martedì 21 febbraio 2012

Il medico e i mangiatori di ardesia

  Spesso filosofi e scienziati traggono ispirazione anche dalle vicende più drammatiche che contrassegnano il loro tempo. Laurent Joubert (1529-1583) fu professore nella celebre facoltà di medicina dell'Università di Montpellier ed ebbe anche importanti incarichi a corte. La sua fama è legata soprattutto a un'opera scritta in francese, gli Erreurs populaires au fait de la medicine et regime de santé (Bordeaux, 1578), nella quale - da medico dotto e togato qual era - puntava l'indice contro gli abusi praticati quotidianamente da guaritori sprovveduti e ciarlatani, i quali - con i loro rimedi approssimativi - finivano per gettare in discredito la medicina tutta, compresa quella rispettabile e scientificamente solida che Joubert si vantava di esercitare (non stiamo qui a sottilizzare sul fatto che le differenze fra i due generi di medicina non erano sempre così nette come ai medici di scuola piaceva pensare).

Laurent Joubert
  Il settimo capitolo del libro è rivolto - così dice il titolo - Contro quelli che giudicano la capacità dei medici dal successo, che è spesso dovuto al caso più che al sapere. In altre parole, Joubert intende qui mettere in guardia il suo pubblico da una frettolosa associazione tra esito felice di una cura ed effettiva competenza del medico, dal momento che, come la sopravvivenza del paziente può dipendere solo fortuitamente dalla scelta meditata di una terapia (perché vi si sono intrecciati altri fattori o semplicemente perché il medico ha tirato a indovinare), così l'eventuale sua morte non è necessariamente da addebitarsi all'incuria del medico (perché in certi casi si può incappare in essa anche se si sono messe in atto tutte le strategie terapeutiche più indicate, magari perché la situazione era oggettivamente disperata).

  Per chiarire questo concetto Joubert elabora un articolato paragone tra il medico e il capitano che assedia o difende una piazzaforte, il cui merito non può essere misurato dalla riuscita del suo intento, posto che abbia fatto «tutto ciò che l'arte richiede». Dinanzi al corpo malato, il medico si trova infatti come il generale di fronte a una fortezza di cui conosce solo la superficie esterna, non la sua reale consistenza, né l'esatta disposizione di viveri e munizioni da parte dei difensori: tutto ciò di cui dispone per elaborare la sua strategia sono «congetture, somiglianze, esempi e osservazioni», con il loro carico di precarietà e incertezza. Oppure è paragonabile a chi è incaricato di difendere un presidio dall'assalto dei nemici: se questi riesce a difenderlo

fino allo stremo delle forze, dopo che sono stati mangiati tutti i cavalli, gli asini, i cani, i topi e i gatti presenti nel luogo assediato e poi anche pelli, pergamene e altri cibi penosi (come dice sia accaduto a quelli di Sancerre, che nell'anno 1573 si spinsero a mangiare - non so come - perfino l'ardesia), persa la maggior parte dei suoi uomini, le mura tutte perforate e non avendo più di che sostenersi, costui - costretto infine ad arrendersi - non meriterà meno lodi (se non anzi di più) di colui che avrà salvato senza particolare fatica la sua posizione, ben provvista e dotata di tutto l'occorrente (Erreurs, pp. 81-2).
 
