venerdì 31 ottobre 2025

Paradiso perduto

Meno male che, quando mi propongo di cominciare un nuovo libro, l’ultima cosa a cui penso è cosa ne dirò, quando l’avrò terminato e sarà arrivato il momento di scrivere queste mie consuete tre(nta) righe, perché, se così fosse, rischierei di privarmi preventivamente del gusto di leggere un qualsiasi monumento della letteratura universale solo per la paura di ritrovarmi a bofonchiare a fine corsa qualcosa di altrettanto insulso quanto definire carine le piramidi d’Egitto (secondo un’antica spernacchiata battiatesca, emessa peraltro in tempi in cui non c’era ancora l’abitudine di recensire senza ritegno tutto ciò che ci capitava a tiro). Fra queste pietre miliari che sono felice d’aver attraversato dalla prima all’ultima pagina – sebbene la lettura integrale serva più che altro a giustificare quella cursoria che si può fare poi, senza sensi di colpa, di lì in avanti, con calma – rientra da poco anche il Paradiso perduto, il cui valore sono in grado di misurare già solo dal fatto che sia riuscito comunque a coinvolgermi, nonostante l’abbia letto (per limite mio) in una traduzione che per forza di cose è già quasi una parafrasi, e dunque deprivato della potenza originale della parola poetica che in opere come queste non può mai essere dissociata dal suo contenuto, peraltro in modo curiosamente non molto dissimile da quel che accadde quando mi accostai per la prima volta all’Inferno dantesco, divorandone l’adattamento in prosa moderna pubblicato a margine delle terzine nella serie di fascicoli allegati a Famiglia Cristiana a inizio anni ‘90 e fatti poi rilegare artigianalmente dai mie nonni in un volume che finivo quasi sempre per sfogliare quando, all’altezza delle medie, andavo a trovarli a casa loro. Tale è, in effetti, il fulgore del genio da raggiungerti con un raggio della sua luce anche quando lo maltratti in questo modo.

Certo, per i miei gusti, ogni volta che Milton mette in versi delle scene ricalcate più o meno direttamente sulla Scrittura, apprezzo ancora di più la sobrietà primitiva del testo biblico, ma dove si sbizzarrisce a riempirne i vuoti, molte sue invenzioni risultano senz’altro seducenti. Il problema, semmai – ma è un problema più teologico che artistico, e letterariamente ha poco senso porselo, perché è proprio in quello che sta la sfida – è se ci fosse davvero bisogno di colmarli, quei vuoti. Oppure, più in generale, se la forma dell’epica classica sia davvero quella migliore per trattare una materia che in realtà ne rovescia programmaticamente canoni e regole, al punto che, se vi viene poi ricondotta a forza, produce distorsioni concettuali, fraintendimenti e pure effetti involontariamente comici, come le lunghe tirate che l’Onnipotente intrattiene tra due delle sue persone, come se fosse il re delle fiabe di fronte al suo accondiscendente specchio magico, o la goffaggine degli angeli custodi, che dovrebbero sorvegliare l’Eden ma si fanno maldestramente infinocchiare da Satana come marmittoni da quattro soldi, o ancora l’intera sequenza della demonomachia, con quel dispiegamento di artiglieria celeste che sembra tirato fuori da uno di quei saggi secondo cui la Bibbia non parlerebbe di Dio ma di scontri fra potenze extraterrestri impegnate a contendersi la Terra (azzardo anzi una proposta genealogica, secondo cui potrebbero discendere in qualche modo anche di qui, alla lontana, non solo certe bislacche interpretazioni fantarcheologiche, ma pure alcuni significativi sviluppi del moderno immaginario pop giù giù fino a Neon Genesis Evangelion: d’altra parte, intorno alla cattedra di Lucifero, tra i seggi del Pandemonium, spiccano quelli di Dagon e del Demogorgone).

