lunedì 28 aprile 2025

I geroglifici e la croce

Per un po’ a questo gioco ho partecipato anch’io, per cui ne parlo con cognizione di causa. Facili le regole base: si prende un outsider della filosofia (ai tempi, il mio cavallo di battaglia preferito fu Francisco Sanchez, che come carneade funziona doppiamente bene, essendo stato scettico anche lui – ma di analoghi derelitti abbandonati negli orfanotrofi della storiografia ne ho adottati anche altri, in occasioni diverse) e gli si dedica un saggio, un contributo, un minuto in una conferenza per dire che dopotutto le interpretazioni fin lì offerte sul suo conto, ancorché legittime, sono leggermente sfocate o limitate o del tutto fuorvianti e che è venuto finalmente il momento di riconoscere a costui il giusto posto che gli spetta nella storia del pensiero, che di solito si rivela essere quello di aver fatto da imprescindibile nodo di collegamento (o “cinghia di trasmissione”, come credo di aver detto il giorno della mia laurea) tra qualche altra quinta o sesta linea di rincalzo dell’avanguardia intellettuale dell’umanità. In questo modo, senza arrischiarsi in un pericolosissimo confronto diretto con i pesi massimi, dal quale si uscirebbe inevitabilmente con le ossa rotte, si può sperare di innescare il sollevamento dell’olimpico sopracciglio di qualche nume accademico e guadagnare nientepopodimenoche l’ambitissimo riconoscimento di “pionieristico” al proprio studio. Si capisce allora perché ho provato immediata simpatia verso Giuliano Mori, che a occhio e croce è più giovane di me, ma ha già fatto più carriera di quanta ne abbia mai fatta io, quando ho constatato nel suo libro l’allineamento di tutti questi segni applicati al caso di un minore emerito come Athanasius Kircher, uno al quale persino la letteratura popolare ormai riserva la sua irrisione in quanto prototipo del sapiente ottuso, di quelli – cioè – che conoscono già le cose prima di averle viste e negano pure l’evidenza se questa non si conforma al loro pregiudizio. Lo dico davvero senza ironia, se non quella che ricade anche sul sottoscritto: noi sottospecie di umanisti intenti a studiare cose bellissime, ma non immediatamente spendibili in società, siamo costretti a raccontarcela un po’ per cercare di dimostrare che quel che facciamo effettivamente un senso ce l’ha, anche se interessa giusto quattro altri dissociati come noi sparsi su tutta la Terra – e tanto più ne abbiamo bisogno, per farci coraggio, quando ci addentriamo per la prima volta, con tutta la circospezione del caso, nelle sconfinate praterie della ricerca, dove ad ogni passo rischi di cadere in trappola e diventare pasto per gli affamati avvoltoi appostati sulle guglie del Parnaso. Ma una volta pagato questo modesto dazio alla retorica automotivante, che piacere concedersi il lusso di curiosare, per il puro gusto di farlo, un testo che, a rigor di logica, non avrebbe invece nessun senso leggere, se non per postillare con l’ennesima nota una tesi di dottorato.

Ora, di tutte le cose di cui si è occupato Kircher – e sono veramente tante: all’epoca, piaccia o no, passava per uno che sapeva davvero tutto – qui il focus cade sull’egittologia, e in particolare sulla sua convinzione di aver finalmente individuato un metodo per portare alla luce, dopo millenni, l’autentico significato dei geroglifici, con il loro contenuto di verità riposte ai non iniziati. Pazienza se tale opera di decodificazione si basi su un doppio errore di fondo, concettuale (il considerare, cioè, il geroglifico come un linguaggio simbolico e non fonetico) e materiale (l’impiego, come chiave per la traduzione, non già della Stele di Rosetta, ancora sepolta sotto le sabbie, ma della Tabula Bembina o Mensa Isiaca, manufatto bronzeo che con ogni probabilità non era neppure egizio, bensì una copia romana di età imperiale, le cui iscrizioni simulavano dunque solo l’estetica dei geroglifici senza esserlo davvero), perché ben più importante è il presupposto soggiacente a questo lavoro, ovvero la ripresa di un vecchio tema apologetico adattato però ai nuovi scenari della propaganda fide seicentesca e sorprendentemente valido, depurato di tutte le sue pesantezze antiquarie, e pur con tutto il suo carico di problematicità, anche per la moderna teologia delle religioni. Al fondo del progetto kircheriano sta infatti l’idea di una rivelazione implicita condivisa da tutti i figli di Adamo e dunque presente in nuce in tutte le culture della Terra, anche se andata incontro a un processo di progressivo oblio dei propri principi originari e dunque a una sorta di snaturamento, quando, smarrito il suo senso profondo, si è cominciato a venerarne il mero rivestimento, proprio come accaduto, appunto, con i geroglifici – poco più che stilizzati disegnini per chi non è in grado di penetrarne il mistero – e soprattutto con le diverse divinità dei pantheon pagani, divenute distinti oggetti d’adorazione anziché manifestazioni, o avatar, dell’unico Dio, come invece dovrebbero essere considerate.

