Ma quando ritorno in me
sulla mia via, a leggere o studiare
ascoltando i grandi del passato
mi basta una sonata di Corelli
perchè mi meravigli del creato.
F. Battiato, Inneres Auge
Ovvero: la conferma che ciò che rende veramente grande uno scrittore è la fantasia con cui ricama i dettagli.
Premessa maggiore. A tutti capita di lasciare dei libri a metà, anche più di una volta nella vita, per periodi di tempo limitati (quando, per esempio, restano lì a implorare attenzione sul bordo del comodino) oppure per pause talmente prolungate da non resistere a un riassestamento casalingo e richiedere, quando che sia, una rilettura integrale, non appena si ritrova l'ispirazione per estrarli nuovamente dallo scaffale della biblioteca (a me è successo spesso - con Moby Dick, per citarne uno, poi ripreso e amato dopo una mal riuscita fuitina adolescenziale, oppure coi Demoni, mai portati alla fine). Per lo più l'abbandono è imputabile al lettore e alle sue inappellabili ragioni. Succede più raramente, ma talvolta succede, che il distacco sia invece da addebitarsi in una certa misura al libro stesso. Che può sparire, rovinarsi in modo irreparabile oppure, più banalmente ancora, non finire. É quel che è accaduto alla prima versione del Carteggio Aspern che sia entrata in casa mia, nell'edizione da edicola dei Grandi della Narrativa di Repubblica, un cinque anni fa. Probabilmente esemplare di una partita fallata, quel volumetto si interrompeva in effetti in modo un po' troppo brusco per un testo fin lì calibratissimo e molto sorvegliato. Non si trattava di una cesura evidente - per dire: una frase interrotta a metà; anzi, poiché dal punto di vista dell'impaginazione tutto appariva perfetto, per quel che ne sapevo poteva trattarsi davvero della chiusa della storia. Coi mezzi oggi a disposizione non mi ci volle però molto per avere la conferma che lì mancava invece un intero capitolo, l'ultimo (in altri tempi, anche solo vent'anni fa, una verifica così rapida sarebbe stata più difficoltosa e questo mi ha fatto per un attimo fantasticare sul significato che potrebbero assumere certi libri se, all'insaputa del lettore, fossero sistematicamente privati del finale voluto dall'autore). Decisi allora che, alla prima occasione, quel libro me lo sarei dovuto procurare, anche in un'altra edizione, non tanto e non solo per sapere come andava a finire la storia (se fosse stato solo per quello, infatti, avrei potuto ricorrere facilmente ad altri espedienti), ma perché quel racconto e quell'autore meritavano a mio avviso di occupare dignitosamente uno spazio nella mia libreria.
Così, dopo qualche tempo, acquistai un'altra versione del romanzo, integrata con altri due racconti di Henry James. Non per questo, però, ne ripresi subito la lettura. Perché ciò accadesse si rese necessaria una premessa minore. La scelta di cominciare un libro è un evento che devo preparare. Ora, fra le mie varie fissazioni vagamente archivistiche c'è un innato amore per le cronologie (che fa il paio con quello topografico per le mappe), una cui ramificazione investe la sfera degli anniversari e delle ricorrenze, monitorati sempre con una certa attenzione. Si dà il caso che il 28 febbraio del 2016 siano trascorsi cento anni esatti dalla morte di Henry James e per onorare questa cifra tonda, sin dai primi di gennaio, ritenni che fosse giunto il momento di riprendere quella storia rimasta in sospeso e conoscere finalmente la sua conclusione. Senonché, per un corollario della premessa maggiore, il sopraggiungere del concorso per diventare insegnante ha innescato la mia ontologica incapacità di concentrarmi su altro che non siano testi attinenti allo studio, provocando un nuovo rallentamento nella lettura, che si è realmente risolta, dopo diversi mesi, a fine maggio. Ma ne è valsa la pena. Ritornare a leggere è un segno che si è ritornati a vivere.
Il plot è semplice: un critico letterario inglese sbarca a Venezia perché è venuto a sapere che qui vive ancora, nel silenzio di una vita appartata e quasi povera, con la sola compagnia di una nipote non troppo brillante, la donna celebrata molti anni prima, sotto il nome esotico di Juliana, dal poeta Jeffrey Aspern, eroe fittizio che assomma in sé, idealizzandoli, i tratti dei grandi autori romantici inglesi (in particolare Byron e Shelley). Sfidando la riservatezza di questa donna inacidita e disillusa, il protagonista allestirà una complicata trama per cercare di ottenere, senza darlo a intendere, le lettere inedite che Aspern a suo tempo le aveva inviato e che lei pare ancora conservare, refrattaria però a qualsiasi forma di divulgazione. Per inciso, sembra che la vicenda abbia un solido aggancio in un episodio realmente accaduto a un discepolo di Shelley, di cui James venne a conoscenza e che annotò in una pagina del suo diario.