E tuttavia va pur detto che, almeno in parte, la rappresentazione dell’ostinatissimo attacco condotto dal Maligno contro il benevolo piano divino - anche per questo indugiare su tutte le ingegnose macchinazioni con cui viene continuamente rilanciato e continuamente vanificato – mi pare ammantata da un velo di ironia, tale per cui l’epos stesso, così serioso per natura, prende insospettabilmente una piega tragicomica. Tutta la prosopopea con cui l’Angelo caduto si proclama Principe dei ribelli, rivendicando quale titolo d’onore «il coraggio | di non sottomettersi mai, di non cedere», condensato in un celebre principio - «meglio regnare all’inferno che servire in cielo» - tanto caro a certi romantici e a tutti quelli che, prima e dopo, hanno cercato di rivestire di cupa solennità il loro risentimento contro la vita, per nobilitarlo, non è tanto diversa dalla coreografica ma in fondo velleitaria messinscena architettata dai diavoli asserragliatisi nella città di Dite, per disperdere i quali, al disdegnoso messo celeste giunto in soccorso di Dante e Virgilio, basta appena appena un colpo di verghetta sul portone. La grandezza tragica del presunto eroe che non rinuncia alla lotta, pur sapendosi sconfitto in partenza, si rivela, a conti fatti, per quel che davvero è: una pervicacia ottusa, per quanto carica di dolorosissime conseguenze (tanto più dolorose quanto più le si riconosce insensate, inutili, vane), propria di chi si incaponisce nel male perché non sa apprezzare il bene che sarebbe sempre stato lì a portata di mano. Davvero: ma ne vale la pena? Eppure quanti ce n’è in giro, di questi meschini figli delle tenebre i cui loschi maneggi moltiplicano la sofferenza da cui essi stessi sono tormentati, rovesciandola ottusamente sugli altri, senza che questo plachi in alcun modo il loro dolore: «perchè dovunque fugga – osserva Satana, in un raro momento di malinconica autoconsapevolezza – è sempre inferno: sono io l’inferno». Così, quando il «grande Condottiero» ridiscende nell’abisso delle tenebre per decantare la sua impresa, l’aver cioè sedotto gli imbelli progenitori con l’inganno della cadrega e aver suscitato in questo modo l’offesa spropositata di un Dio che s’atteggia a magnanimo ma è in realtà un permalosone, anziché l’applauso dei dannati lo accoglie «un atroce | sibilo universale, il suono del pubblico scherno»; egli stesso, un tempo splendente di gloria, si contrae e si affusola assumendo d’ora in poi per l’eternità la forma infame nella quale ha peccato e indotto a peccare, insieme a tutti i suoi compagni, trasformati anch’essi orrendamente in «mostri avviluppati, teste e code, | anfisbene orribili, scorpioni, aspidi e idre, | e ceraste cornute, eliopi orrende e dipsadi». A questo miserevole squallore si riducono infatti i dominatori di questo mondo, quando li spogli di onori, titoli, denari – anche se ci vuole una gran fede, a crederlo, finché li vedi gigioneggiare tronfi sui loro troni a rivendicare il premio Nobel per la pace.

Magra consolazione, quella d’aver macchiato la creazione del Signore, dimostrandone l’apparente inefficienza nel momento in cui hanno scostato il collo da ciò che percepivano come il morso inaccettabile dell’obbedienza – tentazione che conosco bene perché (qualcuno potrebbe sorprendersi) ci son passato anch’io, quando, senza capire, non tolleravo l’idea che il mio percorso di potenziale bene potesse essere già tracciato da qualcun altro (“sarò il tuo Vietnam” arrivai a scrivere, apostrofando l’Altissimo, nel bel mezzo di un intenso combattimento interiore trasformato in una confessione segreta custodita fra le mie carte). «E se per me tutto il bene è perduto, | male sii tu il mio bene; se non altro, | grazie a te questo impero diviso posso reggerlo | insieme al Re del cielo, e governarlo forse | per più della metà» - «e se non è vittoria è pur sempre vendetta». Ma neppure questo progetto riesce davvero a quei poveri diavoli. La loro ribellione testimonia una ribalderia della creazione che si trasmette fino all’uomo, suo capolavoro, e che è espressione di una libertà ontologica di fronte alla quale Dio può manifestarsi non come il Fondamento che garantisce l’ordine dell’Essere, ma come l’Eccedente capace di riscattarne il costitutivo disordine. Questa mi sembra la morale della favola di Adamo ed Eva: la storia dell’umanità quale si manifesta in visione al primo patriarca dopo il peccato sarà pure un concentrato di scelte sbagliate, di violenza e di sofferenza, ma chi pensa di mettere nel sacco il Creatore corrompendo ciò che è uscito dalle sue mani si ritrova inevitabilmente messo sotto scacco dalla sua incontenibile potenza di trasformare sempre il male in bene, anche quando disperi che sia possibile e ti verrebbe voglia di annichilire tutto. La possibilità di vivere questa esperienza, spalancatasi infine ai progenitori, quando «la mano nella mano, | per la pianura dell’Eden, a passi lenti e incerti | presero il loro cammino solitario (their solitary way: così si conclude il poema)», è l’unico paradiso, sempre davanti a noi e mai alle spalle, che vale la pena desiderare.

