venerdì 17 agosto 2018

La fine degli Incas

Non nascondo che di episodi del passato a cui mi piacerebbe assistere dal vivo, se avessi a disposizione la macchina del tempo di Zapotec e Marlin, ce ne sarebbero a bizzeffe, nonostante il rischio altissimo di delusione a cui ci espone l'ordinarietà del reale, specie se commisurata con le aspettative suscitate dalla mediazione di fonti storiche che spesso sono riuscite a superare i secoli proprio perché hanno romanzato un po' i fatti. Ciò detto, un saltino a Cajamarca lo farei ugualmente. Non tanto la Cajamarca odierna – che per ragioni logistiche è persino rimasta fuori dalle rotte quando in Perù ci sono andato sul serio, in viaggio di nozze. No, oggi non ci sarebbe poi molto da guardare. Quella notte, però, ah, quella notte, «pochi dormirono; restammo di guardia sulla piazza, dalla quale si potevano vedere i fuochi dell'accampamento dell'esercito indigeno. Era uno spettacolo pauroso. Molti fuochi apparivano vicini gli uni agli altri sul fianco della collina: sembrava di vedere un cielo sfavillante di stelle». 

Chi parla è uno dei 168 spagnoli (bene o male tutti farabutti, guidati da un analfabeta) che, partiti da Panama con la bava d'oro alla bocca e inoltratisi per oltre 2000 km sui bricchi delle Ande, avevano finito per tagliare la strada a un'armata forte di decine di migliaia di uomini, guidata nientemeno che dall'Inca Atahualpa, fresco vincitore sul fratello Huascar nello scontro per la successione al padre Huayna Capac (ucciso, pare, da uno dei conquistadores più letali: il bacillo del vaiolo, giunto nel Nuovo Mondo con le navi di Colombo, ma molto più rapido degli umani a diffondersi poi sul continente). Questi omaccioni svezzati nel sangue delle guerre d'Italia erano perfettamente consapevoli di quanto fosse disperata la loro situazione, al punto che l'unico piano che venne loro in mente era talmente ingenuo da non avere praticamente possibilità di successo: invitare Atahualpa nel loro accampamento e catturarlo. Anche noi che non siamo mai stati su un campo di battaglia, ma abbiamo letto Montaigne e Machiavelli, sappiamo benissimo che non si deve mai, mai accettare quel tipo di inviti. Lo sventuato Atahualpa, invece, rispose. E a prima vista, pareva anche avere dei buoni motivi per farlo: quando si presentò in città, con una calma sprezzante davvero imperiale, portato a spalla su una lettiga da ottanta dignitari e preceduto da uno squadrone di indios che spazzavano il cammino su cui avrebbe dovuto transitare, molti spagnoli se la fecero letteralmente sotto dalla paura. Poi, nel giro di un attimo, tutto cambia. Le trombe, il rumore dei cannoni, l'assalto della cavalleria: in un amen migliaia di indigeni furono trucidati e Atahualpa preso effettivamente prigioniero. 

Comincia così, il 16 novembre 1532, la “fine degli Incas” annunciata dal titolo, il prototipo di tutte le future guerre dei mondi (e peccato che sulla copertina dell'edizione italiana sia raffigurato un tempio Maya, che non c'entra proprio nulla, anzi sa pure di ennesimo sberleffo eurocentrico: quei lì, ‘sti “precolombiani”, sono più o meno tutti la stessa cosa...). Comincia e per certi aspetti si conclude anche subito, con un cappotto in trasferta che non contempla gare di ritorno: «l'invasione del Perù fu una vicenda unica sotto molti punti di vista. La conquista militare precedette la penetrazione pacifica: né mercanti né esploratori avevano mai visitato la corte dell'Inca, e non c'erano resoconti di viaggiatori che ne descrivessero gli splendori. Il primo contatto degli europei con la maestà inca coincise con l'abbattimento di essa». Eppure non siamo neanche a pagina 50 di un libro che ne conta oltre 600. Di che si parla, allora? Il punto è che, se anche «la Conquista principiò con uno scacco matto», la presa di possesso effettiva del Perù non fu poi esattamente una passeggiata di pochi giorni (come si è fatto finta di dimenticare in Iraq o in Afghanistan). Questo saggio copre infatti tutto l'arco dell'invasione, da queste prime iniziative private fino all'instaurazione del vero e proprio vicereame e all'esecuzione – un mese dopo la strage di San Bartolomeo – del diciottenne Tupac Amaru, pronipote di Atahualpa e ultimo degli incas ribelli rifugiatasi nella città perduta di Vilcabamba (quella che Hiram Bingham stava cercando quando si imbatté incidentalmente in Machu Picchu), passando per le faide che condussero a morte violenta, uno a uno, tutti i principali capi della spedizione e con una curiosa appendice dedicata alle sorti degli eredi degli incas regnanti, alcuni dei quali finirono molto male, altri in un modo un po' patetico, mentre altri ancora si riciclarono bene e diventarono ricchi rentiers con nome e blasone cristiano - perché alla fin fine erano pur sempre teste coronate (e a Carlo V proprio non andava giù che un signor nessuno come Pizarro potesse mandare a morte un suo collega, anche se idolatra). 

