giovedì 21 luglio 2022

Storia degli Stati Uniti

Siamo talmente plagiati dall’immaginario americano che dell’America pensiamo sempre di conoscere tutto, ma come al cagnolino che per lunga confidenza ha imparato le abitudini del padrone non attribuiremmo per questo una reale cognizione anche dei suoi travagli interiori, così probabilmente anche a noi sfugge sempre qualcosa di quanto cova all’ombra della Statua della Libertà. L’assalto a Capitol Hill è stato per me l’ennesimo squillo di sveglia: dopo tanto girarci intorno, non ho più tollerato saperne così poco – e poiché in queste cose sono noiosamente metodico, ho voluto riprendere il filo del discorso dall’inizio, almeno per quanto è possibile a uno che non se ne occupa di mestiere, procurandomi cioè una bella storia degli Stati Uniti che mi offrisse una griglia entro cui collocare via via nomi, concetti ed eventi. Il fatto che ce ne sia una in commercio firmata da Giovanni Borgognone ha facilitato la mia scelta. Con lui mi sembra di giocare in casa, non solo perché ho avuto modo di apprezzarne dal vivo le lucide lezioni tenute ai miei studenti sullo spicchio finale di quella stessa storia, ma anche perché, in un lontanissimo esame di oltre quindici anni fa, era stato proprio lui a interrogarmi sulla Democrazia in America di Tocqueville, uno dei libri che più ha contribuito a formare il mio modo di vedere il mondo. La regola d’oro che suggerisce di differenziare le proprie fonti può forse essere almeno in parte disattesa quando si individua una guida affidabile – e io sono a tal punto convinto che questa lo sia da consigliare a scatola chiusa il suo ultimo libro (America bianca. La destra reazionaria dal Ku Klux Klan a Trump), anche se non ho idea di quando riuscirò a leggerlo.

Giova inoltre il fatto che, per quanto si tratti pur sempre di un testo di sintesi, l’autore non si limiti a mettere semplicemente in fila quanto accaduto dai Padri Fondatori a Obama (ho letto infatti l'edizione del 2013 anche se nel frattempo ne è uscita una nuova e aggiornata), ma si preoccupi sempre di corredare il racconto con ampi riferimenti ai modi, anche discordanti, con cui gli americani hanno interpretato se stessi e il proprio agire, fornendo così delle chiavi per comprendere meglio cosa è diventata l’America e, di riflesso, cosa siamo diventati o cosa stiamo diventando anche noi che ne subiamo l’influenza. Dal momento che qui troviamo alcune delle basi di quell’aggrovigliato filamento che compone il dna delle nostre moderne liberaldemocrazie, credo valga la pena provare a capire se non vi sia qualche tara genetica che rischia di trasmettersi per via ereditaria. Per dire, consideriamo il progetto originario su cui si fonda quel paese: abbandonare la vecchia Europa e abitare la nuova Terra Promessa offerta da Dio ai suoi eletti oltre l’Atlantico, così come un tempo il popolo d’Israele aveva abbandonato l’Egitto del Faraone per abitare il territorio che gli era stato offerto al di là del Giordano, con i pellerossa a svolgere la parte che era stata delle tribù cananee, ossia quella di essere respinti sempre più indietro dall’incedere di quella nuova Arca dell’Alleanza chiamata ora Destino manifesto. Non è così insensato che su queste premesse abbia potuto attecchire nella società americana uno strisciante e perdurante sentimento di xenofobia da parte degli immigrati della prima ora nei confronti di quelli che hanno commesso il solo errore di essere emigrati dopo; più assurdo, ma tutt’altro che insolito, è che tale atteggiamento abbia preso il nome di “nativismo”: evidentemente, dove abbondò la colpa, sovrabbonda anche la rimozione. I veri nativi non sono del resto gli unici esclusi da questa impresa, che almeno inizialmente ignorava anche le donne e i neri (le “altre persone” che abitano il paese a cui allude di passaggio la Costituzione americana, distinguendole bene da “We, the People”). Da quel che capisco, la prossima battaglia tornerà a giocarsi su questo stesso terreno (dentro i privilegiati, fuori tutti gli altri), se già si stanno cominciando a ridisegnare i collegi elettorali in modo da garantire che le minoranze restino minoranze senza violare, formalmente, quel principio maggioritario che noi tendiamo a identificare con la democrazia in quanto tale.