(finito l'11 agosto 2022)

Ho parlato di


John Milton
Paradiso perduto
(Mondadori 2016)

LXVI+823 pp. | 14 €

trad. e cura di R. Sanesi

(ed. or.: Paradise Lost, 1667)

lunedì 6 ottobre 2025

Lo specchio delle nostre miserie

Atto conclusivo di una trilogia sulla Francia tra le due guerre inaugurata da un libro che trovai straordinario e proseguita con un secondo capitolo che non so perché ho invece stranamente ignorato - ma per fortuna non così strettamente collegato ai precedenti da risultare inesplicabile, se preso a sé - questo volume appare sin dal primo sguardo chiaramente imparentato con quel genere di narrazioni alla Jonathan Coe in cui le storie di personaggi diversissimi, che in un primo momento scorrono parallele e senza apparenti punti di contatto l’una con l’altra, finiscono poi tutte per convergere, incontrarsi e trasformarsi reciprocamente sotto l’impulso di un concentrato di forze imponderabili e spesso improbabili a cui, per esigenze di sintesi, diamo il nome di “vita”; al tempo stesso, però, vi si può scorgere anche una traccia della medesima, paradossale, intuizione fenogliana di focalizzare l’attenzione su questioni privatissime per fare in realtà dello sfondo da cui esse emergono il vero, pervasivo, onnipresente protagonista della vicenda, con un afflato epico che, complice l’ambientazione in gran parte on the road – pardon, sur la route – ricorda pure qualcosa del Furore di Steinbeck. Per l’attenzione riservata a figure provenienti da un certo sottobosco popolare parigino e in parte inghiottite nel buco nero della guerra senza lasciare troppi segni del loro transito terrestre ci vedo anche echi di Modiano e forse persino di Céline (sia pure ripulito e denichilizzato, quindi in fondo decélinizzato), ma qui corro davvero il rischio di farmi prendere un po’ troppo la mano con le analogie e andare fuori strada. Poiché, comunque, Lemaitre è un meraviglioso affabulatore, mosso da una spiccata curiosità per il non detto acquattato tra le note a pié di pagina della Grande Storia, il risultato complessivo, anche se non del tutto originale, è senza dubbio unico. Ci si diverte, ci si commuove, si ha da pensare e si imparano pure un sacco di cose nuove: cosa volete di più?

Lo sfondo, dicevo. Quello che per noi italiani sono stati Caporetto o l’8 settembre, per i francesi si riassume nella disfatta subita ad opera dei nazisti tra il maggio e il giugno del 1940, quando la “strana guerra” dichiarata da nove mesi, ma praticamente fino a quel punto mai combattuta, comincia per davvero e un intero paese, prima ancora di essere sconfitto sul campo, collassa improvvisamente su se stesso per non averci mai davvero neppure creduto, all’ipotesi di una vittoria, in parte atterrito, in parte ammaliato dalla rinnovata baldanza del tradizionale nemico tedesco. Così, quando si diffonde la notizia che le armate avversarie stanno puntando con decisione verso Parigi, anziché allestire come nel ‘14 la staffetta dei taxi per sbarrare loro il passo sulla Marna, dalla capitale comincia un caotico fuggi fuggi verso la parte opposta, lungo strade che, non essendo neanche lontanamente paragonabili a quelle di oggi, si intasano subito, invase da «centinaia di uomini, donne, bambini, vecchi, che camminavano nella stessa direzione, una parata interminabile di volti concentrati, sgomenti, spaventati», accomunati dalla medesima «aria di naufragio e di rinuncia». «La macchina sobbalzava lentamente in quel flusso di fuggiaschi che era l’immagine di un paese in ginocchio. Volti, volti ovunque. Un immenso corteo funebre (…), diventato l’agghiacciante specchio delle nostre miserie e delle nostre sconfitte». Tutta la debordante grandeure di chi aveva eretto Versailles e assaltato la Bastiglia, e godeva a pari titolo dell’uno e dell’altro momento del proprio passato, si sgonfia desolatamente di fronte a quella che appare in quel momento l’ineluttabile avanzata di una diversa forma di modernità, scandita dal passo dell’oca. Come spesso accade, un simile scenario apocalittico in molti risveglia «gli istinti più bassi, gli egoismi più neri, gli interessi più avidi» (i bravi contadini di Francia, per esempio, se accolgono con relativa benevolenza i primi fuggiaschi che sostano in mezzo ai loro campi, dal secondo o terzo giorno iniziano a imporre tariffe per consentire l’accesso ai pozzi, contenti di lucrare qualche spicciolo sulla rovina nazionale); in altri, tuttavia, suscita «il desiderio di aiutare, di amare, ha imposto il dovere della solidarietà». È questa la «scelta di campo» richiesta dai momenti difficili – che sono poi anche i nostri, dove la solidarietà appare un delitto a quanti considerano più sconcertante scendere in piazza per denunciare un genocidio che il genocidio stesso: «stare tra quelli che si chiudono in se stessi, che sbarrano porta e cuore ai poveri e agli indifesi che si rivolgono a loro, oppure tra quelli che spalancano le braccia, non malgrado le difficoltà, ma grazie alle difficoltà?».

