e una realtà materiale che la lascia appena appena presagire è uno dei temi dominanti di queste pagine, piene di porte socchiuse su un regno di forze arcane e potentissime capaci, sì, di innalzarci a stati superiori di bellezza, ma anche di travolgerci fino all’autodistruzione. «Mi parve allora veramente che la natura avesse costruito intorno a noi un gigantesco clavicordo a mille registri. Noi ci affanniamo, ci diamo da fare fra quelle corde, scambiandone i suoni, gli accordi, per suoni ed accordi prodotti da noi, a nostro piacere. E spesso veniamo feriti a morte senza neppure sospettare di essere stati colpiti da una corda stonata, toccata a sproposito...». Chi tira le fila di molti di questi racconti, non senza un pizzico di autoironia, è un “viaggiatore entusiasta” «dotato del dono della veggenza», con cui sa appunto «accostare elementi addirittura antipodici e (...) scovare certe correlazioni a cui nessuno aveva pensato». Il problema è che se guardiamo oltre la superficie rassicurante dello specchio, quella – per intenderci – che fissiamo quando ci accontentiamo di regolare il nodo alla cravatta per presentarci bene in società, possiamo anche intravedere un angolo di paradiso; più spesso, però, si finisce per risprofondare in quel substrato magmatico e oscuro da cui la coscienza si trae fuori a fatica e sempre in modo precario. Meccanicismo e mesmerismo, come più tardi evoluzionismo e romanticismo, si intrecciano in un rincorrersi di temi che, contemporaneamente, i filosofi cercavano di inquadrare nei loro sistemi. La luce più pura fa tutt’uno con l’ombra: ecco, forse, perché Parsifal si ritroverà addosso la camicia bruna e oggi, che viviamo nel tempo della farsa, le utopie più avanzate della trasparenza digitale stanno così a proprio agio con le mitologie ctonie della terra, del sangue e della razza.
(finito il 24 aprile 2018)
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E. T. A. Hoffmann
Racconti notturni
(Einaudi, 1994)
Trad. di C. Pinelli e A. Spaini
256 pp. | 9,50 €
(ed. or.: Nachtstücke, 1816-1817).
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