sabato 26 luglio 2025

Dio al plurale

Da quando, non troppo tempo fa, ho capito che il problema posto dalla coesistenza di diverse religioni nell’umanità non è esattamente lo stesso di come rendere fattibile la loro convivenza, l’approccio che ho trovato intimamente più congeniale è quello di intendere ciascuna di esse non come un sistema compiuto, bensì come un movimento intrapreso verso un Dio trascendente per una propria particolare via, percorrendo la quale è impossibile raccogliere compiutamente la ricchezza che da Lui promana, in quanto il Divino si manifesta proprio attraverso la diversità di questi itinerari, ovvero come un fascio di luci complementari o come l’insieme dei diversi versanti che restano chiaramente distinti pur disegnando il profilo della stessa montagna verso cui si sta salendo. Poiché, però, non c’è figura peggiore dell’ingenuo animato da buone intenzioni che finisce involontariamente per avallare la causa opposta a quella che intende sostenere, sono grato a questo libretto di Rémi Chéno (domenicano, professore di dogmatica, una vita spesa in prima linea nel dialogo interreligioso, quindi fonte attendibile) per avermi aiutato a mettere meglio a fuoco alcuni possibili limiti di quella posizione – che nella buona società teologica è chiamata solitamente “pluralismo” – confermandomene, con gli adeguati correttivi, la sostanziale bontà (al di là dei nomi che si possono usare per indicarla).

Adottare una posizione pluralista può in effetti aiutare a superare l’alternativa secca tra l’esclusivismo di chi ritiene che al di fuori della propria fede non ci sia salvezza (compresa la versione «senza trionfalismi» di Barth, secondo cui pure il cristianesimo, nella misura in cui si riduce a mera “religione” e pretende di ingabbiare nei suoi schemi il totalmente Altro, non può vantare nessuna superiorità - che invece ha solo finché si autointerpreta come rimando a qualcosa che le starà sempre oltre, spiazzandola di continuo) e l’inclusivismo di chi pensa invece che tutti coloro che sono onestamente in cerca di Dio condividano di fatto la medesima esperienza, qualunque siano poi le forme e le parole che concretamente useranno per definirla (compresa la versione raffinata di Rahner, con la sua categoria di “esistenziale soprannaturale” introdotta per sostenere che un uomo può essere considerato cristiano anche senza una confessione esplicita in tal senso) - due prospettive che, istituendo tra le religioni un rapporto di conflitto insanabile o di bonaria omogeneità, eludono, più che affrontare, la domanda posta dal loro stesso esistere (domanda teologica, intendo, non antropologica o sociologica). D’altra parte, accettare l’idea che Dio, nella sua pienezza, sia perennemente al di là di ogni nostra rappresentazione e costituisca una meta comune per le diverse religioni del mondo sembrerebbe un pilastro sufficientemente solido per reggere un ponte di natura mistico-spirituale oltre che etico-pratica fra di esse, nel momento in cui le si riconosce appunto tutte impegnate nel rispondere a una medesima, sebbene diversificata, vocazione.

Cosa c’è che non funziona in questo ragionamento? Secondo Chéno, centrare il discorso su un “terzo” al di sopra delle molteplici tradizioni religiose rischia innanzitutto, nonostante utte le apparenze contrarie, di riproporre surretiziamente un modello assimilazionista, se non imperialista, nella misura in cui si afferma implicitamente che al termine di un lungo percorso di autoriflessione “noi” avremmo capito che il senso autentico della religione consisterebbe nel non assolutizzare i nostri punti di vista e perciò, dall’alto di questa scoperta, ora imponiamo anche a “voi” di rinunciare ai vostri per poterci reciprocamente riconoscere, secondo quel frusto trucchetto per cui si disegna “l’umano” prendendo noi stessi a modello univoco di riferimento e si racconta che non si vuole affatto trasformare gli altri in noi, certo che no, ma renderli, appunto, “più umani”. D’altra parte - ed è un’obiezione ancora più cogente – non esiste e non può esistere qualcosa come una esperienza religiosa “universale”, disancorata dall’orizzonte simbolico e dal contesto storico entro cui essa è maturata, e se il riconoscimento reciproco dovesse passare attraverso la progressiva spogliazione del repertorio culturale di cui siamo fatti, alla fine non resterebbe proprio nulla da riconoscere, come accade all’allodola spiumata della nota canzoncina francese. A forza di dire che questo non si può dire prima o poi, infatti, si resta semplicemente con nulla da dire. Un conto, sembra concludere Chéno, è deporre le armi, un conto è suicidarsi collettivamente.