In modi diversi, questa domanda se la devono porre tutti gli attori chiamati sulla scena, ciascuno con il suo concentrato di delusioni personali travolte, ma non cancellate, da questi eventi enormemente più grandi di loro. Come Louise, una giovane (ma non più così giovane) donna senza marito e senza figli che vive questa sua maternità mancata come un’umiliazione e che, da un momento all’altro, scopre in modo abbastanza traumatico che la madre apatica con cui aveva vissuto, morta un giorno qualunque senza neanche salutare, dopo anni di sconsolata depressione, nascondeva una sofferenza e un vissuto segreto da cui emerge una personalità totalmente diversa da quella che lei stessa le aveva sempre attribuito, per comprendere davvero la quale si mette in cerca di chi conosce pezzi di quel suo inimmaginabile passato. O come Raoul, una canaglia sempre in grado di tirare fuori dal taschino, persino in tempi di penuria, un’ultima sigaretta da offrire al tapino che sta per circuire coinvolgendolo in qualche sporco raggiro, senza rinunciare alla violenza e all’intimidazione se questi si defila, anche quando si tratta di sottrarre risorse dalle caserme assiepate lungo la linea Maginot e allestire un redditizio mercato nero a spese dell’esercito, e che, nel bel mezzo di quello «scenario da fine del mondo», per odio verso la vita, i potenti, le madri ed i padri, «si sentiva a suo agio come a una festa di paese». O ancora come Fernand, un agente della guardia nazionale in crisi di fede, rimasto tuttavia a Parigi, nonostante la catastrofe incombente, trattenutovi dal suo altissimo senso del dovere, per lo meno fino al momento in cui trova inaspettatamente il modo di mettere le mani su una valigia piena di denaro della banca nazionale destinato al rogo perché non finisca nelle tasche naziste e si immagina di poterlo impiegare per pagare finalmente il viaggio della vita in Persia all’amatissima moglie Alice, dando un giro di vite a un matrimonio riuscito, sì, ma – anche per loro – non benedetto da figli. Di tutti costoro seguiremo peripezie, cadute, momenti di gloria e, forse, per qualcuno, persino una forma di riscatto.

Ma il più affascinante di tutti è senza dubbio monsieur Désiré Migault, un professionista del trasformismo, a cui la confusione provocata dalla guerra e la fortuna di vivere in un mondo ancora analogico offrono infinite possibilità di applicare il suo talento nell’assumere vite diverse, cucendosele addosso con un tale, meravigliosa, disinvoltura da risultare tutte le volte credibile, almeno fino a quando qualcuno di quelli che gli girano intorno, per scrupolo, curiosità o semplice puntiglio si avvicina a scoprire la verità, inducendolo a sparire dai radar e a ricomparire altrove sotto nuove sembianze. Quando lo incontriamo per la prima volta indossa la toga d’avvocato ed è impegnato, in un’aula del tribunale di Rouen, nell’arringa difensiva di una giovane ragazza accusata di omicidio, ma prima di questa performance – ci viene detto – era già stato professore anticonvenzionale nella classe unica di Rivaret-en-Puisaye, pilota all’aeroclub di Évreux, chirugo per due mesi all’ospedale Saint-Louis di Yvernon-sur-Saone, tutto sempre per pochi mesi, tempo comunque sufficiente per lasciare un ricordo indelebile in chi ha avuto l’occasione di conoscerlo. Anche la sua carriera forense non dura molto: subito prima di vincere la causa, il presidente dell’ordine gli fa notare che non si trovano gli estremi della sua laurea; lui passa un momento in toilette e da quel momento non si farà più vedere, ma intanto l’ignara corte pronuncia l’assoluzione della sua assistita, e poiché «mettere in discussione la sentenza avrebbe significato riconoscere che il meccanismo giudiziario aveva lasciato che un falso avvocato esercitasse impunemente», semplicemente si fa finta di niente e non se ne parla più. Perché lo fa? E chi lo sa? Forse per sberleffo, iconoclastia, per una forma d’arte o forse solo per puro divertimento.