Che poi, a ben vedere, anche se per noi l’America è sinonimo di democrazia, quando scoppiò la guerra contro la madrepatria inglese, «l’“ideologia” rivoluzionaria si incentrò soprattutto sulla nozione di “libertà” (liberty); l’ideale prevalente tra i Padri “non era la ‘democrazia’ (termine usato molto raramente nei dibattiti dell’epoca), ma appunto la “libertà” e l’autogoverno (self-government), da realizzarsi in forma rappresentativa». Una libertà quasi illimitata intensivamente quanto limitata estensivamente, come dicevo, e dalla quale resta perciò estranea l’idea di rimettere in questione gli assetti di potere consolidati, poiché rifiutare un’autorità superiore non significa automaticamente essere disposti a condividere il potere con chi si trova al di sotto di te. La dialettica che sta al cuore del sistema politico americano è difatti quella tra i fautori di un maggior coordinamento da parte dello Stato centrale e quanti sostengono, al contrario, che un’autorità statale forte possa ledere la sacralità delle libertà personali, ossia tra quelli che, con terminologia in un certo senso opposta a quella a cui siamo abituati noi, chiamiamo rispettivamente federalisti e antifederalisti. La nascita degli Stati Uniti come li conosciamo non ha posto fine al dilemma, anzi «il localismo (...) ha continuato a rappresentare una potente forza ideologica nella vita americana; se la struttura del governo è stata plasmata dai federalisti, lo spirito della politica americana, in notevole misura, è stato ispirato dagli antifederalisti». Esso coincide con il «patrimonio identitario della provincia americana, diffidente nei confronti non solo dell’Europa, ma anche delle grandi città della costa orientale statunitense, giudicate troppo vicine allo spirito europeo, e della politica centralistica del governo federale, considerata oppressiva e liberticida, e proprio per questo antiamericana» - quella tipica provincia, per intenderci, che praticava abitualmente i linciaggi come espressione, appunto, «della sovranità popolare». La pretesa di non dover subire la minima ingerenza da parte dello Stato tende così a prevalere sulla disponibilità a elaborare insieme un progetto comune: meglio conservare il diritto individuale di inquinare e di morire senza cure e in povertà che usare denaro pubblico per provare a uscirne insieme (come dimostra il continuo ostruzionismo alle proposte di legge sulla sanità, sulla riduzione delle emissioni nocive, sull’impiego delle armi e via discorrendo).

Mi sembra di individuare, fra le pagine del libro, un filo conduttore che da Thomas Jefferson arriva fino al boom del secondo dopoguerra. «La libertà, proprio in un’epoca in cui trionfavano i grandi poteri economici del tutto al di fuori di un autentico mercato competitivo, e in cui la “fabbrica dei bisogni” giungeva a perfezionare a livelli mai visti i propri strumenti per manipolare le menti dei cittadini e dettare loro la scala delle priorità, si configurava innanzitutto come “libertà di impresa” e “libertà di consumo”». Di nuovo, «al centro della propaganda americana vi era più questa nozione rispetto a quella di democrazia politica», ed è forse per questo che si è poi cercato di esportarla come una merce fra le altre. Al Leviatano che pretende di regolamentare ogni spazio della tua vita subentra il mostro mite che ti convince di aver bisogno di ciò che ti vende e ti lascia fare quello che vuoi in tutte le scelte che risultano innocue rispetto al mantenimento dello status quo, scambiando il soddisfacimento di una voglia per autentica libertà. Davvero fu lucidissimo Tocqueville, che intravide già tutto questo visitando l’America nell’età jacksoniana, quando per la prima volta si andò profilando l’idea di un “dispotismo democratico” esercitato su una «massa atomizzata di individui, chiusi nella cerchia della propria famiglia e dei propri amici e sempre più indifferenti alla società nel suo complesso». Mettete insieme la legge del sangue e la libertà più sfrenata, la difesa con le armi e con i muri del proprio particulare, la retorica patriottica e il familismo amorale, ed ecco comparire i tratti ricorrenti della destra reale, comunque poi la si chiami, così come si manifesta appunto nelle democrazie avanzate. Si parte nobilmente dalla difesa dei diritti e si arriva all’ognun per sé, come ammoniva Simone Weil.