C’è da dire che il pluralismo che il teologo francese contesta è quello di matrice anglosassone che ha avuto in John Hick il suo principale promotore, e non la versione proposta per esempio da Jacques Dupuis, che curiosamente non viene mai citato, pur avendo quest’ultima molti punti in comune, mi sembra, con l’approccio sostenuto dallo stesso Chéno e da lui definito “post-liberale” (ed è per questo che, come dicevo in apertura, più che una sconfessione del pluralismo verso cui sono orientato, mi pare un contributo per puntellarlo meglio). L’aspetto che trovo più intrigante di questa posizione è il fatto di snidare gli odierni identitarismi sul loro stesso terreno, smascherandone le fallacie. Affermare l’irriducibile diversità delle religioni come un elemento costitutivo della società umana potrebbe infatti sembrare un modo per portare acqua al mulino di chi rivendica, alla maniera di Huntington, una radicale “regionalizzazione” del mondo in sfere di civiltà ermeticamente impermeabili le une alle altre e destinate per questo inevitabilmente a scontrarsi. Tuttavia, se è vero che ciascuno di noi impara a dire se stesso nella lingua in cui è stato cresciuto, non è meno vero che tale lingua non è mai un circuito chiuso, ma è perennemente sollecitata a ritrovare dentro di sé le risorse per far risuonare familiare alle orecchie di chi la parla concetti e immagini elaborati in altre lingue. In una parola, da quando ci siamo dispersi per il globo, non abbiamo mai smesso di inventare parole nuove e contemporaneamente però anche di tradurcele a vicenda, senza per questo disimparare quelle che ci erano state insegnate da bambini. Anzi, studiare la lingua dell’altro ci permette di conoscere meglio strutture, potenzialità e limiti della nostra, che senza quello stimolo esterno ci sarebbero sfuggiti, e in fin dei conti ci aiuta persino a parlarla meglio, oltre a farci capire, appunto, che ogni traduzione lascia sempre un residuo inespresso che si sottrae alla nostra presa, sia cognitiva e sia, per estensione, politica. Insomma, non poter non avere un linguaggio - e un linguaggio concreto, particolare, storico - non implica l’impossibilità del dialogo; tutt’al contrario, ne è la costitutiva premessa. Dunque, la difesa delle proprie radici non può essere un buon motivo per chiedere l’estirpazione di quelle altrui.

Ora, lo scopo di questo dialogo è di provare a integrare il punto di vista altrui nel mio, aiutandomi ad approfondirlo e ad estenderlo (mi torna in mente la maieutica di Socrate, che non impone uno schema univoco di comportamento, ma invita Lachete, Alcibiade, Eutifrone a capire come realizzare la virtù ciascuno nella propria vita). Per noi cristiani non dovrebbe essere così difficile da capire, visto che l’abbiamo sempre fatto. «La storia delle dottrine mostra in che modo esse sono messe alla prova dalla loro capacità di sostenere l’intelligibilità delle pratiche in nuovi contesti». Non è stato questo lo sforzo di Tommaso, dei grandi Concili, di Paolo? Le parole stesse del maestro di Galilea, pronunciate in aramaico, noi le possediamo solo in greco (con buona pace di quanti pensano che Dio pensi e parli solo in latino). Senza l’inculturazione nel mondo ellenistico, forse la nostra fede non sarebbe mai stata altro che un ramo morto dell’ebraismo. Abbiamo dialogato con i classici, e nessuno dubita che siamo rimasti cristiani (anzi, questo ci ha aiutato a comprendere meglio ciò che siamo, e se abbiamo travisato qualcosa, abbiamo anche acquisito degli strumenti per correggere quei travisamenti) – perché mai dovremmo fermarci lì? Lo stesso vale per gli altri: dovremmo smetterla di pensare di poter diventare degli astratti “umani” migliori e pensare un po’ di più ad essere, ciascuno, un uomo migliore in quanto cristiano, in quanto musulmano, in quanto ebreo o buddhista o quello che è. Dunque, si può avversare l’omologazione modellata sull’economia di mercato e non per questo esigere che si innalzino muri alle frontiere.

