martedì 17 agosto 2021

Il compagno

In pieno trip pavesiano, dopo La luna e i falò, ho subito ripescato dalla mia biblioteca personale quest’altro libro, anch’esso già presente sin dai tempi del liceo (fa fede il prezzo in lire), ma a differenza dell’altro non ancora letto, forse perché, dopo averlo comprato, lo sentii liquidare dal professore di italiano fra i testi che Pavese avrebbe scritto più per senso del dovere che per reale ispirazione (credo che lui ritenesse che il Pavese autentico fosse quello “mitico”, non quello soffocato nelle maglie del realismo per esigenze di partito). Effettivamente qui lo spunto è scopertamente politico: provare a mostrare per quali vie un uomo qualunque, appartenente alla schiera dei tanti che “per sé fuoro” e con la loro conformistica e indifferente acquiescenza avevano garantito la durata del regime, fosse potuto poi passare all’opposizione, ancor prima dell’8 settembre. Ne è uscito un racconto nettamente spaccato in due, per temi, atmosfere e ambientazione.

Introdotta da un incipit vagamente melvilliano («mi dicevano Pablo perché suonavo la chitarra»), la prima parte scansiona i malesseri di un tabaccaio della provincia torinese, un giovane adulto – diremmo noi oggi – stufo della vita che conduce e tuttavia incapace di trovare altra sistemazione soddisfacente, spesso tentato dall’idea di trasformare la ribotta in professione, trattenuto però sempre dalla sensazione piccolo borghese che quello di musicista nelle balere in fondo non sia davvero un mestiere. A ingarbugliargli ulteriormente la vita compare un giorno Linda, ragazza intraprendente ed emancipata, di cui lui ovviamente si innamora come un adolescente («era come avessi messo le radici nel suo sangue», «Linda l’avevo nella pelle come il sangue»), ma che, pur ricambiandone l’affetto, non ha nessuna voglia di legarsi e di essere la sua ragazza sempre («devi abituarti alla mia vita. Io non voglio dipendere da te né dagli altri»). Che ci sia la dittatura, il fascio, ma cosa volete che gliene importi a Pablo? Il suo mondo gira intorno ai tira e molla di Linda e alla prostrazione che questa instabilità gli comporta. Alle volte gli capita di svegliarsi di colpo e poi di restare a lungo nel letto. «Mi pareva di averci un grosso affanno e di essere come un bambino, più solo di un cane, aver fatto qualcosa di brutto e di senza speranza. Non avevo più scampo, non osavo sentirmi, avrei voluto non svegliarmi e morir lì». É capitato a tanti di passarci, così come è capitato a tanti di sciogliere questa inerzia in invettive da zerbino incattivito: «pensavo come sono le donne. (…) Anche Linda. Se per loro ogni uomo è davvero lo stesso, tanto varrebbe che si dessero a uno solo, che gli andassero dietro come il cane al padrone. E invece no, vogliono sempre avere la scelta, e la scelta la fanno mettendoli insieme, giocando con tutti, cercando in tutti un tornaconto. Così stan male tutti quanti, e anche loro alla fine non hanno un amico». Se la storia si interrompesse qui, sarebbe la cronaca di una disperazione irrisolta, un girare a vuoto come nelle nottate passate da Pablo in compagnia di un paio di amici a cantare completamente ubriachi per strada, provando quel «piacere di sentirsi a terra, di esser come schiacciato e non cedere». Nessuna via d’uscita: condizione drammatica, eppure – si sente – profondamente sincera. 

Poi, d’improvviso, uno scatto, quasi un moto involontario di sopravvivenza. Bisognoso di cambiare aria, Pablo coglie un’occasione che gli si presenta per andare a Roma a cercare lavoro. Agli occhi di un piemontese, la capitale appare come «una grande città dove tutti ci mangiano e dànno da mangiare. (…) Roma è osteria, e ci fa sempre sereno. (…) Dappertutto la gente è a merenda, che gode». «L’aria di Roma è proprio fatta per star svegli», lì l’estate «non finisce mai» e per un musicista come lui non sarebbe tanto difficile tirare giù un guadagno suonando stornelli ai tavolini dei locali. Ma Pablo preferisce fare il manovale e qui, a contatto con le persone che entrano nella sua vita e che a poco a poco lo includono in discorsi che non è opportuno fare in pubblico, avviene una maturazione umana che è prima di tutto una maturazione civile. Non è un processo immediato, perché il nostro parte proprio da zero e spesso cade dalle nuvole quando gli altri ammiccano. Per intenderci, quando un militante appena rientrato dalla Spagna (siamo ai tempi della guerra civile) gli chiede «com’è che sei Pablo? Sei stato laggiù?», la risposta è «macché. Suonavo la chitarra». E a chi incalza: ma a Torino non parlavi di quello che succede in Italia? «Che Torino. Sapevo appena ballare» (a quanto pare, sotto la Mole non erano tutti iscritti a GL). Superate le diffidenze iniziali, il ragazzo che prima sfogliava i giornali giusto per dare un’occhiata alle pagine sportive comincia a informarsi, a leggere i testi clandestini che gli passano sottobanco, e più si informa più capisce tante di quelle cose che prima non pensava neanche fossero da capire, ma che fossero semplicemente così e basta. Le sue nuove convinzioni sono condivisibilissime («per capire le cose bisogna studiare, non le sciocchezze che insegnavano a scuola a noialtri, ma com’è che si legge il giornale, com’è fatto un mestiere, chi comanda il mondo. Si dovrebbe studiare per saper fare a meno di quelli che studiano. Per non farsi fregare da loro»), eppure – rispetto alla sofferta amarezza dei primi capitoli – queste dichiarazioni sanno un po’ di posticcio, come accade quando ci si preoccupa un po’ troppo di spiegare la morale della favola. Perché in fin dei conti non si capisce bene esattamente com’è che Pablo elabori davvero la sua conversione fino a riconoscere che «quei rossi erano miei». Lo scandaglio interiore sembra avere meno corda a disposizione per questo genere di esplorazione e la sensazione (a cui forse certi inserti didascalici vorrebbero porre rimedio) è che quella di Pablo sia una scelta dettata dal bisogno di trovare un posto nel mondo, dei legami solidi (compresi quelli con un’altra donna), un riconoscimento, piuttosto che da una autentica adesione ideologica. Il che, peraltro, rende forse il romanzo persino più interessante e moderno di quanto potrebbe apparire a prima vista.

A leggerlo oggi, in effetti, non ci si rispecchia forse molto nella conquista di una propria identità politica da parte del protagonista (il cui sviluppo, peraltro, è aperto, perché il romanzo si chiude prima ancora che cominci la guerra, e chissà se l’avranno poi ammazzato, Pablo, o se è ancora vivo). Colpiscono molto, invece, gli accenni a come lui e tutti i suoi coetanei siano sprofondati nel totalitarismo. Quando si risveglia dal sonno autoritario, quasi quarantenne, Pablo si rende conto che non sa ben ridir come v’erano entrati, in quella selva - che non sa davvero nulla di com’erano andate le cose nel 1920 e nel 1921. «Eravamo ragazzi. (…) Non si è capito, a quell’età, quel che successe». Purtroppo le cose non cessano di accaderci continuamente sotto il naso, ma ci vogliono magari vent’anni perché tutti riescano a vederle. Ne sanno qualcosa a Kabul.

(finito il 23 agosto 2020)

Ho parlato di


Cesare Pavese
Il compagno
(Einaudi, 1990)

162 pp. | 13.000 lire

(ed. or. 1947)

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