lunedì 22 dicembre 2025

Ragazzi di vita

Per parte mia, io ci proverei anche a tenermi alla larga da polemiche in cui non ho nessuna voglia di entrare – specie quelle tipicamente social in cui resti intrappolato solo perché, se prendi la parola in un determinato momento, anche se a nessuno interessa davvero ciò che hai da dire (e sarebbe più che comprensibile), ci si aspetta comunque che tu vi faccia cenno, e un eventuale silenzio sarebbe inteso esso stesso come una dichiarazione -, e per farlo in fondo non ci sarebbe sistema migliore di quello che (involontariamente) ho finito per adottare, arrivando cioè a scrivere di ciò che ho letto a grande distanza di tempo da quando se ne è presentata l’occasione, allorché anche l’eventuale appiglio alla contingenza che poteva avermi ispirato quella lettura (posto che ci sia) dovrebbe essersi ormai volatilizzato e disperso nella radiazione cosmica di fondo, se non fosse, però, che alcune di quelle polemiche, e spesso proprio le più inconcludenti, hanno come un loro peculiare ciclo vitale, che le fa periodicamente ritornare a galla, per cui puoi ritrovartici comunque immischiato, anche se hai fatto di tutto per evitarle, come quando ti ingegni per scivolare davanti alla porta aperta di un ufficio senza essere visto dal suo titolare, perché non ha voglia di parlarci, salvo andarci a sbattere addosso non appena giri l’angolo del corridoio, perché malauguratamente costui non era nella stanza. Tutto questo per dire che vorrei proprio lasciar perdere la questione dell’appartenenza a questa o quell’altra area politica di un intellettuale come Pasolini, questione tanto più stucchevole in quanto - finché non è stato ammazzato – Pasolini si tendeva piuttosto a rimpallarselo addosso gli uni contro gli altri, manco fosse stato un acaro della scabbia, per ciò che pensava e ancor più per ciò che era. Vorrei, dunque, e lascerò perdere, limitandomi solo a esternare la tristezza che mi fanno quei gerarchetti in tailleur e doppiopetto inebriati di bavoso potere da sottosegretariato primorepubblicano come i Galeazzo Musolesi Bignami o le bau bau Montaruli – il cui unico merito storico è di farci vedere davvero, senza le deformazioni prospettiche della distanza storica, la pasta mediocre di cui sono sempre stati fatti i fascisti nostrani – quando, farneticando di un ipotetico pantheon di destra, anziché glorificare quelli che dovrebbero essere i loro autentici punti di riferimento, ovvero, per coerenza, teorici del suprematismo, picchiatori, antisemiti, stragisti, adoratori della morte, sostenitori della militarizzazione e della guerra come igiene del mondo - per magnificare i quali mandano invece in avanscoperta a far cagnara i fiancheggiatori con le loro piccole case editrici (ci si accontenterebbe anche di un Gentile o di un Guénon, ma cosa volete che ne sappia di tutto questo un Donzelli?) – non sanno far niente di meglio che produrre una pappetta post-ideologica pressoché indistinguibile dall’omogeneizzato di pensiero a cui si sarebbe ridotto – dicono loro, quando gonfiano il petto, atteggiandosi a sciamani dello Spirito – l’Occidente avvelenato dal progressismo woke. Sfilata come se niente fosse la svastica dall’avambraccio, ci si mette con oscena disinvoltura al suo posto la kippah sul capo e voilà tutta la decantata, sacra, Tradizione ridotta a nient’altro che una squallida, epigonica, notte dei telegatti (almeno Berlusconi non aveva la pretesa di essere diverso da ciò che appariva essere). Ed è questo, più o meno, quello che credo rinfaccerebbe davvero Pasolini al pubblico di Atreju, se dai poster con cui è stato esorcizzato e addomesticato potesse riprendere per un attimo vita in carne, ossa e attitudine corsara.

