lunedì 6 agosto 2018

Il gigante sepolto

Fino a questo punto della mia vita sono più gli autori scoperti grazie agli accademici di Svezia che non quelli di cui potessi affermare, a Nobel assegnato, «lo conosco, lo sapevo». Ishiguro stava un po’ lì a metà del guado –nome noto, ma mai frequentato prima del premio. E allora proviamolo, mi son detto, incuriosito anche dal fatto che la sua ultima opera fosse venduta come un romanzo storico ambientato però in un’epoca la cui storia può essere raccontata come se fosse un fantasy, un po’ come per gli allegri vichinghi di cui ho scritto qualche tempo fa (sono spesso coincidenze di questo tipo a orientarmi nella scelta del prossimo libro da leggere, lo confesso). Rispetto alle scorrerie normanne risaliamo ancora di qualche secolo buio, al tempo delle migrazioni germaniche. Gli anni dell’ipotetico Artù storico, grosso modo; per la precisione, quelli di poco successivi alla sua altrettanto ipotetica morte, quando l’Inghilterra era solcata da «miglia di terra brulla e incolta; qua e là scabri sentieri lungo colli scoscesi o brughiere desolate. Le strade costruite dai romani, in larga parta in rovina o invase dalla vegetazione, spesso si perdevano nel nulla. Gelide nebbie pesavano sui fiumi e gli acquitrini, rendendo un ottimo servigio agli orchi che ancora popolavano la contrada». 

Legionari e folletti sembrano poter tranquillamente coesistere, insomma, in questo universo narrativo – ed è quasi ironico, considerato che i temi-chiave su cui Ishiguro vuole richiamare l’attenzione sono quelli della memoria e soprattutto della convivenza, per ragionare sui quali il periodo evocato appare assolutamente adeguato: una soglia storica piena di ruderi affioranti qua e là a testimonianza di un passato neanche troppo remoto ma di cui ci si ricorda poco – al punto che antiche fortificazioni sono inconsapevolmente convertite in luoghi di culto –, attraversata la quale si avanza su un terreno letteralmente privo di punti di riferimento, in cui occorre reimpostare da capo la questione della condivisione del medesimo spazio, in questo caso conteso da bretoni e sassoni (ma potrebbero essere cattolici e protestanti, israeliani e palestinesi, serbi e bosniaci, hutu e tutsi, il problema è sempre quello). La domanda su cui il libro si arrovella la riformulerei più o meno così: quanto bisogna essere disposti a dimenticare per poter continuare a vivere insieme senza scannarsi a vicenda? Una domanda profondamente politica e che investe il senso stesso di una disciplina come la storia, ma al tempo stesso anche molto intima e privata, tant’è che i protagonisti della vicenda, gli iniziatori della quest, sono un marito e una moglie (Axl e Beatrice) uniti da un legame fortissimo e tuttavia imponderabile, perché vittime come tutti di una misteriosa maledizione che annebbia la memoria, e per questo combattuti tra il desiderio di recuperare i preziosissimi ricordi di una vita intera passata insieme («perché ci è stata cara») e il timore di scoprire, sparse in mezzo a quegli stessi ricordi, delle sorprese negative che potrebbero allontanarli l’uno dall’altra, ovvero tra la fiducia che il sentimento condiviso sia come il lieto fine già scritto che evidentemente nessun dissapore passato ha potuto sventare e il sospetto che il riemergere di sopite delusioni non sia poi così facile da superare una seconda volta. Come dire: se si tiene a mente tutto, ma proprio tutto, quello che è successo, se non si soprassiede, non si tira dritto, non si fa finta di non vedere, come si può seriamente pensare di stare per tutta la vita accanto alla stessa persona? «É possibile che il nostro amore non sarebbe mai stato tanto forte col passare degli anni, se la nebbia non ci avesse derubati come ha fatto? É forse grazie alla nebbia che certe vecchie ferite si rimarginano?». E però, d’altro canto, se si cede all’oblio, quell’amore che vive di opposti non si annacquerà in una stanca abitudine? «Una coppia può vantare grandi legami d’amore, ma noi barcaioli siamo in grado invece di intuire rabbia, rancori, odio perfino. O una profonda aridità. A volte, la paura della solitudine e nient’altro. Amori duraturi che sfidano il passare degli anni: di quelli ne vediamo raramente». 

Il “gigante sepolto” è appunto il complesso dei ricordi che determinano la tua identità, dicendoti chi sei, ma che ti rammentano anche chi non sei e cosa ti hanno fatto quelli che non sono come te: è un po’ come il mostruoso Hulk che fuoriesce quando la fragile psiche del dottor Banner perde il controllo della situazione. Lasciarlo dormire comporta la rinuncia ad ogni rivendicazione in cambio della pace; evocarlo significa risvegliare, con le gioie, anche i rancori, i dispetti, gli odi – e questo sia sul piano personale che su quello collettivo. «Direi quasi, signore, che l’intera nostra contrada è così. Una bella valle verdeggiante. Un bosco ameno in primavera. Ma basta scavare e, poco sotto margherite e ranuncoli, saltano fuori i morti. E non parlo, signore, solo di quelli che hanno ricevuto sepoltura cristiana. Nella nostra terra giacciono i resti di antichi massacri». Uno di questi, il più recente, vede direttamente coinvolto Axl, e qui sfera individuale e sfera collettiva si intersecano in modo particolarmente drammatico. Ishiguro sembra dire che c’è poco da fare: nessun incanto amnemonico può tenere imbrigliata a lungo la bestia. Sullo sfondo aleggia anche una domanda teologica mica di poco conto: come può essere giusto il perdono? (questione che già tormentava Primo Levi). Di più: come può essere giusto un Dio misericordioso? «Che razza di dio è, signore, uno che vuole siano dimenticati e restino impuniti i torti?», un Dio che cancella, giustifica e soprattutto scorda le colpe? Qui si richiede un supplemento di pensiero: il Risorto conserva i segni delle piaghe, ma come si può immaginare un Paradiso in cui resta una traccia, ancorché minima, dell’offesa? Eppure, senza quei segni, esso apparirebbe molto simile all’intontita Inghilterra descritta in questo romanzo, e non sarebbe poi questo granché. 

Argomenti ambiziosi, come si vede. Tutto bene, quindi? Accademici approvati per l’ultimo sgarro a Philip Roth? Sì però neanche troppo, se per finire queste poco più di trecento pagine mi ci sono voluti circa quaranta giorni e una fatica, signora mia. Certo, c’è dietro una precisa scelta stilistica, che a suo modo funziona pure – l’atmosfera volutamente onirica, questa amnesia collettiva che rende potenzialmente tutto significativo e tutto incerto, il diradarsi lento e progressivo della bruma, d’accordo. Però leggi leggi leggi e troppo spesso ti sembra di girare a vuoto. I nodi, alla fine, vengono anche al pettine (eccezion fatta, in realtà, proprio per il finale, che resta aperto ed enigmatico), ma prima di arrivarci mi sono ritrovato più di una volta spaesato come uno dei quei «viaggiatori che, volgendosi indietro al compagno di cammino, si accorgevano che quello era svanito senza lasciare traccia». E dopo un po’ sinceramente è snervante.

(finito il 3 giugno 2018)

Ho parlato di


Kazuo Ishiguro
Il gigante sepolto
(Einaudi, 2016)

trad. di S. Basso

324 pp. | 13 €

(ed. or. The Buried Giant, 2015)

Nessun commento:

Posta un commento