Però questo discorso oggi non paga molto. Di ragioni per cui questo accade ce ne sono tante, ma questo libro me ne ha suggerita una in particolare. A ben vedere, l’esercizio di traduzione avviene anzitutto dentro di noi, e avverrà sempre di più in un mondo in cui i discorsi tendono a moltiplicarsi e ad intrecciarsi. «[Io] sono già in dialogo fra parecchi territori che per me costituiscono significati e visioni del mondo senza dubbio incommensurabili, ma che riesco ad abitare simultaneamente». Il che vuol dire che ciascuno di noi è già da sempre uno e anche un po’ un altro, ma bisogna rendersene conto, e per farlo bisogna abituarsi a scendere un po’ in profondità, a sondare se stessi. Guarda caso, invece, i profeti contemporanei dell’identità, proprio quelli che dovrebbero apprezzare questo esercizio di introspezione, sono però anche quelli per i quali l’identità è al contrario una corazza iperprotettiva indossabile a piacimento dall’uno o dall’altro perché formata da pochi pezzi assemblati fra loro che vengono ossessivamente esposti al nemico perché probabilmente si ha il terrore di mostrare che, sotto quell’uniforme (questo, sì, simbolo di omologazione), non c’è nulla. Ma se mi riduco a ripetere a voce sempre più alta degli slogan per non ascoltare ciò che gli altri hanno da dire, dato che dentro di me non troverei nulla da rispondere, il problema è davvero l’altro o non sarò forse io?

(finito l'8 luglio 2022)

Ho parlato di


Rémi Chéno
Dio al plurale. 
Ripensare la teologia delle religioni
(Queriniana 2019)

(Giornale di Teologia #418)

trad. di G. Romagnoli

128 pp. | 14 €

(ed. or.: Dieu au pluriel. Penser le religions, Paris 2017)

giovedì 10 luglio 2025

Adattamenti meravigliosi

Non avevo esattamente capito che genere di libro stavo comprando, quando ho comprato questo libro, anzi mi ero figurato qualcosa di un po’ diverso da quello che si è rivelato, ma ciò conferma indirettamente uno dei temi che questo libro ti aiuta a mettere a fuoco, quando poi lo leggi, ovvero che proprio là dove non te lo aspetti, o dove ti aspetti altro, magari di più scontato, si nascondono invece meraviglie che vanno ben oltre qualsiasi precedente immaginazione e che anche da quelli che sembrano errori di valutazione si finisce comunque per imparare qualcosa. Per spiegarlo, l’autore ricorre, tra l’altro, all’esempio della Ultra-Deep Field, lo scatto – chiamiamolo così – con cui il telescopio Hubble ha rivelato in «una porzione di cielo notturno banale e probabilmente priva di interesse» l’esistenza di diecimila galassie di cui prima non si aveva la minima percezione. Ma se da sempre il cielo stellato sopra di noi evoca quasi spontaneamente alla nostra fantasia la sensazione dell’ignoto, meno ovvio è che a suscitare analoghe emozioni possa essere il giardino di casa sotto di noi e quelle migliaia di piccolissimi eventi che ci accadono letteralmente fra i piedi, a prima vista infinitamente meno affascinanti rispetto, che so, alla collisione di due buchi neri. Si capisce ancora ancora l’attrattiva esercitata dai dinosauri oppure dai cetacei, dai grandi mammiferi, dalle scimmie: ma toporagni, insetti e lombrichi che cosa avranno mai da raccontarci di così interessante? E invece piegarsi su uno di questi animaletti e studiarlo al microscopio è esattamente «come spedire una sonda verso un pianeta lontano» (e curiosamente tocca prendere atto che alcuni mitemi tipici della fantascienza in apparenza più sfrenata hanno radici terrestri, troppo terrestri, senza bisogno di scomodare alieni o xenomorfi). Insomma, continuano ad esserci più cose nell’aiuola del basilico che in tutta la nostra filosofia e a ben vedere il mondo delle stranger things non è affatto il sottosopra, ma quello che solo per una questione di miopia ci ostiniamo a considerare “normale”.

