lunedì 7 ottobre 2019

25 aprile 1945

Costruito più come un film che come un canonico testo di storia – o meglio ancora come una puntata di Blu Notte, con frequenti cambi di scena, flashback and flashforward, una voce narrante che tiene insieme le diverse sequenze e racconta più volte gli stessi episodi attraverso testimonianze diverse portatrici di punti di vista complementari, questo libro non è solo e non è tanto una cronaca di quanto accadde il 25 aprile, quanto un tentativo di descrivere il retroterra che rese possibile quel giorno, così da restituire uno spaccato, anzitutto esistenziale, raccolto dalla viva voce dei protagonisti, di quegli ultimi nove mesi della Resistenza in cui si produsse il travaglio della Liberazione. Perché tale, in effetti fu: se non ci si lascia ingannare dalla distorsione prospettica secondo cui non poteva che finire così, quel percorso non risultò affatto lineare, ma fu attraversato da tensioni e crisi profonde, momenti di angoscia in cui più volte tutto sembrò sul punto di essere perduto. «Il senso di sfida, di dramma, in certi periodi anche di tragedia o di scoraggiamento che caratterizzano la concreta esperienza storica, può essere compreso solamente rinunciando al senno del poi, avvicinandoci per quanto possibile al punto di vista dei protagonisti che, ovviamente, non sapevano come sarebbe andata a finire» (sono parole dello storico Santo Peli riprese qui da Greppi). 

La stessa unità antifascista appare tutt’altro che scontata, in quel contesto, perché le visioni del mondo dei resistenti non erano pienamente coincidenti. Lo dimostrano, tra l’altro, le dissonanze fra i tre uomini che guidarono le operazioni nell’Italia occupata dai nazifascisti e che sono poi i tre principali protagonisti di questo racconto, vale a dire Parri, Longo e Cadorna, al quale – in particolare – il libro dedica una specifica attenzione, anche perché l’autore è un suo nipote che deve aver pensato fosse giunto il momento di restituirgli il dovuto spazio fra i padri della repubblica (ed è un merito: io vergognosamente non ne sapevo nulla). Le mani che si stringono, negli incontri clandestini, «sono mani sincere, di uomini pronti a tutto pur di spazzare via i nazifascisti, sono strette di mano che uniscono, senza dubbio, ma che possono anche avere mille significati nascosti: innanzitutto sondare quanta forza ci mette l’altro, nella stretta». Ma proprio la fragilità della lotta antifascista, l’essere il frutto di difficili e precari compromessi, la rende ancora più significativa, perché ne svela il carattere non ideologico e perché dimostra, se ce ne fosse ancora bisogno, che la prassi e la condivisione possono spesso avvicinare ciò che la teoria separa. 

La scena madre intorno a cui gira tutta quanta la ricostruzione è l’incontro tra gli emissari del CLNAI, da una parte, Mussolini e i suoi, dall’altra, avvenuto nelle stanze dell’arcivescovado di Milano, nel tardo pomeriggio del 25 aprile – anche se a incuriosire è soprattutto il racconto dell’ora che precede quell’incontro, quando il Duce e il cardinale Schuster intrapresero una discussione del tutto surreale, date le circostanze, su temi come il rito ambrosiano e le chiese ortodosse: «provai un senso di maraviglia, constatando la scarsa cultura religiosa di un uomo che aveva avuto in mano le sorti della Cattolica Italia», commenterà più tardi il prelato (con parole adatte anche per gli aspiranti ducetti contemporanei), dai cui ricordi emerge chiaramente il desiderio di poter strappare in extremis un segno di conversione al suo interlocutore, descritto non senza simpatia come un Napoleone ormai approdato nella sua Sant’Elena. Se di questo tete-a-tete, però, abbiamo solo la versione di Schuster, della riunione che segue possediamo invece molti resoconti, sostanzialmente coerenti l’uno con l’altro. I fascisti ci arrivano illudendosi di poter dettare ancora le loro condizioni, ma i partigiani non transigono: la parola d’ordine è “arrendersi o perire”. 

Quando scoprono che in realtà tedeschi stanno già trattando la resa separatamente, i repubblichini danno di matto – o fingono solo di farlo, non è chiaro. Mussolini stesso promette che andrà finalmente a dirgliene quattro al capo delle SS, perchè non si può più tollerare l’atteggiamento di superiorità con cui i nazisti li hanno sempre trattati, e che nel giro di un’ora sarebbe tornato con la sua risposta definitiva – ma forse è solo l’ennesima sceneggiata dal grande istrione romagnolo. Il vertice si chiude infatti con una sua frase «che assomiglia tanto a quella, consumata dalla cultura popolare, di chi esce di casa dicendo: “Vado a comprare le sigarette”. E non torna più». Fino a qualche giorno prima, Mussolini, in Valtellina, arringava gli irriducibili disposti ancora a morire per lui; alla prova dei fatti, ciò che gli interessa è solo garantirsi un minimo margine di vantaggio per coprire il suo maldestro tentativo di fuggire in Svizzera, e chi si è visto si è visto. Chissà, se si fosse arreso avrebbe potuto salvarsi la pelle. «Forse – ma non lo sapremo mai – il duce sarebbe sopravvissuto a un processo. Tutti tendono a chiedersi come sarebbe andata se fosse tornato o non fosse mai uscito da quella stanza, se qualcuno avesse tirato fuori una pistola, a un certo punto, se ci fossero stati dei rappresentanti dei partiti di sinistra» (come Pertini, che più tardi avrebbe raccontato di essersi fiondato in arcivescovado non appena messo al corrente della riunione, per assicurarsi che Mussolini non si allontanasse ed anzi venisse subito giustiziato). Quel che è certo è che «quando i fascisti, dopo essere sbottati, se ne vanno, l’impressione è che non si rendano minimamente conto della rovina che un ventennio di regime, tre anni di guerra fascista e due di guerra civile hanno gettato sull’Italia. L’impressione è che pensino ancora una volta solo ed esclusivamente a loro stessi. Alla loro salvezza, al loro – continuamente sbandierato – “onore”». 

