sabato 11 febbraio 2012

Mondovi'... formidabili quegli anni (Parte 2)


La doccia fredda per Mondovì giunse l’8 agosto 1562, quando a Blois venne stipulato un nuovo accordo per regolare definitivamente le questioni che la pace di Cateau-Cambrésis aveva lasciato in sospeso tra la Francia e lo Stato Sabaudo. Le trattative non furono semplici da sbrogliare, anche perchè si inserirono in un quadro complessivo tutt’altro che sereno. In appena tre anni, infatti, la corona francese aveva cambiato per ben tre volte titolare: a Enrico II (di cui Emanuele Filiberto aveva sposato la sorella proprio nel giorno della morte, il 10 luglio 1559) erano succeduti prima il figlio Francesco II (morto nel dicembre 1560), quindi il secondogenito Carlo IX, che era solo un ragazzino e governava sotto la tutela della madre, Caterina de’ Medici. Il massacro di Wassy del marzo 1562, inoltre, aveva dato il via a quel lungo periodo di torbidi e di violenti conflitti interconfessionali che avrebbero dilaniato la Francia per oltre un trentennio. In tale contesto Emanuele Filiberto dovette a malincuore rinunciare alle pretese su Pinerolo, ed anzi si vide persino costretto a consegnare ai transalpini Perosa e Savigliano; in cambio ottenne però la restituzione di quattro delle cinque piazzeforti ancora sotto il controllo francese: Chieri, Chivasso, Villanova d’Asti e finalmente l’agognata Torino, che il Savoia considerava strategica per il controllo del Piemonte. Il ritiro delle truppe francesi avvenne il 12 dicembre successivo e il 7 febbraio 1563 Emanuele Filiberto poteva finalmente fare il suo ingresso solenne nella sua nuova capitale.

Torino, Monumento a Emanuele Filiberto
L’insediamento della corte ducale a Torino fu senza dubbio uno degli eventi chiave di quegli anni, ma porto con sè – per quanto ci riguarda – tutta una serie di complicazioni. A liberazione avvenuta, il Comune di Torino non tardò infatti a rivendicare gli antichi diritti e a invocare la riapertura dell’Università dopo la lunga inattività di cui abbiamo parlato. Gli argomenti avanzati erano solidi, poiché i torinesi potevano contare sulla concessione rilasciata a suo tempo da Ludovico di Savoia-Acaia, nonché sul diploma imperiale e la bolla papale che certificavano la fondazione dello Studio all’inizio del XV secolo. Tali diritti – questo il punto – non erano mai stati revocati da nessuno: l’occupazione francese aveva semplicemente imposto un’interruzione forzata alla didattica, che quindi poteva e doveva riprendere regolarmente il suo corso nel momento in cui erano venute meno le cause della sospensione. E poichè fra i privilegi garantiti all’Università di Torino vi era quello, anch’esso mai revocato, di poter essere l’unica istituzione del genere entro i confini del ducato sabaudo, la sua ricostituzione doveva coincidere con l’immediata chiusura dell’altra sede che in quel momento stava svolgendo analoga funzione in Piemonte, evidentemente in modo illegittimo, vale a dire, appunto, Mondovì. Temendo che il loro progetto naufragasse ancor prima di poter veramente decollare, i monregalesi, allarmatisi, intrapresero tutte le iniziative che ritennero utili per azionare le adeguate contromisure, inviando delegazioni al duca per esortarlo a non assecondare l’interpretazione fornita dal Comune di Torino. Anche Mondovì, del resto, poteva vantare il suo diploma ducale, firmato per di più dallo stesso Emanuele Filiberto poco più di due anni prima, e non da un suo lontano antenato, nel quale peraltro non si presentava affatto l’Università monregalese come una succursale temporanea di quella torinese, ma come uno Studio interamente nuovo e autonomo, dotato perciò degli stessi diritti che a suo tempo erano stati conferiti a quello più antico. Se per far valere le proprie ragioni Torino si riallacciava a delle prerogative ancora medievali, l’argomento giuridico su cui Mondovì faceva leva era invece estremamente moderno, a prima vista perfettamente adatto a un’epoca in cui si andavano formando in tutta Europa i nuovi Stati assoluti. Emanuele Filiberto – sosteneva questa campana – conosceva perfettamente quali erano i documenti in mano ai torinesi, e quale il loro contenuto; se perciò aveva ritenuto di fondare una nuova Università a Mondovì era perchè, semplicemente, riteneva giuridicamente corretto farlo, ed essendo il duca la fonte unica del diritto all’interno del proprio stato, ciò che stabiliva aveva valore di legge e nessuno poteva appellarsi ad altre norme, per quanto antiche, per contrastare le sue decisioni. Ad essere illegittima non sarebbe stata dunque la creazione dell’Università monregalese, ma la pretesa di Torino di contraddire la volontà del principe.