Per farla breve, credevo di avere a che fare con una raccolta di saggi evoluzionistici alla Stephen Jay Gould e invece, anche se il retroterra è pressoché lo stesso, mi sono ritrovato per le mani un testo con un approccio decisamente più sperimentale – e per sperimentale intendo proprio da sporcarsi le mani e affondare fino alla vita nel fango delle paludi: non è un caso che parole di enorme apprezzamento siano qui riservate ad Alexander von Humbold, uno che se avesse potuto si sarebbe fatto ingoiare dalle balene per poterle osservare da dentro -, sebbene di taglio divulgativo, ossia sfrondato di gran parte dei grafici e dei dati che solitamente vengono riportati negli articoli scientifici e pieno zeppo, al contrario, di tutti quegli elementi narrativi e autobiografici che in quegli articoli non trovano mai spazio. Ed è probabilmente perché da quella letteratura spesso misurata potrebbe non emergere a sufficienza che dev’essere arrivato un momento in cui Kenneth Catania, docente di biologia all’Università di Nashville da quasi trent’anni (anche se con un passato da consulente dello zoo di Washington), ha avvertito l’esigenza di testimoniare a tutti in modo che più chiaro non si può come il sense of wonder non sia solo una prerogativa dei ragazzini che leggono fumetti, ma anche di chi, come lui, può vantare oltre un centinaio di pubblicazioni, premi, fellowship e tutto quello che serve a ingrassare un dignitoso curriculum accademico. Di qui il suo intento, dichiarato sin dall’inizio, di «cambiare la percezione di come avvengono le scoperte e di come si fa ricerca» - e per darcene un’idea il più incisiva possibile ha anche disseminato i bordi pagina del suo libro di qr code che, se debitamente inquadrati, ci collegano a video in cui possiamo vedere quello che ci viene raccontato, offrendoci un’autentica esperienza di lettura aumentata (qui pongo la mia pietra miliare e certifico che è stata la prima volta che mi è capitato in un volume non scolastico).

