mercoledì 1 novembre 2017

7 lezioni sul pensiero globale

Per una volta tanto riesco a leggere un libro di un venerato maestro mentre questi è ancora in vita, ma solo perché il nonagenario Morin mi ha fatto la cortesia di giungere vispo fin quasi a cent’anni (Bauman e Todorov mi scusino, arriverò anche a loro). Il titolo dell’edizione italiana strizza l’occhio ad un altro famoso testo del catalogo – i “sette saperi necessari all’educazione del futuro” – ma c’entra poco col contenuto: più che a un insieme di lezioni questo testo fa pensare piuttosto a un’enciclica laica, con meriti e demeriti del genere letterario in questione (e, va da sé, forse anche al riepilogo di un intero itinerario intellettuale). L’intento dichiarato è di delineare i contorni di quello che Morin definisce “pensiero globale” o “complesso”, da proporre come nuovo paradigma metodologico in sostituzione delle varie forme di riduzionismo che ci portiamo dietro almeno dal ‘600, rivelatesi incapaci di misurarsi davvero con l’intricato sistema di azioni e di retroazioni che costituiscono il mondo interconnesso in cui siamo (da sempre) immersi, ma di cui siamo diventati pienamente coscienti solo in questa nostra “era planetaria”.

La riduzione al semplice insidia, anzitutto, la varietà del reale. “Complesso” vuol dire, invece, in primo luogo, “tessuto insieme”, e si tessono insieme stoffe di diversa provenienza: «l’unità è il tesoro della diversità umana, la diversità è il tesoro dell’unità umana». Tradotto, “globale” non deve significare per forza “omologato” - e dunque, non “crescita o decrescita (felice o meno)”, bensì “crescita e decrescita” insieme: «tutto ciò che è sviluppo nel senso classico del termine deve accompagnarsi al rispetto di ciò che inviluppa», un colpo al cerchio della mondializzazione ed uno alla botte della localizzazione. Un simile approccio ha però anche significative ricadute pedagogiche: i saperi vanno interconnessi, fatti dialogare, perché si possa pensare di capirci qualcosa. E non possiamo accontentarci, nel mondo che viene, di saperi puramente tecnici. Siamo «condannati alla traduzione» (sin nei nostri più basilari processi percettivi), perciò avremo sempre più bisogno di un’intelligenza ermeneutica che maturi nel confronto con l’altro. «La comprensione comporta il riconoscimento e il sentimento di una umanità comune con gli altri, e nello stesso tempo il rispetto della loro differenza». Guarda un po’ se non possono tornare di moda le antiche traduzioni dal greco e dal latino, e con esse il peso delle parole, le sfumature, le possibili varianti, quel margine mai del tutto eliminabile di ambiguità rispetto alle reali intenzioni dell’autore. «Bisogna accettare la complessità dell’umano, contestualizzare sempre e non chiudersi in alcune certezze. Oggi, anche le scienze più avanzate affrontano delle incertezze, come la microfisica e la cosmofisica. La nostra stessa vita è molto incerta e altrettanto lo è il futuro dell’umanità. É per questo che l’insegnamento deve includere come affrontare queste incertezze» (onde evitare anche – aggiungo io – la faciloneria dei somari che hanno la risposta comoda e pronta per tutto).

Umanesimo e scienza possono dunque andare a braccetto, e lo possono fare perché complesso, fin dalla radice, è il mondo di cui si occupano, un impasto in continua tensione tra ordine e disordine che produce ristretti settori di organizzazione dai quali emerge sempre qualcosa di più che la mera somma delle parti, nonché continue imprevedibili mutazioni suscettibili di sviluppi inaspettati. «Siamo in un mondo consegnato agli accidenti e ai casi, e ciò è comune alla storia fisica, alla storia biologica e alla storia umana»: è la contingenza radicale, insomma, ciò che ci rende pienamente solidali con la natura. «La storia non è un fiume maestoso che avanza. Avanza di lato, come un granchio, e quando una devianza riesce a radicarsi, a creare una tendenza, questa tendenza diventa una forza storica. Allora è in corso una trasformazione». Questo vale appunto per i mari primordiali o le pozze vulcaniche in cui ha avuto origine la vita (e in cui alcuni batteri, un paio di miliardi d’anni dopo, impararono a metabolizzare l’ossigeno liberato dalla fotosintesi, responsabile della prima estinzione di massa sulla Terra), ma vale anche per la nascita delle grandi religioni, che spesso sono smarcamenti rispetto ad una qualche ortodossia (Gesù fu messo in croce in quanto bestemmiatore), così come per l’affermazione del moderno capitalismo, attecchito ai margini di una società aristocratica e militare. Lungi dall’essere il culmine di un processo ordinato e cumulativo, non siamo che l’esito di continue divergenze, all’interno di un universo composto per il 90% di una materia che chiamiamo “oscura” perché c’è, ma ci sfugge.

Ne consegue che, a differenza dei grandi racconti che ci hanno intrattenuto nella modernità, il nuovo racconto che a poco a poco sta emergendo dall’intreccio dei risultati prodotti dalle varie discipline si preclude l’accesso a una sintesi finale. Il futuro non è più quello di una volta: più aumentano le nostre conoscenze, più aumenta la consapevolezza della nostra ignoranza. Pensiamo alla fisica, dove per un neutrino che si scopre, si aprono cento nuove domande a cui prima semplicemente non avevamo mai pensato. E dunque, «scopo del pensiero complesso non è distruggere l’incertezza, ma individuarla, riconoscerla, è evitare la credenza in una verità totale», in un destino segnato, nel bene o nel male. Non siamo completamente condannati, ma non siamo neanche già redenti, anche se semi di novità stanno presumibilmente già germinando, ai margini dell’apparato che vorrebbe fagocitare tutto. «L’impossibile, l’inatteso è dunque possibile, la metamorfosi è dunque possibile. La lotta non è totalmente disperata. Ma la speranza è il possibile, non è il certo. Darle certezza è un errore totale». Del resto, chi si sarebbe immaginato, nell’Europa completamente nazistificata del 1941, i carri armati alleati a Berlino entro quattro anni? Con la felice incoscienza di chi non ha più nulla da dover dimostrare, Morin allarga però il suo discorso dai nostri tempi interessanti all’intera vita della specie. «La caratteristica dell’essere umano è di essere incompiuto», dice: bisogna, cioè, pensarsi come se fossimo fermi ancora all’età del ferro planetaria. «L’incredibile può accadere e accadrà»: l’umanità stessa potrà acquisire poteri oggi inimmaginabili, come è inimmaginabile tirar fuori il laptop su cui scrivo dalle schegge di selce incise dal primo homo habilis. «Dobbiamo abbandonare una razionalità chiusa, incapace di afferrare ciò che sfugge alla logica classica, incapace di comprendere ciò che la eccede, per dedicarci a una razionalità aperta, in grado di conoscere i propri limiti e cosciente dell’irrazionalizzabile. Dobbiamo continuamente lottare per non credere a quelle illusioni che sono in grado di prendere la solidità di una credenza mitologica. In questo mondo globale siamo messi a confronto con le difficoltà del pensiero globale, che sono le stesse difficoltà del pensiero complesso. Viviamo l’inizio di un inizio». Amen.

(finito il 28 agosto 2017)

Ho parlato di


Edgar Morin
7 lezioni sul pensiero globale
(Raffaello Cortina, 2016)

116 pp. | 11 €

(ed. or: Penser global. L'homme et son univers, 2015)


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