El Greco, Ritratto di Pio V (particolare)
In realtà, quello in cui si era cacciato il duca era un autentico vicolo cieco giuridico, in cui entrambi i contendenti avevano buone carte da giocare. Il problema è che due Università in uno Stato così piccolo non avrebbero potuto resistere, nè la corte avrebbe potuto mantenerle entrambe: una soluzione, dunque, andava in qualche modo trovata al più presto. La pressione su Emanuele Filiberto – lo si può immaginare – fu da subito enorme e il duca dovette nominare un’apposita commissione governativa per esaminare il caso. Nel frattempo, comunque, onde evitare che l’attività universitaria, da lui così fortemente voluta, andasse incontro a un’altra sospensione, egli concesse una deroga a Mondovì perchè continuasse le lezioni in attesa del verdetto e continuò a incaricare normalmente professori per quella sede. Tra suppliche, interpellanze e ricorsi, se ne andarono così via altri tre anni, senza che si riuscisse a trovare un’intesa soddisfacente. Nel 1566, l’elezione al soglio di Pietro del cardinale Ghislieri col nome di Pio V sembrò segnare un punto a favore di Mondovì, che si vide prontamente confermare dal suo ex vescovo i privilegi già riconosciuti quattro anni prima dal suo predecessore Pio IV. Ma più della benedizione papale, agli occhi di Emanuele Filiberto, poterono i soldi. L’11 maggio 1566 i torinesi calarono infatti l’asso vincente: inoltrando al duca l’ennesime domanda per riaprire la scuola, essi la fecero accompagnare con un cospicuo donativo di quattromila scudi da investire nell’Università, racimolato attraverso una cordata composta da alcuni ricchi privati cittadini. Fu proprio l’ingente disponibilità finanziaria messa sul tavolo da Torino a decidere una contesa che invece, sul piano strettamente giuridico, era in perfetto stallo.

Ironia della sorte, di fronte a questa evoluzione Emanuele Filiberto esercitò proprio quella forma arbitraria di potere che i monregalesi gli avevano riconosciuto e che gli permetteva di tranciare d’imperio un burocratico nodo gordiano, ma in un senso assai diverso da quello auspicato a Mondovì. Nonostante le ulteriori perizie raccolte e nonostante l’estremo tentativo di ottenere ancora un rinvio, adducendo a motivo l’imminente inizio delle lezioni, l’Università di Mondovì dovette piegarsi alla volontà del duca, che il 22 ottobre 1566 assegnò definitivamente a Torino l’esclusiva sui diritti universitari e il giorno dopo intimò ai professori incaricati a Mondovì di trasferirsi seduta stante a Torino per cominciarvi i loro corsi il successivo 3 novembre.  Per Emanuele Filiberto si trattò di un vero affare. Il Comune di Torino si sobbarcò per intero la spesa del trasporto dei bagagli dei docenti e si preoccupò di riattrezzare, sempre a proprie spese, le strutture destinate all’insegnamento; pur di riavere l’Università, esso si impegnò inoltre a versare ogni anno mille scudi per coprire i costi di gestione e cedette al duca persino l’usufrutto dodicennale sulle gabelle cittadine su vino e carni. A Mondovì sarebbe invece rimasta la tipografia di Torrentino, ora in mano ai suoi eredi, probabilmente perchè il ceto imprenditoriale torinese, che più si era speso per la riapertura dello Studio, non vedeva di buon occhio il trasferimento di un’impresa commerciale già avviata e voleva godere in proprio dei vantaggi economici garantiti dalla presenza dell’Università. Le motivazioni che spinsero Emanuele Filiberto a una scelta di quel tipo non furono però solo strettamente finanziarie. Lo spostamento dell’Università a Torino rientrava infatti in un più articolato progetto volto a rafforzare la centralità di Torino come capitale dello stato, negli stessi anni in cui il duca si cimentava anche con la costruzione della cittadella fortificata e con il trasferimento della Sindone da Chambéry (un atto che ricapitolava, anche simbolicamente, il trasferimento di competenze, poteri e interessi dei Savoia dall’area francese a quella italiana).

Ferrante Vitelli, Progetto realizzato per la cittadella
di Mondovì
, (c) Archivio di Stato di Torino
Con il 1566, di per sè, Mondovì non vide completamente annullati tutti i propri diritti: restò infatti in vigore la possibilità di promulgare titoli, ma il divieto di tenere lezioni pubbliche rendeva quella monregalese una pura “università di carta”, come sono state talvolta chiamate le sedi che si limitavano a conferire le lauree senza che vi si svolgesse una qualche forma di didattica. Negli abitanti della città rimase però soprattutto un senso di profonda frustrazione, che riesplose in diverse occasioni, anche in forma violenta, come quando Emanuele Filiberto decise di aumentare il prezzo del sale. Fu proprio per tenere meglio sotto controllo questa città orgogliosa e ribelle che il duca decise di innalzare anche qui una cittadella fortificata, nel 1573, con la motivazione ufficiale che trattavasi di una misura preventiva onde difendersi meglio da eventuali attacchi degli ugonotti francesi. Oggi quella cittadella, segno di antico dominio, è uno dei tanti contenitori vuoti di una città che continua ad avere quasi gli stessi abitanti di allora, ma distribuiti su una superficie sempre più ampia, quasi ad indicare anche sul piano topografico un progressivo allentarsi dei legami sociali, che auspico sinceramente possano invece tornare a rafforzarsi, con un colpo di reni che ci trascini fuori da un destino di apparente declino e ci rimetta in movimento, magari proprio a cominciare dal maggio prossimo.

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