mercoledì 6 luglio 2022

Todo modo

Come credo quasi tutti quelli che hanno letto qualcosa di Sciascia, anch’io ho preso l’abbrivio, molti anni fa, dal Giorno della civetta - dove in effetti puoi trovare ciò che da sempre ti hanno insegnato ad associare a questo autore, ovvero la Sicilia, la mafia e il balletto dei quaquaraquà. Che però in Sciascia ci fosse ben di più l’ho capito quando ho scoperto Todo modo, compreso in una lista di letture consigliate dal mio professore di italiano tra quarta e quinta superiore e reso immediatamente attraente proprio perché, a sorpresa, dell’autore de Il giorno della civetta, non ci veniva consigliato di leggere Il giorno della civetta. Se getti una seconda occhiata sul miracolo, non è detto che tu riesca a rivedere il prodigio, ma ho voluto correre il rischio e da lì sono ripartito per omaggiare il centenario sciasciano.

In realtà c’era ben poco di che preoccuparsi. Anche se questa volta sapevo bene o male a cosa andavo incontro, il sapore è rimasto comunque intatto, bello forte, con quel retrogusto enigmatico che lo rende inconfondibile. A prima vista sembra infatti di avere per le mani un poliziesco, perché ci sono i morti e c’è pure il commissario (anche se questo qui «non era certo un’aquila»), eppure del poliziesco è una sorta di parodia (come recita il sottotitolo de Il contesto, romanzo di quegli stessi anni con cui Todo modo mi sembra affratellato). Non solo manca la rassicurante scena madre in cui il detective raduna i sospettati e scioglie punto per punto la matassa, ma benché il narratore affermi apertamente di avere «risolto il problema», e addirittura che la soluzione trovata è «netta e quasi ovvia: molto simile a quella della Lettera rubata di Poe» - ossia qualcosa che abbiamo proprio lì sotto gli occhi - tale soluzione non viene mai rivelata. Se si trattasse davvero di un testo di Poe sarebbe lecito pensare a una sfida lanciata al lettore. Credo però che Sciascia avesse altri pensieri per la testa.

In effetti «di moventi, tra questa gente, ne puoi trovare a migliaia», così come di catene causali che potrebbero spiegare in modo plausibile quanto accaduto. Con tali premesse, quando si annodano «migliaia di fili, e tutti ammassati», il guazzabuglio, il groviglio o – gaddianamente – il pasticciaccio pare destinato a restare tale e la storia fatalmente «non va a finire». Mostrare lo sfaldarsi dell’indagine mi sembra però appunto un modo per spostare l’attenzione dall’indizio al sistema, che è come dire dal dito alla luna. Poco importa sapere, infatti, se l’assassino sia stato effettivamente tizio o caio, poiché si tratta, in fondo, di un dettaglio. Poteva capitare all’uno come all’altro, di uccidere o di essere uccisi: ecco il vero punto da mettere a fuoco. Chi è infatti “questa gente” di cui si parla qui con sdegnoso distacco? Sono alti prelati, amministratori, parlamentari, ministri, finanzieri – in una parola, «il mondo cristiano e cattolico nel governo della cosa pubblica» - convenuti presso un vecchio eremo trasformato in un orrendo albergo per seguire un corso di esercizi spirituali sotto la direzione di uno strano prete, don Gaetano. A raccontarci di loro è un pittore ateo finito involontariamente da quelle stesse parti girovagando in macchina in una calda domenica di luglio, il quale, incuriositosi (“ma davvero si fanno ancora gli esercizi spirituali?”), decide di fermarsi anche lui lì qualche giorno per osservare quel che vi succede. E la prima cosa a colpirlo è che, quando arrivano gli ospiti, l’atmosfera che si crea non è propriamente claustrale, bensì quella «di una compagnoneria facile e sguaiata: gridi di sorpresa, abbracci, manate, scherzosi insulti». I partecipanti «si sentivano in vacanza: ma una vacanza che permetteva di riannodare fruttuose relazioni, ordire trame di potere e di ricchezza, rovesciare alleanze e restituire tradimenti». Pagato con qualche sbadiglio il pegno delle orazioni e dei paternoster, questo stuolo di capibastone si riversa appena possibile negli spazi comuni per scambiarsi «proposte in numeri e numeri in proposte, piccanti aneddoti a carico di amici-nemici e di nemici-amici, adulazioni, condiscendenti apprezzamenti; e qualche barzelletta oscena piuttosto arretrata. (…) Era facile immaginare che i due che si parlavano vicino a me stessero complottando qualcosa contro quegli altri due che stavano dalla parte opposta, e viceversa; e così ogni coppia contro ogni altra distante: sicché lo spiazzale diventava come un telaio su cui si stendeva una fitta trama di inganni, di tradimenti; e le spole che passavano da una mano all’altra». Poco a poco prende insomma forma, in carne, ossa e vasa-vasa, quel tumore che è attecchito nei gangli vitali delle nostre istituzioni repubblicane e le ha schiacciate nelle sue spire, consolidando il suo potere attraverso delitti benedetti con una spruzzatina d’acqua santa («lei, mi scusi, non sa di che cosa è capace la gente casa e chiesa, la gente col libro da messa in mano»...).