Tutto ruota intorno alla sconfinata ammirazione che il nostro critico nutre nei confronti del suo idolo Aspern e al contrasto che emerge tra l'immagine della giovane Juliana e la realtà della sua controparte anziana, relitto di un'età lontana e (per un esteta) delittuosamente attaccata al denaro al punto da contrattare sull'affitto come la più meschina delle megere. «Non c'è più poesia nel mondo», si legge a un certo punto - e questo anche perché novità come la fotografia «hanno annichilito la sorpresa» (e si noti la finezza di questa intuizione, buttata lì quasi come se nulla fosse). Il protagonista stesso è un uomo che si aggira nel passato, interessato - da critico qual è - a far risuonare la voce «di scrittori migliori di me: i grandi scrittori soprattutto... i grandi filosofi e i grandi poeti del passato; di quelli che se ne sono andati, sono morti». E inevitabilmente torna ancora a galla il Battiato malinconico che cerca di recuperare «l'incantesimo / di perdute esistenze / che non saranno mai le speranze / di presenze intorno a noi».
Eppure, su questo sfondo che non si sottrae all'impressione di una rappresentazione benignamente ironica, ogni tanto si ha come il bagliore di un'epifania. Il circuito sembra chiudersi e il passato appare a portata di mano, anche se sempre un po' più in là rispetto alla presa, come perennemente sfuggente. Quando il protagonista si trova faccia a faccia con Juliana - dice - è come se avvenisse «il miracolo della resurrezione. La sua presenza sembrava in qualche modo contenere ed esprimere quella di lui, e nell'istante in cui la vidi, gli fui vicino come non ero mai stato prima e non sarei mai più stato dopo». "Lui" è ovviamente Aspern. Il brivido si fa quasi ossessione: ora è desiderio di sfiorare la mano che aveva toccato quella di Aspern, ora stupore al pensiero che quella particolare voce era la stessa che aveva sentito Aspern, ora tremito nell'incrociare uno sguardo che era stato a sua volta fissato da Aspern, in una catena di rimandi che fa da ponte fra le generazioni e consente quasi di intravedere l'origine. Le due donne, zia e nipote, «saldavano una continuità tra la mia vita e l'illustre esistenza che le aveva toccate agli albori». Risuona qui l'entusiasmo del discepolo che ascolta dalla viva voce dell'apostolo il racconto vibrante della sua vocazione sul lago di Galilea (Ireneo di Lione ricorda con analogo afflato la piazza dove il vescovo Policarpo era solito parlare di quello che aveva udito da coloro che avevano visto il Signore). Se non fosse che Juliana è terribilmente reticente, persino ostile; simbolicamente, «sugli occhi portava una orribile visiera verde che le serviva quasi da maschera», in modo da rendere impossibile un contatto visivo diretto con lei. Così l'incanto si spezza, il passato torna a essere inghiottito in una nebulosa imperscrutabile, le tracce si perdono definitivamente. Dopo una lunga e dispendiosa forma di corteggiamento, la possibilità di riallacciare quel legame, attraverso la riesumazione del carteggio ambito, finisce per essere subordinata a una scelta che il protagonista non se la sentirà di fare (lui, che pure, per altri aspetti, sembrava invece disposto a tutto pur di metter mano su quei fogli!).