«Tutte le culture, tutte le lingue e tutte le religioni si possono ricondurre a un’unica origine divina, che deve essere riscoperta e restaurata», ragion per cui compito specifico della Chiesa sarà quello di inviare «i suoi missionari non a convertire, ma a richiamare i popoli idolatri all’originale conoscenza del vero Dio che essi avevano dimenticato», ovvero «a liberare quei nuclei di spiritualità delle impurità idolatriche e riportarli alla loro pratica più corretta». Da buon gesuita seicentesco, Kircher, quando pensa all’Egitto e ai suoi dei ha infatti soprattutto in mente Confucio e quella Cina in cui i suoi confratelli euclidei si vestivano come dei bonzi per entrare a corte degli imperatori della dinastia dei Ming. E forse ha ancora più in mente le chiese protestanti, che, scavando un solco invalicabile tra ciò che sta prima e ciò che sta dopo Cristo, ciò che sta sotto la Grazia e ciò che resta irrimediabilmente al di fuori di essa, avrebbero smarrito la dimensione propriamente “cattolica” salvaguardata invece dalla Chiesa romana, con la sua volontà (almeno ideale) di abbracciare e accogliere all’interno del colonnato di San Pietro tutti i popoli, affratellati dalla comune paternità di Dio. Di questa comune radice gli Egizi sarebbero stati i più consapevoli fra i gentili, assai più di quanto lo fossero gli stessi greci, se non altro per l’antichità della loro cultura, la cui origine è da Kircher stesso fissata all’anno 1984 dopo il diluvio, ovvero al tempo della prima dispersione delle stirpi avvenuta in quel di Babele. All’epoca la sapienza adamitica era ancora patrimonio diffuso e poté così condensarsi in dottrine coltivate per secoli all’ombra delle piramidi, finché, smarritone il senso, il Verbo stesso si è incarnato per restaurarne e restituircene l’autentico significato, che per Kircher coincide sostanzialmente con una concezione quadripartita della realtà, convergente però verso un unico punto centrale, come rappresentato plasticamente da quell’altro manufatto tipicamente egizio, l’obelisco, le cui quattro facce piegano infatti tutte verso un medesimo vertice. Il disegno può apparire non del tutto innocente e tradire un impulso assimilazionista, ma al tempo stesso offre anche una base per provare a impostare un’opera di dialogo interculturale finalizzato a far emergere in ogni cultura il vero e il buono che, seppur detto con espressioni differenti, rivela l’umano comune fatto a immagine di un Dio sempre più grande di qualsiasi formula entro cui lo si voglia intrappolare. La tesi «secondo cui l’unità non esclude la molteplicità e la molteplicità non impedisce l’unità» costituisce infatti per Kircher «il più dolce frutto della sapientia degli antichi» e permette di «conoscere la molteplicità delle forme che Dio può assumere, le quali tuttavia sono congiunte in una stretta unità e insieme compongono l’immagine della divinità». Altro che mero divertimento erudito, siamo addirittura dalle parti di Von Balthasar. E anche se non sarà più un gesuita come loro, in pratica è anche un pezzo dell’agenda del prossimo papa.

(finito il 12 giugno 2022)

Ho parlato di


Giuliano Mori
I geroglifici e la croce. 
Athanasius Kircher tra Egitto e Roma
(Scuola Normale Superiore 2016)

175 pp. | 9,50 €

sabato 5 aprile 2025

La sinagoga degli zingari

Il fatto che scriva delle mie letture in netto ritardo rispetto a quando le ho fatte mi permette, tra l’altro, di ricordare a me stesso che sono passati appena tre anni, e non trecentocinquanta, come a tratti invece mi sembra, da quando riuscivo a prendermi, perfino in mezzo alle correnti tumultuose del pentamestre, delle pause sufficientemente lucide per sprofondare tra le pagine di un libro anziché collassare e basta sui cuscini del divano, appena in grado, tutt’al più, di scrollare inebetito video di vecchi sketch comici o di talk-show a tema calcistico – quando, per dire, il Pastor a cui prestavo attenzione era appunto una scrittrice di accurati romanzi storici tinti di giallo (sotto pseudonimo) e non il sia pur brillantissimo commentatore sportivo capace di ricordare i marcatori di un oscuro Vicenza-Reggiana stagione ‘96-’97. É stato possibile, e dunque lo sarà ancora, per forza, e sinceramente non vedo proprio l’ora che questo accada.

