mercoledì 17 gennaio 2018

Ferro e fuoco

Ammetto che dieci anni fa, quando questo libro uscì, non avevo quasi nessuna idea del fatto che nel mio paese esistessero zone in cui la malavita di pura razza bianca faceva ottimi affari sfruttando la manodopera immigrata nei campi di pomodori in condizione di semischiavitù. Imparai a distinguere il significato odierno di parole come “caporale” e “caporalato” credo solo dopo i fatti di Rosarno, che risalgono però al 2010. Dico questo perché l’effetto che una lettura come questa avrebbe potuto avere allora sul sottoscritto sarebbe stato sicuramente più dirompente di quanto non lo sia stato oggi, quando purtroppo siamo quasi assuefatti a fenomeni come quelli che qui vengono denunciati. Senza troppe prediche, peraltro, perché questo romanzo è tante cose, ma di certo non un polpettone retorico. Ho letto che è stato paragonato da molti a un un western di frontiera, e ci sta: per la spietatezza dei rapporti umani e familiari che vi sono ritratti, per il grilletto facile dei personaggi (tra cui un gangster che non esita a gettare i nemici in pasto ai suoi viziati rottweiler), per il sangue che scorre a fiumi e anche, non da ultimo, per il caldo soffocante che è mediterraneo ma potrebbe tranquillamente essere messicano (i fichi d’India che caratterizzano le scene in esterna, del resto, arrivano proprio da lì). Ci troviamo invece da qualche parte ai piedi del Gargano, ai margini della Foresta Umbra. «Terra magica, lasciatevelo dire. So’ jute per il mondo, modestia a parte. Ho visto la Spagna, la Germania... e pure l’America, se è per questo. Ma nessuna parte assemegghje a quaggiù. Certi profumi, signori, profumi come quelli dei meli nostri, dei mandorli nostri, non li troverete da nessuna altra parte. Nensignori, mai accussì! A bàsce u’ Salento boschi come i nostri manco se li sognano, e sarebbe ora che qualcuno ce lo spiegasse, a quille quatte mmerde dei nostri politici, che ‘ntr’u Gargane non ci sta soltanto a Padre Pio...». Belle parole da dépliant turistico: peccato che quei boschi vadano continuamente a fuoco durante la storia. E poi Padre Pio è davvero una presenza costante e quasi ossessiva, nei riquadretti delle case, esattamente come lo è la musica di Gigi d’Alessio, che ritorna di continuo persino nelle suonerie tamarre dei cellulari.

Un western, dunque. Ma anche, per certi aspetti, un road movie, un romanzo criminale, una storia di mafia, una pulp fiction (con tanto di grotteschi sicari che sembrano usciti da un episodio di Fargo). Tutto ruota intorno all’omicidio di una ragazza romena che vive in una baraccopoli costruita ai margini delle piantagioni e le cui conseguenze influiscono profondamente sui destini dei vari protagonisti, perché l’apparente delitto passionale nasconde spesso e volentieri una realtà un po’ più intricata. Si tratta in fondo della consolidata e ancora valida lezione di Sciascia. Meno pretenziosamente e prima di Lagioia, Di Monopoli gioca curiosamente con le stesse allitterazioni (là ferocia, qui ferro e fuoco) per raccontare una Puglia devastata e truce, quella “terra di dove finisce la terra” che però è proprio lì dietro l’angolo. C’è un personaggio, un’insegnante di origine salentina che sta tornando a casa, a Modena, e si ritrova suo malgrado invischiata in questa storia mentre risale lungo l’Adriatica. Non c’entra nulla con quello che è successo; entra nella vicenda, ne esce, e in fondo non si rende mai pienamente conto di che cosa l’abbia sfiorata e di cosa ci sia dietro la sua disavventura. É un po’ la controfigura di noi lettori ingenui che pensiamo che certe cose non possano realmente accadere, non qui, non da noi, e che, anche quando, per un motivo o per l’altro, ci sbattiamo contro, continuiamo a non capirci granché, anche se siamo professori di liceo.

(finito l'8 novembre 2017)

Ho parlato di




Omar di Monopoli
Ferro e fuoco
(Isbn, 2008)

123 pp. | 14 €

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