Ma l’onore di chi, poi, e di che cosa? Forse che perseverare ostinatamente nell’errore deve essere considerato un titolo di merito? Mi ha colpito, nei documenti prodotti dalla Resistenza in quel breve giro di mesi, l’insistenza continua sulla parola “patria”, una parola che di primo acchito non assoceresti alla lotta partigiana. Averla ceduta con troppa disinvoltura alla destra è stato un errore dei decenni successivi. Qui, invece, quasi ad ogni riga si percepisce il senso di una vergogna nazionale da riscattare e l’esigenza, anzitutto morale, di mostrare al mondo che c’era anche un’altra Italia che non era stata fascista, non si era piegata e aveva tenuto accesa una fiammella nell’oscurità scesa non dopo l’8 settembre, ma sin dal 28 ottobre 1922: perché è lì, con la connivenza del re e di tanti volenterosi collaborazionisti, che la patria, se non era morta, era andata in coma profondo. Andrebbe rispolverato questo patriottismo non muscolare, popolare ma non reazionario, intransigente nel chiedere anzitutto il meglio a se stessi e desideroso di corrispondere a quel deposito che custodisce quanto di grande la nostra storia e la nostra terra ci hanno consegnato, perché ne fossimo degni – tutto il contrario, cioè, del nazionalismo da vetrina di chi fa l’alzabandiera tutti i giorni, ma è assai indulgente sui nostri difetti e usa strumentalmente, spesso senza neanche conoscerli, i miti del passato per giocare solo a chi ce l’ha più lungo con gli inglesi o con i francesi. E tutto il contrario del nazionalismo narcisistico di Mussolini, che arrivò ad odiare gli italiani perché alla fine non avevano assecondato come lui avrebbe voluto le sue ambizioni personali. 

Disse Parri, in un discorso tenuto appena una settimana dopo la fine della guerra: «la vittoria ci ha procurato qualche cosa che è difficile dire, ha elevato la dignità personale a dignità nazionale ed ha provato, cosa più importante e capitale per noi, che essa è stata ottenuta non per congiure di corridoio ma è stata conquistata dal popolo, attraverso una sua guerra per la liberazione, una guerra di popolo che mi sembra, me lo confermino gli amici storici, la prima della nostra storia nazionale». Certo, come in tutte le vicende umane, anche qui ci sono stati opportunismi, errori e anche malefatte: il peggio che si può fare quando si vuole riconoscere un merito a qualcuno è dire che non ha macchie, perché non lo si rende credibile. Ma quell’impresa, pur se contraddittoria, ha indicato chiaramente una direzione concreta, non priva di rischi, tuttavia praticabile – che ha poi prodotto bene o male l’Italia che amiamo e che continueremo ad amare, in cui sono felice di essere nato, cresciuto e restato. «Questo popolo risanato dà garanzia che saprà difendere un bene che è costato tanto sangue. (…) Il cammino da percorrere è ancora lungo e duro; sarà pieno – certamente – anche di delusioni; ma quella che intendiamo battere è l’unica strada. Battiamola, vi garantisco che ne vale la pena e che se sapremo lavorare questo può essere l’inizio del nostro secondo Risorgimento». Gli farà eco, qualche anno dopo, Cadorna: «ricordando, amici, la storia della Resistenza, non abbiamo nulla da rivendicare, nulla da insegnare, nessun giudizio da chiedere. Ma i nuovi devono sapere quello che è stata l’Italia in un momento alto della sua storia; veramente, credo, il più alto nel quale questo popolo nostro è riuscito a organizzare un’insurrezione popolare e insieme nazionale. Ecco perché la storia di questo momento è così importante. (…) In realtà, ogni giorno, la storia di un popolo pone problemi nuovi ed ogni giorno ha una liberazione da compiere. (…) La sua storia [della Liberazione] è così importante perché educa a queste scelte». Ed è forse anche per questo che il 25 aprile, e solo il 25 aprile, quando parte la fanfara, mi vengono sempre i granet, pensando a quel che è stato fatto, a chi è caduto perché fosse fatto, e a quanto ancora (e tanto) resta da fare.

(finito il 9 giugno 2019)

Ho parlato di



Carlo Greppi
25 aprile 1945
(Laterza, 2019)

252 p. | 18 €

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