La scurrilità delle scene appena evocate, unita alla presenza nell’eremo delle amanti di alcuni di questi alti papaveri, sembra per un attimo far prendere al racconto la piega di una commedia licenziosa in cui da un momento all’altro potrebbe spuntare Lino Banfi. L’aspetto farsesco di tutta questa situazione è quello che in effetti cattura l’attenzione di un altro personaggio che, come il protagonista, non si trova lì per meditare, ossia il cuoco degli esercizi. «Ci vengo a ogni estate – confida sogghignando - per non perdermi questo spettacolo, anche se mi pagano male». La satira fa però solo da scorza a un’opera stratificata e complessa, sovrabbondante di citazioni e allusioni dotte, tanto suggestiva da leggere quanto difficile poi da riassumere senza perderne lo spirito, volutamente barocca anche nel suo rimescolare continuamente, e con compiacimento, realtà e finzione (il riferimento a Borges è esplicito: e forse fu proprio il ritrovarvi insieme, tra gli altri, Borges e Poe a farmela amare così tanto, se ricordo bene il diciottenne che fui). La scena più potente di tutto il libro descrive una sorta di coreografia che vede i partecipanti agli esercizi muoversi ordinatamente avanti e indietro lungo il piazzale antistante l’eremo per la recita del rosario serale, con un continuo trapasso dalle zone d’ombra alle zone di luce di tenore caravaggesco. Ebbene, contemplando questa singolare liturgia, il narratore nota che, pur «nell’abietta mistificazione e nel grottesco» di cui essa è carica, c’era comunque «qualcosa di vero, vera paura, vera pena, in quel loro andare nel buio dicendo preghiere: qualcosa che veramente attingeva all’esercizio spirituale: quasi che fossero e si sentissero disperati, nella confusione di una bolgia, sul punto della metamorfosi. E veniva facile pensare alla dantesca bolgia dei ladri». Se poi qualcuno obiettasse che un ladro che ruba per il partito è meno ladro degli altri, dovrà comunque accettare che fra loro ci fosse quantomeno un vero assassino, o più d’uno, dal momento che proprio durante una di queste preghiere, «in quel posto al confine del mondo, al confine dell’inferno», avverrà il primo omicidio – il che fa di questo romanzo, a ben pensarci, anche la parodia di una sacra rappresentazione.