Un uomo come lui non può che dare il meglio di sé al Ministero della Propaganda, dove viene arruolato perché millanta indimostrabili competenze in lingue e culture orientali di cui nessuno sa nulla e che lui, semplicemente, si inventa sul momento, suscitando il plauso ammirato di chi accetta come autentico khmer quello che è solo un grammelot improvvisato. È lui a suggerire di scrivere nei comunicati ufficiali che i tedeschi non “avanzano”, ma “si spostano in avanti”, che i francesi non “arretrano”, ma “si spostano indietro”. Consapevole che «non esiste niente di più verosimile della parola ufficiosa», scrive convincentissimi testi radiofonici in cui inventa false domande di falsi cittadini e false risposte di falsi politici e militari anonimi, con la stessa facilità con cui oggi si costruiscono profili fake sui social allo scopo di solleticare l’istinto gregario della specie e raggrumare l’opinione pubblica sulle posizioni considerate più vantaggiose per il governo. Désiré qui si sente davvero a casa, ma è naturale che nel paradiso della falsificazione qualcuno fiuti l’imbroglio e lo costringa ad abbandonare la nave un attimo prima di essere smascherato. Poco male. Nei pressi di Arneville, si imbatte nel cadavere di un sacerdote freddato da una scarica di proiettili e non ci pensa due volte: si infila la tonaca, si accoda alla fiumana che abbandona Parigi e «nel giro di un chilometro, era già prete». A quelli che avrebbe incontrato racconterà, mostrando il foro nella veste, di essere stato salvato dalla proverbiale Bibbia nel taschino. «Quella frottola, un’autentica sfida alle leggi della fisica, non stupiva nessuno perché tutti volevano crederci». Con queste credenziali di presunta santità, l’uomo che si fa ora chiamare padre Désiré riesce dal nulla ad allestire una specie di centro di accoglienza per rifugiati e profughi, dove ci si arrabatta come si può, ma si offre un autentico lumicino di speranza a chi si sta smarrendo nella notte. Manca solo il miracolo, o forse il miracolo è che, pur essendo tutta una finzione, clamorosamente funziona, come se in quel rinnovato esodo si fosse manifestata davvero la presenza di Dio nella sua nube. Il nostro eroe immerge le mani nei liquami per riparare delle tubature con la stessa scioltezza con cui le eleva al cielo mentre celebra liturgie totalmente inventate in falso latino, spacciandole per un fantomatico “rito ignaziano”, ma la sua attività preferita è la confessione, poiché trova «affascinante constatare quanti peccati si potessero attribuire quegli esseri che in realtà erano solo delle vittime». Per tutti loro «aveva l’assoluzione facile e generosa»: in fondo - sembra dirci - siamo tutti prigionieri delle storie che ci raccontiamo, siamo chi ci convinciamo di essere o ci convincono di essere. Ma se questo impulso ci spinge ad arrenderci prematuramente quando pensiamo di non essere all’altezza della situazione, per lo stesso motivo potremmo essere in grado di realizzare autentiche meraviglie, se solo pensassimo di poterlo fare. Perché, allora, non credere che qualcosa di buono sia possibile e, se proprio siamo obbligati a guardarci riflessi in uno specchio deformato, non prendere per valida l’immagine migliore di noi stessi, anziché accettare come normale di essere tutti cinici, avidi e cattivi, continuando a grufolare con un certo compiacimento nell’infamia?

(finito il 9 agosto 2022)

Ho parlato di


Pierre Lemaitre
Lo specchio delle nostre miserie
(Mondadori 2020)

504 pp. | 20 €

trad. di E. Cappellini

(ed. or.: Miroir de nos peines, Paris 2020)