Tornerà perciò il momento in cui potrò anche soddisfare di nuovo il piacere di raccogliere da un saggio o da un romanzo informazioni e atmosfere da rifondere in un buon racconto per i miei studenti, unito a quello, parallelo, di placare le curiosità personali che inevitabilmente sorgono proprio nel momento in cui assembli con un po’ più di attenzione i vari pezzi del puzzle e scopri quanti dettagli sorprendenti rischiano di restare nascosti dietro alla confortevole sintesi dei manuali scolastici. Come a un attore che riflette su cosa non è andato per il meglio nell’interpretazione della sera prima, anche a me quest’esigenza sorge di solito a posteriori, dopo una lezione in cui non mi è sembrato di aver detto le cose come avrei dovuto e potuto, magari perché incagliatomi, nell’esposizione, su un punto evidentemente poco chiaro prima di tutto a me stesso. Nella fattispecie, è stato con la promessa di darmi un’idea più vivida di un crocevia novecentesco quale l’inferno di Stalingrado che questo libro mi ha tentato e mi ha sedotto.

Quel che non sapevo in partenza, ma ho ricostruito solo a posteriori, è che il romanzo in questione non è che l’ultimo di una saga composta, al momento, da oltre dieci volumi, in ostentata continuità con i classici del feuilleton – a cui rimanda persino l’elenco iniziale dei personaggi, con tanto di mansione ricoperta nell’opera – sebbene poi dell’intrattenimento puro violi apertamente una delle regole base, quella, cioè, che proibirebbe nel modo più assoluto di anticipare i finali, dal momento che l’ordine di pubblicazione non coincide con l’ordine cronologico degli eventi e del protagonista si sa perciò già che in qualche modo riuscirà a tirarsi fuori dalla sacca in cui restò impantanata l'Armata di Paulus, in quanto il settimo episodio della serie lo ritrae operativo nella Salò repubblichina dell’ultimo autunno di guerra. Apprezzo questo pudore nel presentare come mera fiction d’avventura quella che è a tutti gli effetti una seria meditazione morale, come se si volesse cautelativamente evitare ogni rischio di supponenza facendola avanzare mascherata da letteratura popolare (da Ambler in giù, mi vengono in mente diversi esempi dello stesso tenore, in cui verosimili finzioni, ritmate su sapientissimi tempi scenici, aprono modestamente squarci di autentica comprensione sulla realtà storica e l’esistenza umana).

Ma poiché comunque di giallo in fin dei conti si tratta, ci sono gli inevitabili morti ammazzati e c’è l’inevitabile detective che deve occuparsi del caso – per quanto possa suonare lievemente assurdo (e con questo siamo già nel cuore del problema) intestardirsi per capire chi ha ucciso chi, quando di uomini ne muoiono ogni giorno a centinaia in quel carnaio che è l’estremo fronte orientale. Ma l’interesse speciale per alcune vittime rispetto a tutte le altre si può in parte spiegare, se a sparire, all’inizio del racconto, sono due brillanti scienziati rumeni, marito e moglie, Nicolae e Bianca Tincu – per intenderci, allieva di Madame Curie lei, amico di Fermi e Majorana lui, gente insomma che ne capisce bene di atomi, reazioni e radiazioni e che potrebbe forse avere una chiave per mettere fine al conflitto -, i quali vengono inghiottiti dall’immensa steppa ucraina mentre stavano cercando di raggiungere, un po’ rocambolescamente, la prima linea tedesca. Ma che diavolo ci andavano a fare nel punto più caldo di una guerra mondiale? E chi li ha eliminati, se poi sono davvero stati eliminati? Per prima cosa, infatti, bisogna trovarli. E in quell’immensa pianura in cui «non esistono direzioni» e le misure «si dilatano fino a perdere significato», dove «ci sono più sterrate che stelle in cielo» e si estendono sentieri che sembrano tirati «con un righello e continuare sino alla fine del mondo», è davvero come cercare il proverbiale ago nel pagliaio. E se alla fine sono morti davvero, bisognerà appunto capire chi li ha uccisi, e qui non c’è che l’imbarazzo della scelta, poiché la steppa sarà pure sterminata, «ma era evidentemente molto più popolata di quanto uno straniero potesse immaginare». I russi, i romeni stessi, gli ungheresi, i cosacchi – e perché non gli italiani?, accampati a Millerovo, sul Don: tutti, e in primis i litigiosi cespugli del sottobosco nazista, valvassini del nuovo ordine nero distesosi sull’Europa dell’est, avrebbero avuto i loro buoni motivi incrociati (rivalsa, vendetta, ritorsione, invidia) per farlo.