Va detto che Hemming non indugia col patetismo e questo libro non vuole essere un'appendice alla leyenda negra, anche se poi di fatto un po' lo diventa, perché di quello si è trattato: una razzia, sia pure condotta con scrupolo notarile. «Era chiaro che gli indigeni si trovavano in balia di un gruppo di predoni», i quali riuscirono nell'intento di far passare questo saccheggio sistematico come se fosse uno pacifico scambio, in cui a guadagnarci davvero sarebbero stati, anzi, proprio gli indios: «e affinché voi possiate accettare questi tributi con meno ansia o scrupoli di coscienza, vi incarichiamo di istruire i detti indigeni nella dottrina della nostra Santa Fede Cattolica...» (così recita, per dire, un atto ufficiale datato 1550). Con molta misura, l’autore prova a ricostruire il tentativo complesso, e a suo modo affascinante, messo in atto dagli spagnoli per cercare di impiantare le loro istituzioni su un terreno totalmente alieno, esaminando le centinaia di fonti (non immaginavo fossero così tante) a disposizione, tra testi letterari, dispacci e documenti pubblici. Si dà il dovuto spazio ai più o meno eroici tentativi di resistenza, ma alla fine la conclusione è quella che è: «i peruviani erano stati strappati dalla protezione di una monarchia assoluta benevola e quasi socialistica, per finire nel mondo crudele dell'Europa feudale. Dati gli svantaggi della lingua, dell'educazione e della razza diverse, essi restarono al livello più basso della struttura feudale: solo un esiguo gruppo di aristocratici della nobiltà inca o tribale poterono apprezzare gli aspetti più squisiti della cultura europea postrinascimentale». I più diventarono semplici ingranaggi funzionali alla costruzione di quella macchina mondiale che è la moderna economia capitalistica, anche se rispetto ad altri progetti coloniali qui, sul lungo periodo, si riuscirà a formare una società meticcia. 

Un tale processo non mancò di sollevare reazioni anche critiche e discussioni molto accese – ed Hemming sottolinea più volte come in ambito spagnolo, per lo meno, il problema ce lo si pose (il controcanto autocritico, da allora in poi, è forse il frutto più prezioso del nostro repertorio intellettuale). Lo stesso imperatore Carlo, con un atto idealmente senza precedenti, decise di sospendere a un certo punto la conquista – come se fosse possibile – in attesa di un parere giuridico definitivo sulla sua legittimità: la famosa controversia di Valladolid tra Las Casas e Sepulveda, che vide la vittoria del primo, ma che nei fatti non cambiò nulla, anche perché ogni tentativo riformatore elaborato in Europa era poi puntualmente sconfessato e rimodulato dai coloni (che talora non si preoccupano più di tanto di mascherare i loro argomenti invocando apertamente il diritto allo sfruttamento: ma come? Avete messo a rischio le nostre vite per ingrandire i vostri domini e ora vogliete toglierci la nostra meritata ricompensa?). «É un fatto straordinario che le opere degli autori che recarono gli argomenti più forti a favore del dominio spagnolo non fossero pubblicate in Spagna nel XVI secolo, mentre fu pubblicata ogni cosa scritta da Las Casas»: il che fa pensare all'effettivo peso che possono avere i dibattiti filosofici o le recensioni di libri su Facebook quando a portare davvero avanti la storia sono gli spiriti animali degli avventurieri senza diploma, che di tutti quei discorsi semplicemente se ne infischiano – o, peggio ancora, approfittano di queste pubblicazioni per denunciare un sedicente “pensiero unico” e legittimare le brutalità della ben più corposa “pancia unica” da cui sono usciti. Sì, me lo immagino facilmente un Don Salviños commentare col suo scudiero Giggio Panza - di fronte al lavoro forzato nelle miniere, alle deportazioni di massa, alle morti per intossicazione o polmonite, al depauperamento indotto dai tributi straordinari imposti in cambio di quelli che non venivano pagati nel proprio vilaggio - “che pacchia queste loro gite in montagna... e li paghiamo pure per farle!”.

Ps. É interessante notare che, come accade spesso con gli eretici, la cui memoria è trasmessa proprio da quegli zelanti avversari che avrebbero voluto estirparli, così una parte non irrilevante di quello che sappiamo degli Incas e della loro ascesa è dovuto all'impegno profuso dal viceré Francisco de Toledo per dimostrare, sulla scorta di testimonianze dirette ancora disponibili, che quell'impero era recente, costruito da un'etnia proveniente da una piccola parte del Perù impostasi "tirannicamente" sulle altre popolazioni aborigene e dunque "usurpatrice" dei legittimi titoli a governare. Che, ovviamente, non avevano neppure gli spagnoli. Ma tanto bastava per dare un po' di argomenti in pasto alla propaganda.



(finito il 17 giugno 2018)

Ho parlato di


John Hemming
La fine degli Incas
(Rizzoli, 2016)

a cura di Furio Jesi

730 pp. | 13 €

(ed. or. The conquest of the Incas, 1970; 1ª ed. it. 1975)

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