Ripeto, qui c'è dell'ironia. Ma il filo della memoria che si trasmette precario, di voce in voce, nello scorrere degli anni, è realmente ciò a cui tutti siamo appesi. Negli occhi dei nostri genitori noi possiamo vedere come il riflesso degli occhi dei loro genitori o dei loro nonni, del cui transito terreno ci resta spesso pochissimo fra le mani, fuorché le mani stesse e le segrete dinamiche di quel codice che ci rende in parte quel che siamo e in cui conserviamo le conquiste di tutti gli altri nostri incalcolabili antenati. Io la vagheggio spesso, questa possibilità di interrompere la corsa del tempo e ripercorrerla a ritroso, contrastando per un momento la bufera che ci scaraventa a velocità folle verso il punto di fuga della storia, così da trattenere, di quel passato, di quel cumulo di vicende da cui veniamo, un'espressione, un tono di voce, un cenno della testa che, scomparso l'ultimo testimone diretto, sarà altrimenti perduto per sempre. C'è qui il rammarico per non aver mai raccolto organicamente i racconti di guerra e pace dei miei nonni, ma anche la paura di immaginare eternamente sepolte in un supporto tecnologico obsoleto l'equivalente moderno degli antichi carteggi. Più in generale, è un senso di vertigine per essere come sospesi su un atollo di pochi ricordi nel grande oceano della dimenticanza, che pure è necessaria per vivere. Per questo, sento come un fremito alla notizia, letta proprio in questi giorni, del ritrovamento, in una grotta della Linguadoca, di piccole steli disposte secondo schemi circolari presumibilmente da uomini di Neanderthal vissuti circa 175 mila anni fa. Questo cumulo di rocce è, oggi, il mio carteggio Aspern.
Post scriptum/1. James scrive divinamente. «Che accade alle impressioni nei lunghi intervalli della coscienza? Dove vanno a nascondersi? In quali stipi, in quali anfratti inesplorati del nostro essere si annidano? Assomigliano alle righe di una lettera vergata con l’inchiostro simpatico: tenete la lettera al fuoco per un po’ e il grato tepore farà trapelare le parole invisibili. É il tepore di questo sole dorato di Firenze a ricomporre il testo della storia d’amore della mia giovinezza, oggi spiegata davanti a me come una nitida pagina bianca e nuova». Mi arrendo. Quando mi imbatto in periodi di questo tenore, la cui densità è come alleggerita dall'eleganza, sono capace di fermarmici sopra per dieci minuti. É anche per questo che sono così lento a leggere. E James è esattamente quel genere di scrittore che mi fa andare ancora più piano. Una autentica slow reading.
Post scriptum/2. Come evidenzia la breve citazione precedente, a leggere gli americani che parlano dell'Italia si capisce perchè poi decidono di dare l'Oscar a film come La grande bellezza. L'Italia, qui, è tutta luce e calore, la primavera della vita, un'immensa scenografia (per quanto, in Daisy Miller, James ci offra anche il contraltare del newyorchese abbruttito, che non trova nulla di realmente interessante in Europa rispetto al proprio paese, dove ha sede la ditta di papà).
Il plot è semplice: un critico letterario inglese sbarca a Venezia perché è venuto a sapere che qui vive ancora, nel silenzio di una vita appartata e quasi povera, con la sola compagnia di una nipote non troppo brillante, la donna celebrata molti anni prima, sotto il nome esotico di Juliana, dal poeta Jeffrey Aspern, eroe fittizio che assomma in sé, idealizzandoli, i tratti dei grandi autori romantici inglesi (in particolare Byron e Shelley). Sfidando la riservatezza di questa donna inacidita e disillusa, il protagonista allestirà una complicata trama per cercare di ottenere, senza darlo a intendere, le lettere inedite che Aspern a suo tempo le aveva inviato e che lei pare ancora conservare, refrattaria però a qualsiasi forma di divulgazione. Per inciso, sembra che la vicenda abbia un solido aggancio in un episodio realmente accaduto a un discepolo di Shelley, di cui James venne a conoscenza e che annotò in una pagina del suo diario.
Tutto ruota intorno alla sconfinata ammirazione che il nostro critico nutre nei confronti del suo idolo Aspern e al contrasto che emerge tra l'immagine della giovane Juliana e la realtà della sua controparte anziana, relitto di un'età lontana e (per un esteta) delittuosamente attaccata al denaro al punto da contrattare sull'affitto come la più meschina delle megere. «Non c'è più poesia nel mondo», si legge a un certo punto - e questo anche perché novità come la fotografia «hanno annichilito la sorpresa» (e si noti la finezza di questa intuizione, buttata lì quasi come se nulla fosse). Il protagonista stesso è un uomo che si aggira nel passato, interessato - da critico qual è - a far risuonare la voce «di scrittori migliori di me: i grandi scrittori soprattutto... i grandi filosofi e i grandi poeti del passato; di quelli che se ne sono andati, sono morti». E inevitabilmente torna ancora a galla il Battiato malinconico che cerca di recuperare «l'incantesimo / di perdute esistenze / che non saranno mai le speranze / di presenze intorno a noi».