La morale della favola, corroborata da un’intera vita di studi, è che, per scoprire qualcosa di significativo, «pare che servano molta fortuna e serendipità», anche se bisognerebbe sempre ricordarsi di chiosare questa osservazione con il noto adagio di Pasteur secondo cui la fortuna aiuta le menti preparate, nonché con quello - non d’autore, ma non per questo meno vero - secondo cui i fallimenti sono «parte integrante della scienza, come della vita» (quindi niente paranoie se ci si imbatte di tanto in tanto in un vicolo cieco, perché non solo capita, ma deve capitare, e molto più di una sola volta). E il modo migliore per tenersi preparati è quell’«elemento chiave sottovalutato nel processo di scoperta» che consiste anzitutto nel «mantenere l’apertura mentale e non avere troppi pregiudizi», in quanto «essere incuriositi dai misteri fa parte della natura umana, ma i misteri ci portano solo sulla soglia. Non possiamo sapere cosa scopriremo varcandola». Dunque, attenzione estrema all’insolito e nessuna preclusione rispetto a ciò che ci può rivelare una qualsiasi esperienza, perché il mondo non si lascia mai chiudere in una teoria preconfezionata. Come avrebbe detto Sherlock Holmes, una volta eliminato l’impossibile, ciò che resta, per quanto improbabile, deve essere la verità. La scienza ci insegna, infatti, «a riconoscere leggi generali osservando i particolari più inconsueti» e «i dettagli più strani», tanté che «qualcuno ha detto che la cosa più bella da sentire, nella scienza, non è “eureka”, ma “che strano!”». Tutto questo Catania lo sa bene, essendosi costruito nell’ambiente la bizzarra fama di «studioso di strane appendici» soprattutto per via delle sue prolungate indagini sulle talpe dal muso stellato (Condylura cristata), esserini di cinquanta grammi appena che hanno però «l’abitudine di piombare nel bel mezzo di interessanti teorie e controversie scientifiche». Lo studio del funzionamento del corpo stellato che hanno sul muso e che si è rivelato essere l’organo tattile più sensibile tra tutte le creature del pianeta (con tanto di certificazione Guinness che riconosce a lei, e non – per dire – al ghepardo, il titolo di cacciatore più veloce tra i mammiferi, proprio in virtù di questa dotazione, grazie alla quale è in grado di individuare una preda, esaminarla, decidere di mangiarla, ingerirla e cercare un nuovo boccone in 230 millisecondi) è infatti una riprova del carattere non architettonico dell’evoluzione, che opera sempre e solo su ciò che già c’è, riciclando e riadattando alla bisogna; anzi è esattamente la stranezza dei risultati a costituire «una delle migliori prove dell’evoluzione» stessa (e qui Gould effettivamente torna in campo con uno dei suoi tormentoni).

Per questa via si viene, per esempio, a conoscenza di meccanismi sofisticati come la finissima tattica di caccia del serpente dai tentacoli (Erpeton tentaculatum Lacépède) e si fa i conti con la possibilità di una “percezione elettrica” del mondo, come quella delle anguille sudamericane (Electrophorus electricus), assai più estranea di quanto lo possa essere per noi la già complicata ecolocazione propria dei pipistreli, anche se probabilmente la più inquietante “meraviglia” qui descritta è quella riguardante la vespa gioiello (Ampulex compressa), «uno di quei casi in cui la realtà è molto più strana, interessante e agghiacciante della fantasia», dal momento che questa specie è solita paralizzare con una puntura gli scarafaggi, immobilizzarli in appositi luoghi cavernosi, nutrirsi di un tronco della loro zampa per assumere le proteine necessarie a deporre nel tenero moncherino una larva, la quale, a poco a poco, comincerà a nutrirsi del corpo ancora vivo, ma inerte, dell’insetto, finché lo dilanierà dall’interno, come in Alien, una volta raggiunta la maturità (sempre che non capiti nulla nel frattempo: basta anche solo un leggero movimento dello scarafaggio perché la larva cada fuori e muoia di fame, mentre la sua preda, esaurito, dopo circa una settimana, l’effetto inibitorio sui suoi sensi, riprenderà a muoversi liberamente – e tutto questo sotto il nostro naso!). Citando Feynman, Catania ne conclude che “la conoscenza scientifica non sottrae niente all’emozione, al mistero e alla meraviglia di un fiore. Non fa che aggiungere”. Qualche giorno fa mia moglie ha realizzato un acquarello in cui una bambina osserva un fiore gigante e una scritta sullo sfondo recita “coltiva lo stupore”. E questo non è altro che un ulteriore caso di felice adattamento tra lei, fisica, e me, filosofo.

(finito il 7 luglio 2022)

Ho parlato di


Kenneth Catania
Adattamenti meravigliosi. 
Sette irresistibili misteri dell'evoluzione
(Bollati Boringhieri 2021)

256 p. | 23 €

(ed. or.: Great Adaptations. Star-Nosed Moles, Electric Eels, and Other Tales of Evolution's Mysteries Solved, Princeton 2020)