mercoledì 19 giugno 2019

La conquista dell'America

L’ultimo libro concluso nel 2018 (perché, se Dio vuole, sono arrivato alla fine dell’anno), curiosamente, è stato anche il primo che ho cominciato, ancora nel 2017. Tempi così lunghi hanno però una ragione ben precisa: avendoci costruito sopra il mio periodico corso all’Issr, su queste pagine mi ci sono mosso avanti e indietro per tutto l’anno, prima di decidermi a metterlo da parte. E dirò di più. Son ben contento di scriverne ora, concluso il primo giro di esami, perché il confronto con gli studenti ha contribuito ad arricchire il mio giudizio, facendomi fare una vera e propria esperienza di lettura aumentata. 

Ispirato dal principio per cui la realtà supera l’idea, da Todorov ho ripreso lo spunto secondo cui, se si vuole parlare «della scoperta che l’io fa dell’altro» nella modernità, ha più senso partire, come fa lui, da una «storia esemplare», in cui le modalità di relazione siano presentate per come concretamente sono state sperimentate, anziché attraverso una fenomenologia costruita a tavolino e piena di buone intenzioni. Quale sia questa storia è praticamente ovvio: l’incontro tra europei e americani, rimasti estranei gli uni agli altri fino al 1492, è infatti «l’incontro più straordinario della nostra storia», un incontro consegnato ormai al passato, ma che al tempo stesso «annuncia e fonda la nostra attuale identità», fornendoci delle coordinate utili per capire meglio il presente e anche per guidare la nostra azione nel futuro. Todorov, del resto, lo esplicita chiaramente che scrive da «moralista», più che da «storico» (o, per meglio dire, scriveva, visto che il libro è del 1982). E se parla di “conquista” e non genericamente di “scoperta”, non è certo un dettaglio irrilevante. 

Che poi, scoperta. Di Colombo si dice che «ha scoperto l’America, non gli americani», in quanto considera questi ultimi una mera estensione del paesaggio, poco più che pappagalli, e perciò non si preoccupa di stabilire una reale comunicazione con loro. Anche perché lui “sa” già quello che deve trovare oltreoceano, dal momento che l’ha letto in Marco Polo e nelle altre fonti che stimolarono la sua impresa: l’esperienza è per lui solo il luogo della conferma di un ordine dato (ed è ciò in cui più si mostra un uomo medievale). Tant’è che, a rigore, Colombo non “scopre” neanche l’America, perché non rinuncerà mai alla sua convinzione di essere arrivato per davvero in India, secondo i suoi piani. Il suo omologo speculare, ma molto meno fortunato, è Moctezuma, tradito da quel tratto caratteristico dell’orizzonte simbolico azteco secondo cui «il presente diventa intelligibile, e al tempo stesso meno inammissibile, a partire dal momento in cui si può vederlo già annunciato nel passato»: proprio ciò che gli impedisce di riconoscere l’assoluta novità rappresentata dall’arrivo dei conquistadores, evento troppo inaudito per essere ricondotto al già noto. 

Meglio di tutti e due, paradossalmente, si comporta Cortés, il primo a preoccuparsi di una cosa che a Colombo non passa neanche per la testa – cercarsi, cioè, interpreti e intermediari con l’aiuto dei quali raccogliere quante più informazioni possibili per pianificare un’adeguata strategia di conquista. Nel far questo, egli mostra un’agilità di spirito che per Todorov potrebbe discendere dalla peculiarità degli europei di essere «gli eredi di due culture: la cultura greco-romana da un lato, e la cultura giudaico-cristiana dall’altro. (…) In modo cosciente o no, il rappresentante di tale cultura è costretto a procedere a tutta una serie di aggiustamenti, di traduzioni e di compromessi talvolta difficilissimi, che gli permettano di sviluppare lo spirito di adattamento e di improvvisazione, destinato a svolgere un ruolo decisivo nel corso della conquista. Lungi dall’essere egocentrica, la civiltà europea di allora è “allocentrica”: da lungo tempo, il suo luogo sacro per eccellenza, il suo centro simbolico, Gerusalemme, è non soltanto esterno al territorio europeo, ma soggetto a una civiltà rivale». Il motore dell’Europa è la sua intrinseca pluralità, che ci rende mediatori per vocazione, nel bene e nel male - e basti questo a svelare l’inganno degli odierni sovranismi. 