Eppure, su questo sfondo che non si sottrae all'impressione di una rappresentazione benignamente ironica, ogni tanto si ha come il bagliore di un'epifania. Il circuito sembra chiudersi e il passato appare a portata di mano, anche se sempre un po' più in là rispetto alla presa, come perennemente sfuggente. Quando il protagonista si trova faccia a faccia con Juliana - dice - è come se avvenisse «il miracolo della resurrezione. La sua presenza sembrava in qualche modo contenere ed esprimere quella di lui, e nell'istante in cui la vidi, gli fui vicino come non ero mai stato prima e non sarei mai più stato dopo». "Lui" è ovviamente Aspern. Il brivido si fa quasi ossessione: ora è desiderio di sfiorare la mano che aveva toccato quella di Aspern, ora stupore al pensiero che quella particolare voce era la stessa che aveva sentito Aspern, ora tremito nell'incrociare uno sguardo che era stato a sua volta fissato da Aspern, in una catena di rimandi che fa da ponte fra le generazioni e consente quasi di intravedere l'origine. Le due donne, zia e nipote, «saldavano una continuità tra la mia vita e l'illustre esistenza che le aveva toccate agli albori». Risuona qui l'entusiasmo del discepolo che ascolta dalla viva voce dell'apostolo il racconto vibrante della sua vocazione sul lago di Galilea (Ireneo di Lione ricorda con analogo afflato la piazza dove il vescovo Policarpo era solito parlare di quello che aveva udito da coloro che avevano visto il Signore). Se non fosse che Juliana è terribilmente reticente, persino ostile; simbolicamente, «sugli occhi portava una orribile visiera verde che le serviva quasi da maschera», in modo da rendere impossibile un contatto visivo diretto con lei. Così l'incanto si spezza, il passato torna a essere inghiottito in una nebulosa imperscrutabile, le tracce si perdono definitivamente. Dopo una lunga e dispendiosa forma di corteggiamento, la possibilità di riallacciare quel legame, attraverso la riesumazione del carteggio ambito, finisce per essere subordinata a una scelta che il protagonista non se la sentirà di fare (lui, che pure, per altri aspetti, sembrava invece disposto a tutto pur di metter mano su quei fogli!).
Ripeto, qui c'è dell'ironia. Ma il filo della memoria che si trasmette precario, di voce in voce, nello scorrere degli anni, è realmente ciò a cui tutti siamo appesi. Negli occhi dei nostri genitori noi possiamo vedere come il riflesso degli occhi dei loro genitori o dei loro nonni, del cui transito terreno ci resta spesso pochissimo fra le mani, fuorché le mani stesse e le segrete dinamiche di quel codice che ci rende in parte quel che siamo e in cui conserviamo le conquiste di tutti gli altri nostri incalcolabili antenati. Io la vagheggio spesso, questa possibilità di interrompere la corsa del tempo e ripercorrerla a ritroso, contrastando per un momento la bufera che ci scaraventa a velocità folle verso il punto di fuga della storia, così da trattenere, di quel passato, di quel cumulo di vicende da cui veniamo, un'espressione, un tono di voce, un cenno della testa che, scomparso l'ultimo testimone diretto, sarà altrimenti perduto per sempre. C'è qui il rammarico per non aver mai raccolto organicamente i racconti di guerra e pace dei miei nonni, ma anche la paura di immaginare eternamente sepolte in un supporto tecnologico obsoleto l'equivalente moderno degli antichi carteggi. Più in generale, è un senso di vertigine per essere come sospesi su un atollo di pochi ricordi nel grande oceano della dimenticanza, che pure è necessaria per vivere. Per questo, sento come un fremito alla notizia, letta proprio in questi giorni, del ritrovamento, in una grotta della Linguadoca, di piccole steli disposte secondo schemi circolari presumibilmente da uomini di Neanderthal vissuti circa 175 mila anni fa. Questo cumulo di rocce è, oggi, il mio carteggio Aspern.
Post scriptum/1. James scrive divinamente. «Che accade alle impressioni nei lunghi intervalli della coscienza? Dove vanno a nascondersi? In quali stipi, in quali anfratti inesplorati del nostro essere si annidano? Assomigliano alle righe di una lettera vergata con l’inchiostro simpatico: tenete la lettera al fuoco per un po’ e il grato tepore farà trapelare le parole invisibili. É il tepore di questo sole dorato di Firenze a ricomporre il testo della storia d’amore della mia giovinezza, oggi spiegata davanti a me come una nitida pagina bianca e nuova». Mi arrendo. Quando mi imbatto in periodi di questo tenore, la cui densità è come alleggerita dall'eleganza, sono capace di fermarmici sopra per dieci minuti. É anche per questo che sono così lento a leggere. E James è esattamente quel genere di scrittore che mi fa andare ancora più piano. Una autentica slow reading.