A contrappuntare continuamente tutta la vicenda, sollevandoci verso un significato simbolico superiore, è il fitto dialogo intessuto, a parole e con gli sguardi, tra il narratore e don Gaetano. Questi, infatti, è un sacerdote sui generis (si presenta come «molto cattivo»), coltissimo, spigliato e dalla conversazione estremamente piacevole, «parlasse del vino o di Arnobio, di Sant’Agostino, della pietra filosofale, di Sartre». Su tutti i suoi ospiti egli esercita un fascino ipnotico, grazie a cui riesce a rigirarseli come meglio vuole. Al suo interlocutore, ideologicamente agli antipodi, offre appunto la «solidarietà nel disprezzo; come a dire: capisco la sua insofferenza, ma guardi come li tratto». É, insomma, uno che la sa lunga, lontanissimo dall’immagine tipica sia del povero curato di campagna che del reazionario beghino. D’altronde i suoi occhiali sono esattamente identici a quelli indossati dal diavolo nel quadro conservato nella cappella dell’eremo, una copia del Sant’Antonio di Rutilio Manetti spacciata come raffigurazione del sedicente san Zafer a cui il luogo è intitolato, ma che naturalmente non è mai esistito, la sua storia essendo stata inventata a fine Ottocento da un farmacista locale a partire da una leggenda popolare. Proprio la lucidità di don Gaetano, tuttavia, se per certi aspetti lo rende degno d’ammirazione agli occhi del narratore, suscita in quest’ultimo anche un’avversione maggiore di quella nutrita per coloro che si sottomettono alla sua autorità. Anche se ama esprimersi per paradossi (le mie certezze, afferma, «sono altrettanto corrosive che i suoi dubbi») e se di lui non si capisca mai bene se parli sul serio o per scherzo, don Gaetano, infatti, sa quello che fa. La sua tesi suppergiù è che la parabola della modernità si sia ormai consumata e che quegli stessi arieti usati un tempo per abbattere la religione oggi tornano utili per supportare la ripresa del sacro. Prendiamo la scienza, per esempio: «che scruti la cellula, l’atomo, il cielo stellato; che ne carpisca qualche segreto; che divida, che faccia esplodere, che mandi l’uomo a passeggiare sulla luna: che fa se non moltiplicare lo spavento che Pascal sentiva di fronte all’universo? (…) E lo spavento cosmico sarà nulla di fronte allo spavento che l’uomo avrà di se stesso e degli altri». A quanti restano dispersi e senza rotta in questo mondo buio la chiesa offre un appiglio: non è, come direbbero i “preti buoni”, «la comunità convocata da Dio», ma solo «una zattera, la zattera della Medusa, se vuole», a bordo della quale, certo, si salveranno, se va bene, il dieci o quindici per cento di quanti vi accorreranno, ma per chi vi resterà fuori proprio non ci sarà scampo. Alle perplessità che la coscienza laica muove a questa visione, don Gaetano risponde «che il laicismo, quello per cui vi dite laici» non è altro, in realtà, che «il rovescio di un eccesso di rispetto per la Chiesa, per noi preti. Applicate alla Chiesa, a noi, una specie di aspirazione perfezionistica: ma standone comodamente fuori. Noi non possiamo rispondervi che invitandovi a venir dentro e a provare, con noi, a essere imperfetti...». Detto altrimenti, “Dio esiste, dunque tutto ci è permesso”.

L’unico antidoto a questa rielaborazione della leggenda del Grande Inquisitore sembrerebbe essere la via cui approda Candido, con la sua rinuncia ad ogni grande racconto mitologico e l’impegno modesto ma implacabile a coltivare il proprio giardino illuminandolo col lanternino della ragione. In effetti, all’inizio della sua permanenza, ascoltando per la prima volta la messa in italiano, il narratore aveva avuto l’impressione di assistere alla dissoluzione del cristianesimo e della sua «maestosa illusione», e ciò lo aveva indotto a meditare, con una certa soddisfazione, sul «passato splendore» della chiesa, «il suo squallido presente» e «la sua inevitabile fine». Tuttavia l’attivismo intelligente di don Gaetano lo mette rapidamente in guardia sul fatto che «tante cose in noi, che crediamo morte, stanno come in una valle del sonno: non amena, non ariostesca. E sul loro sonno la ragione deve sempre vigilare». Un cambio di linguaggio (siamo nei primi anni del post-Concilio) non significa cioè un cambio di sostanza: continueranno, anzi, ad essere garantite adeguate coperture a ogni genere di intrallazzo, purché ci si ricordi sempre di dare a Dio quello che è di Dio - e tutto questo dovrà continuare ad essere denunciato, senza farsi ammaliare dalle apparenti novità (credo che Sciascia nutrirebbe forti sospetti su un papa come Francesco: ovviamente non condivido, ma trovo stucchevole insegnare al non credente come dovrebbe fare il non credente e accetto la provocazione). Quasi di sfuggita al protagonista scappa però anche una sorta di ambigua profezia di cui egli stesso sembra sorprendersi («tante cose avevo perso di vista; di tanti mutamenti non mi ero accorto, di tante novità»). Tra le finzioni elaborate dal cristianesimo nel corso della sua storia bimillenaria e la definitiva baracconata a cui sembra essersi ridotto, le prime offrivano almeno un certo qual senso del mistero, venuto meno il quale la classe dirigente fin qui riparatasi dietro lo scudocrociato si ritrova ormai a gestire solo «una ragnatela nel vuoto, la propria labile ragnatela. Anche se di fili d’oro». Tale esercizio di potere, tollerato finché sorretto da alte motivazioni ideali, sta cominciando ad apparire sempre più insopportabile a chi ne è escluso. Già la scure è posta alla radice degli alberi e si diffonde un gran desiderio di far saltare le teste. Ma non chiamatelo illuminismo – suggerisce l’oracolo: sarà solo una variante di qualunquismo.

(finito il 30 marzo 2021)

Ho parlato di


Leonardo Sciascia
Todo modo
(GEDI 2021)

128 pp. | 8,90 €
Collana "Leonardo Sciascia 100 anni" vol. 2

(ed. or.: 1974)


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