mercoledì 25 settembre 2019

La ragazza con la Leica

Ho già accennato al fatto che periodicamente sento il bisogno di rituffarmi nella Spagna della guerra civile. Le ragioni sono tante: perché fu un palcoscenico calcato da personaggi più straordinari di quelli che si potrebbero inventare degli sceneggiatori di professione; perché vi si scatenarono passioni non sempre condizionate dalla necessità, ma animate da fortissimi ideali; e anche – non da ultimo – perché finì male, monito perenne contro l’ingenuità di pensare che la buona causa basti a garantire la vittoria. Non credo, peraltro, di essere il solo a pensarla così, se è vero come è vero che quelle vicende continuano a suscitare l’interesse di coloro che i libri li scrivono e li leggono. Questo della Janeczek ha avuto anche i suoi quindici minuti di gloria, l’anno scorso, grazie alla vittoria allo Strega. Ed effettivamente la storia che racconta pare proprio una di quelle che cerco io: la vita spericolata e tragicamentre breve di Gerda Taro, che poi sarebbe una delle due metà celate dietro lo pseudonimo del fotoreporter Robert Capa, assunto poi definitivamente dal suo compagno d’arme, d’amore e d’avventura dopo la morte di lei, appena ventisettenne, in seguito a un incidente occorsole, appunto, durante la guerra civile spagnola. All’anagrafe si chiamavano in realtà lei Gerta Pohorylle, lui Endre Erno Friedmann, tedesca di origine polacca l’una, ungherese l’altro, comunisti entrambi, e per questo in fuga dai regimi nazifascisti dei rispettivi paesi, geniali nel comprendere quanto potesse essere utile alla causa il loro occhio e la loro macchina fotografica. 

“Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira?”: dai ricordi liceali affiora in esergo un Cavalcanti più che mai adatto a restituire il senso di queste pagine, di cui offro un piccolo campionario. «Era spiazzante, Gerda», «questa piccola donna che attrae tutti gli sguardi, questa incarnazione di eleganza, femminilità, coquetterie, di cui nessuno sospetterebbe mai che ragiona, sente e agisce come un uomo». «Era volubile e volitiva, un metro e mezzo di orgoglio e ambizione, senza i tacchi». «Era irrequieta nel suo modo naturale, sola e minuscola rispetto al flusso delle liceali, era l’autonomia fatta persona», «sempre reattiva e incoraggiante e, va da sé, circonfusa di chic e charme come una creatura di un mondo a parte». «Era la gioia di vivere. Qualcosa che esisteva, si rinnovava, accadeva ovunque» e che «non sarebbe mai rientrata negli schemi di nessuno». Ed è un peccato che «oggi nessuno sa più chi è Gerda Taro. Si è persa traccia persino del suo lavoro fotografico, perché Gerda era una compagna, una donna, una donna coraggiosa e libera, molto bella e molto libera, diciamo libera sotto ogni aspetto». Sì, se non lo si fosse capito, Gerda è il motivo per leggere questo libro. Ma forse è anche l’unico motivo. Come quegli attori che riescono con la loro interpretazione a rendere passabili film altrimenti mediocri, così la sbarazzina Gerda che ti fa l’occhiolino in copertina brilla di luce propria al cuore di un romanzo il cui merito è davvero solo quello di averla fatta conoscere ai distratti come me che prima di lei non sapevano nulla. A fine lettura, la sensazione è un po’ quella che si può provare dopo aver visto certe fiction di Rai Uno – quelle, per intenderci, giocate sui flashback e in cui tutta la parte inventata è superflua rispetto al reale vissuto - quando cioè ti chiedi: ok, e adesso dove devo andare a cercare per saperne davvero qualcosa? Mi chiedo se non fosse stato meglio tentare la strada della vera e propria biografia, tanto più che in italiano non ce ne sono. Insomma, non è che bisogna sempre far di tutta l’erba un romanzo, tanto più se si padroneggiano meglio altri registri. Non a caso le due sezioni più riuscite del libro sono il prologo e l’epilogo, in cui l’autrice riprende la propria voce e licenzia due gradevoli saggi che traggono spunto da alcuni ritratti dei due amanti e indagano il rocambolesco percorso cui quelle foto sono andate incontro dal momento del loro sviluppo sino al loro ritrovamento. Alla parte più propriamente narrativa manca, invece, oltre all’invenzione letteraria, quella profondità di sguardo che consente alla ricostruzione storica, sia pure filtrata romanzescamente, di diventare efficace strumento interpretativo, anziché un concentrato di rimandi con cui si vorrebbe ricostruire un ambiente ma che finisce spesso per risultare stucchevole e artefatto. 

Certo, c’è l’alibi narrativo per cui la storia è rievocata da tre persone che hanno conosciuto Gerda (due ne sono stati anche amanti o presunti tali, in fasi diverse della sua vita) e per i quali il ricordo di lei si mescola col ricordo della loro giovinezza fino a confondersi in un mito che la riduce un po’ a santino e annebbia la memoria («che è una forma di immaginazione», si ricorda quasi in chiusura). Ma più che una finezza, questa sembra una scappatoia per mantenersi sul vago e non impegnarsi in un autentico tentativo di decifrare, attraverso Gerda, quel che sono stati quegli anni. Per quanto un’idea chiara, comunque, venga fuori, e cioè che la rivoluzione deve anche essere divertente e non la si possa fare solo con i comizi e le riunioni di sezione, ma pure con la curiosità, una certa dose di impertinenza e forse pure di scemenza. «Se il comunismo al cinema è un po’ noioso, i reazionari vinceranno sempre». Gerda, al contrario, è un vulcano in eruzione, fedele alla linea, sì, ma capace anche «di non voltarsi indietro e, al tempo stesso, non rinnegare nulla». Se non fosse morta in Spagna, sarebbe stata perfettamente a suo agio – si dice – tra i tavolini di Via Veneto al tempo della Dolce Vita come lo era stata nei locali della Montparnasse degli anni ‘30. «Per Gerda, un mondo guarito dalla disuguaglianza avrebbe dovuto realizzare anche il diritto universale al superfluo». La buona battaglia ha, cioè, un che di leggero – ed assume perciò un valore esemplare che sia stato proprio un pesantissimo carro armato a squartare il corpicino esile di questa ragazza che usava la Leica contro il fascismo come un tempo Davide aveva usato la fionda contro Golia. In questo modo, «Gerda tracciava un possibile percorso per il fronte unitario della sinistra, spensierata per natura, speranzosa per principio». Siamo addirittura alle dichiarazioni programmatiche. Ma quando ti ritrovi a dover spiegare le barzellette è segno che probabilmente non le hai raccontate troppo bene.

(finito il 10 maggio 2019)

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Helena Janeczek
La ragazza con la Leica
(Guanda, 2017)

336 p. | 18 €

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