Ma potrebbe anche approfittarne per innalzare una lirica apologia dei maranza proprio davanti a quanti si eccitano fisicamente all’idea di poterli picchiare e rinchiudere tutti quanti in gattabuia. Sarebbe d’altronde molto più in linea con quello che rappresentò, al suo apparire, Ragazzi di vita, romanzo per me impegnativo da seguire, perché scritto mimeticamente nella stessa parlata che avrebbero usato i suoi protagonisti, o comunque in qualcosa di molto simile ad essa, come se il raccontare di loro in buon italiano fosse già di per sé un’acquisizione ideologica e una falsificazione, in modo tale però da risuonare sempre un po’ ridicolo in testa a chi quell’accento non ce l’ha nelle orecchie (a differenza per esempio del piemontese di un Fenoglio), con un effetto pericolosamente grottesco analogo a quello prodotto dai film romaneschi interpretati da Celentano, tanto da convincermi, da un certo punto in poi, a cercarmi un audiolibro recitato come si deve per accompagnarmi nella lettura (ed è per ora la prima e l’unica volta che l’ho fatto, perché in genere l’ascolto mi distrae). A me pare che ciò che dà sostanza a questo libro sia l’intrecciarsi continuo di almeno due grandi movimenti narrativi. Uno è quello che sta in primo piano, vivace, picaresco ma senza nessuna concessione alla retorica, a tratti anzi brutale nel suo realismo, ed è l’insieme appunto delle vicende che accadono agli adolescenti cui allude il titolo, veri e propri ragazzi di strada che sopravvivono di espedienti e «s’arrangicchiavano. O coi soldi che rimediavano di mattina alla stazione o al mercato di piazza Vittorio, o fregando qualcosa per le bancarelle», in una ripetitivà senza apparente sbocco né prospettiva, perché «se poi un giorno rimediavano della pecogna pure per quello successivo, allora col cavolo che andavano a lavorare e a sfaticare». Con le loro famiglie disastrate abitano in catapecchie o alloggi di fortuna ricavati nelle scuole, insieme ad altri sfollati e sfrattati, nel contesto promiscuo ma non necessariamente solidale delle borgate romane, con quei loro toponomi esotici che sembrano appartenere a tribù di pellerossa («e passato Tiburtino, ecco Tor dei Schiavi, il Borghetto Prenestino, l’Acqua Bullicante, la Maranella, il Mandrione, Porta Furba, il Quarticciolo, il Quadraro...»), essi stessi identificati il più delle volte con appellativi (Riccetto, Caciotta, Begalone, Lenzetta…) adatti alla coorte dei Malebranche cui in certi momenti somigliano. Qui, «lungo ruderi colossali di mura con sotto file di tuguri», si muovono appunto «bande di giovanotti che facevano a fugge coi loro motori, Lambrette, Ducati o Mondial, mezzi ubbriachi, con le tute unte aperte sul petto nero, oppure acchittati che parevano usciti da una vetrina di Piazza Vittorio. Tutto un gran accerchiamento intorno a Roma, tra Roma e le campagne intorno, con centinaia di migliaia di vite umane che brulicavano», spingendosi poi fin dentro l’Urbe e mescolandosi ai turisti ignari di quel che si nasconde nel cono d’ombra delle meravigliose scenografie da kolossal di Cinecittà a cui scattano le loro migliaia di foto. Eccolo, invece, il “vero” popolo: brutto, sporco e cattivo, tutt’altro che docile, inquieto, riottoso, senza alcuna coscienza di sé, disorganizzato e abbandonato a se stesso, legno storto che non si sa come raddrizzare se non a colpi di manganello e di rinvii al carcere minorile.

