Leggere questo classicissimo saggio di Bobbio sulla guerra (ma forse leggere Bobbio in generale) è come addentrarsi in un fitto reticolo di considerazioni, distinzioni, precisazioni, obiezioni e puntualizzazioni paragonabile per certi aspetti al tipico questionare delle grandi opere scolastiche medievali, con la sostanziale differenza che mentre in quel caso ti sembra di incedere processionalmente lungo la navata di un’altissima cattedrale del pensiero in cui hai la sensazione che ogni cosa del mondo sia stata collocata, come pietra su pietra, al giusto suo posto stabilito per lei dal Creatore, qui invece pare di aggirarsi in un tortuoso e tetro labirinto, dove si aprono continuamente nuovi varchi anche nei punti in cui ti era parso di essere già passato prima e non avevi visto nulla (prova ne siano le diverse prefazioni via via anteposte al testo originale ad ogni nuova edizione, perché dal Vietnam al primo Iraq alla ex-Jugoslavia gli scenari sono cambiati vorticosamente, costringendo di volta in volta a un surplus di riflessione) e non è neppure così certo che vi sia poi, davvero, da qualche parte, una via d’uscita, che però, al tempo stesso, è assolutamente indispensabile trovare, perché l’alternativa coincide con la distruzione stessa del mondo. É vero che, in questa battaglia, il nostro solo nemico è «l’irrazionalità», osserva a un certo punto il filosofo torinese. «Ma è un nemico vincibile?».
Anche se appare tutt’altro che rassicurante, l’immagine del labirinto una lezione quantomeno la offre, secondo Bobbio, ed è – come nei ragionamenti per assurdo – quella della «strada bloccata». Per lui, infatti, ha pressoché il valore di un assioma morale l’affermazione secondo cui l’invenzione della bomba termonucleare ha reso la guerra una soluzione non più percorribile per fronteggiare quei problemi che in passato si erano invece affrontati ricorrendo con sin troppa disinvoltura alle armi; da ciò discende perciò l’obbligo di impegnarsi una volta per tutte nella ricerca di altre strategie per la gestione del conflitto. Va detto che non tutti concorderebbero con tale assunto. Non i nichilisti metafisici né i mistici, per esempio, che nella fine del mondo vedono anzi una liberazione dalle catene della banalità quotidiana o una meritoria punizione divina, e con loro in genere tutti quegli insopportabili fanatici di qualsiasi fede, sempre così compiaciuti di poter spargere fiumi di prosa sublime a sostegno del principio infantile per cui la catastrofe generale sarebbe preferibile all’instaurarsi di un ordine non di loro pieno gradimento. Assai più temibili, per Bobbio, perché più numerosi, sono tuttavia coloro che, pur accettando la sua stessa premessa, ne traggono una conseguenza che la ribalta completamente di senso, in quanto affermano che sarebbero proprio gli effetti potenzialmente devastanti dell’atomica a renderla, di fatto, uno strumento inutilizzabile e a garantire perciò quella condizione di “equilibrio del terrore” - quando tutti sanno di avere reciprocamente l’arma definitiva puntata gli uni sugli altri, ma nessuno ha il coraggio di premere per primo il grilletto - che forse è l’unico surrogato di pace cui l’umanità possa ambire. Ma a parte il fatto che riporre tutte le proprie speranze di pace sulla consapevolezza degli effetti di un possibile olocausto nucleare non è meno ingenuo che ritenere «il vizio del fumo destinato a scomparire per il solo fatto che sono state denunciate le sue nocive conseguenze», un tale argomento iperottimistico, in base a cui i grandi mali dell’umanità sarebbero propedeutici a beni ancora più grandi, si limita a congetturare non già la fine di tutte le guerre, bensì solo la sospensione di un particolare tipo di guerra - quella nucleare, appunto – configurandosi pertanto come «una teoria della continuazione dello stato di tregua», basata in ultima analisi proprio sulla permanente possibilità della guerra stessa, disseminata magari in tante piccole guerricciole (che però comportano comunque morte, rovina e distruzione), ed incapace per questo di contenere davvero il rischio che una minima variazione degli stati di forza possa indurre qualcuno a riaprire anche le ostilità maggiori sperando di fare in questo modo l’all-in. Il tuono di Hiroshima avrebbe dovuto invece svegliarci dal nostro rassegnato sonno dogmatico e farci assumere la fine della guerra non già semplicemente come un “fatto” (peraltro, tutt’altro che confermato dall’esperienza), bensì come un obiettivo. Bobbio definisce «coscienza atomica» una tale presa di consapevolezza e denuncia senza mezzi termini come un puro «ozio sterile» ogni filosofia che oggi non si ponga come proposito prioritario quello di suscitarla e difenderla con fondate ragioni.