Post scriptum/2. Come evidenzia la breve citazione precedente, a leggere gli americani che parlano dell'Italia si capisce perchè poi decidono di dare l'Oscar a film come La grande bellezza. L'Italia, qui, è tutta luce e calore, la primavera della vita, un'immensa scenografia (per quanto, in Daisy Miller, James ci offra anche il contraltare del newyorchese abbruttito, che non trova nulla di realmente interessante in Europa rispetto al proprio paese, dove ha sede la ditta di papà).
(finito il 22 maggio 2016)
Il libro che viene dopo. James meriterebbe un approfondimento. Per gusti personali e per chiara fama, tanto varrebbe cominciare da Giro di vite.
Chissà perché fu proprio in quella occasione che più che mai mi colpì la strana aria di socievole contiguità e di vita domestica che rappresenta buona parte del fascino di Venezia. Senza strade e veicoli, senza il frastuono delle ruote e la brutalità dei cavalli, con le sue stradine tortuose dove la gente si raccoglie insieme, dove le voci risuonano come nei corridoi di una casa, dove il passo umano si muove quasi a scansare gli spigoli dei mobili e le scarpe non si consumano mai, il luogo ha il carattere di un immenso appartamento collettivo, con Piazza San Marco che fa da salotto buono, e gli altri palazzi e le chiese che fungono da grandi divani per riposare, da tavole per intrattenersi, da superfici decorative. E in qualche modo lo splendido domicilio comune, familiare, domestico, sonoro, assomiglia anche a un teatro con gli attori che scalpicciano sui ponti e, in disordinato corteo, saltellano lungo le fondamenta. Mentre si è seduti in gondola, i marciapiedi che in certi punti costeggiano i canali assumono per lo sguardo l’importanza di un palcoscenico, con la stessa angolatura, e le figure veneziane, nei loro andirivieni contro lo scenario delle sbilenche casette da commedia, danno l’impressione di essere i membri di una infinita compagnia drammatica.
Ho parlato di
Henry James
Il carteggio Aspern
Il libro che viene dopo. James meriterebbe un approfondimento. Per gusti personali e per chiara fama, tanto varrebbe cominciare da Giro di vite.
Una pagina (102-103)
Chissà perché fu proprio in quella occasione che più che mai mi colpì la strana aria di socievole contiguità e di vita domestica che rappresenta buona parte del fascino di Venezia. Senza strade e veicoli, senza il frastuono delle ruote e la brutalità dei cavalli, con le sue stradine tortuose dove la gente si raccoglie insieme, dove le voci risuonano come nei corridoi di una casa, dove il passo umano si muove quasi a scansare gli spigoli dei mobili e le scarpe non si consumano mai, il luogo ha il carattere di un immenso appartamento collettivo, con Piazza San Marco che fa da salotto buono, e gli altri palazzi e le chiese che fungono da grandi divani per riposare, da tavole per intrattenersi, da superfici decorative. E in qualche modo lo splendido domicilio comune, familiare, domestico, sonoro, assomiglia anche a un teatro con gli attori che scalpicciano sui ponti e, in disordinato corteo, saltellano lungo le fondamenta. Mentre si è seduti in gondola, i marciapiedi che in certi punti costeggiano i canali assumono per lo sguardo l’importanza di un palcoscenico, con la stessa angolatura, e le figure veneziane, nei loro andirivieni contro lo scenario delle sbilenche casette da commedia, danno l’impressione di essere i membri di una infinita compagnia drammatica.
Ho parlato di
Il carteggio Aspern
e altri racconti italiani
(Garzanti 2009)
Trad. di G. Lonza
220 p. | 9 €
(Garzanti 2009)
Trad. di G. Lonza
220 p. | 9 €
(ed. or.: The Aspern Papers, 1888; Daisy Miller, 1878; Diary of a Man of Fifty, 1879)
Nota. Gli altri due racconti contenuti in questa raccolta sono Daisy Miller e Il diario di un uomo di cinquant'anni. Se Il carteggio Aspern è ambientato a Venezia, questi altri due sono inscenati per lo più a Roma e Firenze.
Nota. Gli altri due racconti contenuti in questa raccolta sono Daisy Miller e Il diario di un uomo di cinquant'anni. Se Il carteggio Aspern è ambientato a Venezia, questi altri due sono inscenati per lo più a Roma e Firenze.
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