Il problema, per chi vorrebbe opporsi a questa deriva, è che anche il principale modello alternativo elaborato finora negli States presenta dei limiti in un certo senso speculari. Lo si è definito dapprima “progressista”, poi “liberal” (a partire dal New Deal): il suo tratto peculiare è di opporre all’anarchia del mercato - ma anche alla partecipazione popolare - il mito efficientista della pianificazione tecnocratica e l’opera illuminata dei competenti. Prodotto di una cultura urbana, accademica e d’élite, tale atteggiamento è all’origine di uno stuolo infinito di controsensi, come quello per cui un ricchissimo tycoon come Trump ha potuto presentarsi come campione della gente comune contro i poteri forti rappresentati da Hilary Clinton, o quello non meno sconsiderato per cui personaggi come Monti o Draghi finiscono per essere inopinatamente considerati “di sinistra”, solo perché non ruttano a tavola e sono rispettosi del principio di realtà (quando invece la sinistra dovrebbe far leva sull’immaginabile per scardinare la rassegnazione al dato di fatto). Da Wilson a Roosevelt a Kennedy, giù giù fino a Clinton e Obama, questa linea di condotta ha sempre suscitato diffidenze autonomiste e proteste neoidentitarie, in quanto «ritenuta responsabile di una forma di “dispotismo soft” da parte di tecnocrati e alti burocrati federali, considerata come la più grave minaccia nei confronti dell’autentica tradizione politica statunitense, quella della libertà individuale e del self-government», ma ha anche prodotto reazioni contrariate in chi non si ostina ad accettare il neoliberismo come legge naturale e rifiuta «l’“approccio manageriale delle scienze sociali” in base al quale i cittadini parevano essere stati ridotti a “consumatori di beni e servizi”, tanto sul piano economico quanto su quello politico».

Le innegabili doti carismatiche dei grandi presidenti democratici degli ultimi cento anni fanno pensare a come, in fondo, a scontrarsi fra loro siano semplicemente due varianti di populismo, in cui l’appello ai cittadini, non più mediato da istituzioni di raccordo e di confronto, si risolve, come in un qualsiasi televoto, nella scelta tra proposte preconfezionate presentate in forme sempre più semplificate, secondo le regole del marketing (per dire, la “nuova frontiera” kennedyana e “l’impero del male” di Reagan). «Giungeva in ultima analisi, alle sue estreme conseguenze un processo di lungo corso di “spoliticizzazione della collettività”. Alla “cittadinanza” si era sostituito l’“elettorato”, ovvero “i votanti che acquistano una vita politica al momento delle elezioni” e la cui esistenza politica, tra un’elezione e l’altra, “è relegata a un ruolo ombra di partecipazione virtuale”» (i virgolettati sono del politologo Sheldon Wolin, ma qualcosa di simile c’era già in Rousseau). Retrocessi, insomma, da cittadini a followers, indotti a pensare che la democrazia consista nell’accumulare più like anziché nella faticosa costruzione di processi condivisi: è davvero questo il nostro destino? Hanno dunque ragione quelli che dicono che tanto vale abbracciare allora l’autocrazia, così ci risparmiamo anche le lungaggini procedurali? Nonostante tutto, io mi ostino a pensare che questo non sia l’approdo definitivo di una parabola politica in declino, ma appena l’inizio di un percorso estremamente accidentato all’interno del quale c’è però ancora tanto di inespresso che non ha neanche cominciato ad agire veramente nella storia e che ci penserei due volte prima di buttare a mare.

(finito l'8 aprile 2021)

Ho parlato di


Giovanni Borgognone
Storia degli Stati Uniti
La democrazia americana dalla fondazione all'era globale
(Feltrinelli 2013)

363 p. | 12 €

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