  Un'immagine del genere, così minuziosamente dettagliata, acquista tutta la sua piena espressività se è ricondotta nel contesto pesantissimo delle guerre di religione che dilaniarono la Francia per oltre un trentennio nella seconda metà del XVI secolo, quanto situazioni come quella appena descritta erano tragicamente all'ordine del giorno e non erano pochi quelli che potevano richiamarle alla mente per averle viste coi propri occhi. Fra tanti episodi di ferocia, uno di quelli che più colpì e impietosì l'opinione pubblica fu proprio l'episodio cui qui allude Joubert, vale a dire l'assedio di Sancerre. Questa cittadina ugonotta sulla Loira a nord-est di Bourges, nella regione del Centre, fu circondata per cinque lunghi mesi dalle truppe cattoliche a partire dal marzo 1573, prima di capitolare, il 24 agosto, esattamente un anno dopo il massacro della notte di San Bartolomeo (in seguito al quale molti calvinisti si erano appunto asserragliati nella fortezza). Della vicenda è rimasta sinistra memoria nella letteratura francese (basti pensare che ne parleranno ancora Voltaire e l'Encyclopédie due secoli dopo) perché, rimasti privi di rifornimenti dall'esterno a causa del prolungato assedio, i cittadini di Sancerre furono costretti a cibarsi di tutto ciò che avevano a disposizione - come ricorda lo stesso Joubert, e spingendosi anche oltre ciò che lui rievoca, se è vero che non mancarono neppure fenomeni di cannibalismo.

Il castello di Sancerre in un'incisione di inizio '600
(c) sancerre.cg18.fr
  Il racconto dettagliato di quel capitolo terribile delle guerre civili francesi si può trovare nell'Histoire memorable de la ville de Sancerre, pubblicata nel 1574 da Jean de Léry, contenente, come recita il sottotitolo (che all'epoca svolgeva non di rado le funzioni della quarta di copertina nei libri odierni), les Entreprinses, Siege, Approches, Bateries, Assaux et autres efforts des assiegeans: les resistances, faits magnanimes, la famine extreme et delivrance notable des assiegez. É proprio in queste pagine concitate che troviamo la notizia ripresa da Joubert. Passando in rassegna gli accorgimenti escogitati dai Sancerrini per affrontare la fame, Léry (che visse tutta la vicenda all'interno delle mura ed è dunque fonte attendibile, anche se coinvolta) racconta che al terzo mese d'assedio la situazione era talmente disperata per la carenza di grano che alcuni suoi concittadini si risolsero a prendere delle tegole d'ardesia dai loro tetti e a pestarle nei mortai, setacciandone poi la polvere ricavata così da farne una sorta di pane, dopo averla mescolata con acqua, sale e aceto (Hist. mem. p. 143). E non è tutto. Poche pagine dopo si riporta infatti il racconto dell'arresto di una coppia di sposi e di una vecchia che viveva con loro, rei di «aver mangiato la testa, il cervello, il fegato e le viscere di una loro figlia di circa tre anni, morta di fame e di stenti» (p. 146).  Ma lasciamo la parola a Léry, testimone oculare dell'evento: 

Questo fatto non passò senza grande stupore e terrore di tutti coloro che ne sentirono parlare. Ed essendomi io stesso incamminato verso il luogo in cui abitavano, e avendo visto l'osso e il resto della testa di questa povera bambina, pulito e rosicchiato, e le orecchie mangiate; avendo visto anche la lingua cotta, spessa un dito, che quelli erano in procinto di mangiare quando furono sorpresi; e le cosce, le gambe e i piedi in un calderone con aceto, spezie e sale, pronti per essere cotte e messe sul fuoco; e le spalle, le braccia e le mani tenute insieme con il petto spaccato e aperto, apparecchiate anch'esse per essere mangiate, io ne fui così atterrito e sconvolto che tutte le mie viscere ne furono scosse. Infatti, per quanto abbia vissuto dieci mesi tra i selvaggi Americani in Brasile e li abbia visti sovente mangiare carne umana (in quanto mangiano i prigionieri che catturano in guerra), provai comunque un enorme terrore nel vedere questo pietoso spettacolo, che non si era ancora mai visto (a quanto credo) in una città assediata nella nostra Francia (p. 146-7).

  Il racconto prosegue con la descrizione dell'iter giudiziario che portò alla condanna a morte dei due sposi, sul cui passato emersero pian piano torbide rivelazioni. Ne riparliamo magari appena finisco di costruire il plastico di Sancerre.
 

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