Il problema, si diceva, è che la comprensione della diversità, per Cortés, è funzionale all’obiettivo della sottomissione: l’altro è conosciuto, forse, ma non stimato («simile al turista d’oggi, che, quando viaggia in Africa o in Asia, ammira la qualità dell’artigianato senza che lo sfiori nemmeno l’idea di condividere la vita degli artigiani che producono quegli oggetti, Cortés va in estasi davanti alle produzioni azteche, ma non riconosce i loro autori come individui umani da porre sul suo stesso piano»). Chi invece stima, anzi ama, gli indios, ma forse non li conosce, perché li idealizza ridimensionandone le specificità in nome di un principio di fraternità universale è, per Todorov, il pur ammirevole Las Casas: infatti, «se il pregiudizio di superiorità è indiscutibilmente un ostacolo sulla via della conoscenza, si deve riconoscere che il pregiudizio di eguaglianza rappresenta un ostacolo ancora maggiore, perché porta ad identificare puramente e semplicemente l’altro con il proprio “ideale di sé” (o con il proprio io). (…) Il postulato d’eguaglianza sbocca in un’affermazione di identità, e la seconda grande figura dell’alterità, anche se indiscutibilmente più simpatica, ci fornisce una conoscenza dell’“altro” ancor minore di quella fornitaci dalla prima». 

Sembra non esserci via d’uscita: se distinguo, è per sottomettere; se uguaglio, è per assimilare. E difatti è andata più o meno così. Alle civiltà del sacrificio, che tanto inorridirono i primi colonizzatori, si è sovrapposta una civiltà del massacro che ha posto le premesse della moderna società del “massacrificio”: «come nelle prime, vi si professa una religione di Stato; come nelle seconde, il comportamento di ognuno si fonda sul principio karamazoviano del “tutto è permesso”. Come nelle società del sacrificio, si uccide anzitutto a casa propria; come nelle società del massacro, si occulta o si nega l’esistenza di queste uccisioni. Come nelle prime, si scelgono individualmente le vittime; come nelle seconde, lo sterminio è compiuto senza alcuna idea rituale. Il terzo termine esiste, ma è peggiore degli altri due; che fare?». Insomma, gli orrori del Novecento non sono figli bastardi della modernità, ma il compimento di un percorso che affonda qui le sue radici, in un genocidio di cui non abbiamo piena consapevolezza. La nostra civiltà ha avuto la sua grande occasione storica quando ha incontrato gli indios – e l’ha persa. Già se n’era accorto, ben per tempo, Montaigne: che progresso sarebbe stato per l’umanità, se avessimo avviato una reale collaborazione con questi popoli giovani e promettenti; ma questo mondo fanciullo, noi lo abbiamo soffocato nella culla. Oggi la storia ripresenta il conto in altre forme. «Noi siamo simili ai conquistadores, e siamo da loro diversi; il loro esempio è istruttivo, ma non saremo mai sicuri che, non comportandoci come loro, non li imiteremo adattandoci alle nuove circostanze». S’impone, dunque, un surplus di riflessività, per andare oltre l’autoconsolatoria convinzione secondo cui noi, ovviamente, avremmo agito in modo totalmente diverso da quei disgraziati degli spagnoli: l’attenzione estrema a non commettere gli stessi errori può impedirci di vedere che ne stiamo facendo degli altri. Di conto all’omologazione che annulla le differenze e all’esasperazione della diversità che esclude la convivenza, oggi tutta la creazione attende con impazienza l’uguaglianza senza rinunciare all’identità e il riconoscimento della differenza senza una gerarchia. In una parola, «vivere la differenza nell’uguaglianza». Ma davvero è così difficile?

(finito il 31 dicembre 2018)

Ho parlato di


Tzvetan Todorov
La conquista dell'America.
Il problema dell'«altro»
(Einaudi, 2014)

trad.  di A. Serafini

322 pp. | 13 €

(ed. or.: La conquete de l'Amerique. La question de l'autre, 1982)

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