Avventurieri provenienti dal mondo civile si spingono assai raramente da quelle parti, ubi sunt leones. Giusto il prete per officiare un funerale, ma comunque anche lui «di fretta, senza guardare in faccia nessuno» (del resto, «a Pietralata, per educazione, non c’era nessuno che provasse pietà per i vivi, figurarsi cosa c… provavano per i morti»). La buona società borghese ha un altro modo per rompere l’assedio da cui si sente soffocata - ed è questo il secondo movimento narrativo cui alludevo, più sotterraneo forse, ma decisamente più incisivo. Pasolini indugia ripetutamente sulla descrizione del paesaggio selvaggio della periferia romana, solcato da «fratte, buche e canneti», irregolare ed aspro come la selva dantesca dei suicidi, «con in mezzo baracche, catapecchie, carrozzoni di zingari senza ruote, magazzini, tutti mescolati insieme e sparsi sopra i prati, in parte, in parte ammucchiati contro i muraglioni dell’Acquedotto, nel disordine più pittoresco»; qui finiscono ammucchiate cataste di rifiuti, tutti gli scarti della modernità avanzante, e nei rifiuti quei ragazzini ci sguazzano per ore sperando di trovare qualcosa da poter rivendere, finché, quando il sole si alza a picco, nell’insopportabile afa di agosto, mollano tutto per buttarsi nei rivi e nei torrenti, «rotolandosi come cuccioletti […] sull’erba», poco più che animali allo stato brado, privi di educazione ma anche di sovrastrutture (e viceversa). E tuttavia, sin dall’inizio, questo scenario rupestre è solcato anche dal lento incedere della sedicente civiltà sotto forma di inarrestabili colate di cemento. Dietro San Paolo, il Tevere «a destra era tutto irto di gru, antenne e ciminiere, col gasometro enorme contro il cielo, e tutto il quartiere di Monteverde, all’orizzonte, sopra le scarpate putride e bruciate»; all’Acqua Brulicante, «dietro ai praticelli lerci pieni di montarozzi per dove i tram facevano il giro, qualche stradetta tutta buche, in uno spiazzo dominato dalle immense ombre di due o tre grattacieli in costruzione, di dietro, e di fronte da uno già costruito, ma ancora senza strade o cortili davanti, abbandonato tra l’erbaccia e il pattume», e tutto intorno i «reticolati o le fratte che circondavano i terreni lottizzati, ridotti ancora a enormi depositi d’immondezza, con intorno o in mezzo qualche tugurio e qualche mucchio di breccia»; Porta Furba è «una Shangai di orticelli, strade, reti metalliche, villaggetti di tuguri, spiazzi, cantieri, gruppi di palazzoni, marane». E via dicendo, in una giustapposizione di cianfrusaglie, ponteggi e nuovi orrendi edifici, che si moltiplicano come per mitosi cellulare, semplicemente sovrapponendosi a ciò che c’era prima, ma senza amalgamarsi con esso. Il progresso, ridotto all’osso: un attentato alla spontaneità della vita che impone una ripulita e una veste rispettabile come se quella fosse un’autentica emancipazione e non la mera sottomissione a una nuova, più insidiosa, forma di schiavitù.

Alla metà degli anni ‘50, approdato nella capitale dalla lontana provincia, Pasolini viene immediatamente punto dalla spina che lo tormenterà fino alla morte, ossia dalla percezione della forzosa e rapidissima trasformazione di una civiltà arcaica, che pure non ha nulla di idilliaco, in una conformistica società piccoloborghese piegata alla logica del consumismo, e ancor più dalla lucida consapevolezza che a questa mutazione non sembra esserci via di scampo e che essa preannuncia un esito, ancora vago, ma comunque terribile. Mentre le vicende si susseguono, una dietro l’altra, lungo un arco di oltre dieci anni, non sono solo i nuovi casermoni affastellantisi come cellule tumorali a suggerire l’idea che stia capitando qualcosa di davvero importante, e non particolarmente piacevole, alla società moderna. In lontananza si percepiscono infatti strani rombi, movimenti di camionette ed autoblindo, come se si fosse alla vigilia di un colpo di stato militare. «In quel gran silenzio si sentiva solo qualche carro armato, sperduto dietro i campi sportivi di Ponte Mammolo, che arava col suo rombo l’orizzonte» - così si chiude non a caso il romanzo. Una libertà repressiva e regressiva che si adagia come un mantello, facendoci passare in una generazione dalla preistoria al futuro senza una vera rivoluzione: ecco quel che ha intravisto Pasolini, rovinandogli per sempre il sonno, ecco ciò che stanno pienamente contribuendo a consolidare quelli che oggi lo invocano come uno dei “loro”.

(finito il 16 agosto 2022)

Ho parlato di


Pier Paolo Pasolini
Ragazzi di vita
(RCS Mediagroup 2022)

284 pp. | 8,90 €

(ed. or.: 1955)

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