Quel che rende singolari i romanzi di Ben Pastor – e su cui ho tergiversato fin qui – è che colui al quale è chiesto di dipanare il garbuglio, l’eroe insomma di tutto il ciclo, è nientemeno che un ufficiale della Wermacht, nonché agente del controspionaggio, di nome Martin Bora, un aristocratico cattolico prussiano che ha succhiato regole militari e amor di patria sin dalla prima poppata, seppur aromatizzate con aromi di raffinata cultura classica e mitteleuropea - non dunque un volgare nazista, ma comunque uno il cui atavico senso dell’onore e la lealtà alla terra dei padri ha finito per collocare dalla parte sbagliata della storia, con tutto il carico di contraddizioni e complessi che ne può derivare (non siamo troppo distanti, anche se con una caratterizzazione assai più netta e sofisticata, da quel Vincenzo Bernardi protagonista di un romanzo che con questo mi pare avere stretti legami di parentela, a partire dall’editore comune). E se è vero che, nella letteratura di genere, il mistero è spesso allestito solo per vedere all’opera l’investigatore di turno, e rappresentarlo con le sue idiosincrasie e le sue manie, effettivamente anche qui, man mano che entri nel mondo interiore di Bora (aiutato dal fatto che ampie sezioni del racconto sono esposte in prima persona, come sue pagine di diario), ti rendi conto che, anche se «in questa storia (…) non torna proprio niente», quel che ti interessa in fondo di più è provare a comprendere quest’uomo riservato e taciturno, intelligentissimo e freddo, capace di un distacco irreale anche nelle situazioni più estreme senza che questo lo renda anaffettivo verso il disastro di cui è testimone («era come se dentro di lui coesistessero due persone, perfettamente distinte, eppure coerenti»).

Soprattutto, vorresti provare a venire a capo dell’enigma da cui lui stesso è ossessionato, e di cui, nonostante i suoi studi filosofici finalizzati a possedere la Conoscenza con la maiuscola, continua a sfuggirgli pienamente il senso. A Bora questo tormento si manifesta nella forma geroglifica, appunto, della “Sinagoga degli zingari”, ircocervo simbolico apparsogli in sogno da bambino e riemerso di nuovo dall’inconscio ora che sta avanzando a muso duro verso il Volga, «più simile a un piccolo Cremlino che a un tempio, (…) edificio fortificato, da tetti luminosi e ornati», perennemente «due o trecento passi davanti a lui, fissa e irraggiungibile. I mattoni rosso fuoco, le tegole di vario colore, le finestre, le cornici e i portali dovevano pure avvicinarsi, ma non lo facevano mai». Rielaborazione originale e complessa, costruita su un labirinto borgesiano di citazioni, della leggendaria città perduta di Kitez, ennesima variazione sul tema del Graal, emblema di tutto ciò cui aneliamo ma che non potremmo mai possedere, per un attimo forse i suoi mattoni coincidono e si sovrappongono a quelli della città di Stalin, infuocata dai roghi, in un orrore disperatamente senza senso, nonostante i velleitari tentativi di imporre in quel teatro dell’assurdo un minimo d’ordine razionale individuando i responsabili (forse) di un delitto politico. Da questo paesaggio lunare il maggiore Bora farà ritorno nel corpo, ma non nello spirito, come se una parte di lui fosse costretta a vivere in eterno in mezzo alle strade di Stalingrado e «ad avanzare futilmente in questa futile guerra» fosse un suo alter ego puramente esteriore, un automa che continua a funzionare per pura inerzia animale. «Relitti, rottami ovunque, solitudine, un oceano ghiacciato dove neanche gli squali si avventurano»; anche i reduci sono semplicemente «oggetti che il mare ha ributtato a riva». Certo, è un giallo e alla fine, in una sospesa appendice praghese, dove fa un suo cameo persino Ernst Junger, abbiamo pure la nostra bella scena del salotto, in cui tutto quello che c’era da scoprire più o meno viene rivelato. Ma dopo che hai visto Stalingrado nell’inverno del 1942, cosa vuoi che te ne importi ancora?

(finito il 10 giugno 2022)

Ho parlato di


Ben Pastor
La Sinagoga degli zingari
(Sellerio 2021)

trad. di L. Sanvito

664 p. | 17 €

(tit. or.: The Gypsy Synagogue)