mercoledì 4 agosto 2021

La luna e i falò

Poiché, tra le mie fissazioni personali, accanto a mappe e confini, rientrano anche gli anniversari letterari, non è strano che, in vista dei 70 anni dalla morte di Pavese, abbia deciso di riaprire uno dei suoi libri, che non rileggevo dai tempi del liceo, e che già all’epoca mi aveva colpito moltissimo per la sua profonda stratificazione simbolica (curiosamente, tempo di lettura e tempo della narrazione hanno coinciso: i giorni della Madonna d’agosto).

La luna e i falò è anzitutto un romanzo sulle radici, sulla necessità di averne («un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti») e sul desiderio che ogni uomo prova, a sua volta, «di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione». Questa esigenza è troppo seria per annacquarla in una rappresentazione oleografica del piccolo mondo antico con le sue buone cose di una volta. Tornato nella sua terra natale, trascorsi vent’anni e una guerra mondiale, dopo essersi spinto fino in fondo all’America per scoprire che anch’essa «finiva nel mare», che il mondo è rotondo e «tutte le carni sono buone e si equivalgono», il narratore – noto solo con l’antico e sfuggente soprannome di Anguilla – si ritrova felicemente travolto da tutto il vissuto risvegliatosi in lui «al tintinnio di una martinicca, al colpo di coda di un bue, al gusto di una minestra, a una voce che senti sulla piazza di notte»: girando fra le vigne, come in una personalissima recherche, dice fra sé e sé «io sono scemo (…) da vent’anni me ne sto via e questi paesi mi aspettano». Persino la predica del parroco non gli dispiace più («così sotto quel sole, sugli scalini della chiesa, da quanto tempo non sentivo più la voce di un prete dir la sua»), poiché anche la religione non è altro che coreografia, come accade in tante feste patronali di campagna. «Più le cose e i discorsi che mi toccavano eran gli stessi di una volta – delle canicole, delle fiere, dei raccolti di una volta, di prima del mondo -, più mi facevano piacere. E così le minestre, le bottiglie, le roncole, i tronchi sull’aia».

A ricordargli che quelle colline incantate sono però anche piene di mostri e «cose nere», di cinghie, di miseria e di rabbia, ci pensa il vecchio amico Nuto, uno che da giovane aveva fama di giramondo, dal momento che, suonando il clarino nelle orchestrine, aveva attraversato addirittura tutta la vallata fino a Canelli, ma che poi si era sposato, aveva messo su famiglia e una bottega di falegnameria, e non si era più mosso da lì, a differenza dell’antico sodale. Certo – sembra dirgli – la Langa è meravigliosa per venirci in vacanza come fai tu ora (perché Anguilla, in effetti, si è stabilito a Genova), altra cosa è viverci: se così non fosse, perché mai te ne saresti andato? L’aver ora qualche soldo da parte ti ha fatto dimenticare cosa voleva dire essere un servitore e un bastardo qual eri tu, trovatello senza famiglia e «senza nome»? Ecco, queste cascine sono ancora piene di «meschini» che fanno una «vita bestiale, inumana». Con la guerra, per un momento, il mondo ha fatto irruzione in questa remota periferia, svegliando «i miserabili del paese», costringendo anche i «più tonti» a prendere coscienza del fatto che quella che a loro appariva come una condizione naturale immodificabile era in realtà il frutto di un’ingiustizia e un sopruso dei prepotenti; poi - «passata la grandine» si era tornati a credere a quegli stessi prepotenti di prima, sbucati nel frattempo fuori «dalle cantine, dalle ville, dalle parrocchie, dai conventi», e a pensare, su loro istigazione, che «tutti i partigiani erano degli assassini». Insomma, chiede Nuto all’amico, che cosa ci trovi «in questi paesacci»?

Queste due voci si rincorrono ininterrottamente per tutto il romanzo, a volte sovrapponendosi, a volte contrastandosi: l’una sussurra con rammarico che in fondo tutto è rimasto uguale; l’altra, con altrettanto rammarico, conclude che invece tutto è cambiato. Il proposito di reimmergersi nel mondo perduto dell’infanzia risulta velleitario perché quel mondo, in realtà, non è mai veramente esistito, essendo più che altro il prodotto di una ricostruzione tendenziosa della memoria. Non meno illusoro è però pensare di trasformare ciò che quel mondo davvero è, come gli eventi recenti sembrerebbero dimostrare, perché «tutto sommato solo le stagioni contano (…) e sulle colline il tempo non passa». Ciò non impedisce, tuttavia, che, grazie all’interessamento dei due amici, almeno un “meschino”, un ragazzino storpio di nome Cinto, sopravvissuto a una sanguinosa tragedia familiare, trovi una sistemazione e una possibile via d’uscita a un’esistenza altrimenti senza sbocchi: in questo caso il rogo della sua casa e la morte violenta dei suoi parenti diventa davvero, come nei tradizionali falò di san Giovanni, occasione di rigenerazione. Per un momento, è come se Pavese avesse individuato un punto d’equilibrio tra ragione e destino, impegno e disincanto, vicinanza e lontananza, permanenza e fugacità, territorialità e cosmopolitismo, mito e storia (per me questa è la grande promessa della provincia, dove, al netto di tutte le sue piccinerie, una vita più umana è ancora praticabile). Si tratta, però, di un attimo appena. Spesso il fuoco divora e basta, lasciando solo cenere, come ricorda la chiusa, assai più amara, del romanzo.

(finito il 15 agosto 2020)

Ho parlato di


Cesare Pavese
La luna e i falò
(Einaudi, 1999)

140 pp. | 18.000 lire

(ed. or. 1950)

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