Chi ha maturato una simile “coscienza atomica” lavora anzitutto per dimostrare che la guerra nucleare, spezzando ogni possibile proporzionalità tra mezzi e scopi, ha dato il colpo di grazia definitivo a qualsiasi teoria della guerra “giusta” (fermo restando, comunque, che, anche in regime di armi convenzionali, impiegare concetti di derivazione giuridica per interpretare gli eventi storici è quantomai sospetto, dato che le sentenze sono sempre emesse da una delle parti in causa, che dopo aver vinto sul campo si affretta a rivestire di copertura legale la propria vittoria). Il punto è che, di fronte alla guerra atomica, che per definizione non può essere limitata, «il diritto», ovvero l’esercizio stesso del limitare, «è impotente». Contro i progetti, per certi aspetti anche meritori, se inquadrati storicamente, di regolamentare la pura forza abbiamo ormai sufficienti strumenti per avviare una volta per tutti una decisiva “critica della ragione bellica” (come afferma in modo ancora più deciso un libro in uscita proprio in questi giorni) che li mostri per quello che realmente sono: non un deterrente per impedire la guerra, ma un espediente per continuare a farla convincendosi di avere la coscienza a posto.
Tale denuncia rischia però di restare puramente velleitaria se non è accompagnata dallo sforzo di indicare delle vie possibili per garantire la pace – e in questo senso si tratterà allora di elaborare anche una corrispettiva “critica della ragione pacifista”, per sottrarre il pacifismo ai sogni delle anime belle e ancorarlo al campo delle possibilità concrete. Anche il puro e semplice richiamo alla pace, infatti, ha le sue ambiguità. «Non è forse vero che l’impotenza dell’uomo mite finisce per favorire il prepotente?», si potrebbe dire. E non è a suo modo uno sberluccicante scenario di pace l’osceno resort immaginato da Trump sulle rovina di una Gaza epurata dalla presenza di tutti i palestinesi che attualmente vi abitano? Ancora: non ha qualcosa di perverso invocare la pace, quando si vive nel benessere e, per paura di perdere i propri privilegi e pagare dieci euro in più di bolletta o di benzina, si contestano come facinorosi quanti lottano per ottenere ciò che noi oggi riteniamo come diritto di nascita solo perché altri, in passato, hanno lottato perché lo potessimo avere senza colpo ferire? Ahimé, «l’arma totale è arrivata troppo presto» non solo «per la rozzezza dei nostri costumi, per la superficialità dei nostri giudizi morali, per la smodatezza delle nostre ambizioni», ma anche «per l’enormità delle ingiustizie di cui la maggior parte dell’umanità soffre non avendo altra scelta che la violenza o l’oppressione». Possiamo accettare, per evitare l’apocalisse, l’immobilità di uno status quo che condanna milioni di persone a una condizione di subalternità e di miseria?
Posto che per un pacifista la pace è certamente un «bene altamente desiderabile, tanto desiderabile che ogni sforzo per raggiungerla è considerato degno di essere perseguito», ciò non significa, però, che essa sia per lui un «bene assoluto. Errano coloro che attribuiscono ai pacifisti l’idea che la pace sia per essi un bene assoluto, e con questa interpretazione se ne fanno un facile bersaglio. I pacifisti in genere non ritengono affatto che la pace da sola serva a risolvere tutti i problemi che travagliano l’umanità; ritengono in genere che la pace sia sì un bene necessario ma non anche sufficiente, e tutt’al più sia un bene prioritario». La pace, infatti, è solo «la condizione preliminare per la realizzazione di una libera convivenza»; in caso contrario, ci si potrebbe accontentare anche della quiete totalitaria imposta da un dispotico Leviatano. Bobbio ritiene che l’unica soluzione realistica per soddisfare le nostre esigenze di pace e giustizia sia una forma di pacifismo istituzionale, ispirato da Kant, consistente nel creare e implementare istituzioni internazionali che impediscano non solo lo scoppio di conflitti militari, ma anche l’insorgere di conflitti sociali la cui soluzione è sempre stata fin qui la violenza. Anche spogliato di tutti i fronzoli hippie, resta pur sempre un intento estremamente ambizioso e problematico. Eppure «qualche volta è accaduto che un granello di sabbia sollevato dal vento abbia fermato una macchina. Anche se ci fosse un miliardesimo di miliardesimo di probabilità che il granello, sollevato dal vento, vada a finire nel più delicato degli ingranaggi per arrestarne il movimento, la macchina che stiamo costruendo è troppo mostruosa perché non valga la pena di sfidare il destino».
(finito il 25 luglio 2022)
Ho parlato di
Il problema della guerra e le vie della pace
(Il Mulino 2009)
168 pp. | 12 €