Anche se non basta a placare del tutto l’imbarazzo che m’assale quando mi tocca parlare della guerra partigiana, per timore d’esser grossolano, banale o ridondante, io che un fucile non sarei capace di impugnarlo e la Resistenza l’ho praticata solo nei cortei, mi consola sapere che persino uno che partigiano lo è invece stato sul serio, come Fenoglio, e così convintamente da volere che questo titolo fosse scolpito – insieme a quello di scrittore – sulla propria tomba, si è arrovellato per tutto il resto della sua vita successiva nel tentativo di dare un significato preciso a quella «nuova parola, nuova nell’acquisizione italiana, così tremenda e splendida nell’aria dorata», in modo da sottrarla al duplice sfregio della rimozione e dell’imbalsamazione retorica, tutelandone la meritata gloria senza trascurarne le inevitabili opacità, e per farlo si è imbarcato nella stesura di questo romanzo splendidamente incompiuto, quantomai realistico eppure a tratti incredibilmente visionario, epico e tragico insieme (oserei dire biblico, alla maniera di Melville e di Milton), dinamicissimo come un film d’azione ma anche estremamente riflessivo e pieno di silenziosi campi lunghi, per avanzare nel quale, proprio come se fosse tornato a inerpicarsi ancora una volta su un’aspra riva di Langa, si è dovuto anche inventare una lingua tutta sua, ibridata di quegli anglopiemontesismi e quelle continue invenzioni espressionistiche che trovai disorientanti alla prima lettura ginnasiale ma che lo rendono un passaggio obbligato della nostra letteratura novecentesca, al di là del suo indiscutibile valore documentario (ne cito a caso alcune: l’«occhio radarico nella concreta tenebra»; la vita civile «trabocchettata ad ogni metro»; le scarpe che «tonellaggiano per il fango», il quale a sua volta è «trappolante»; un silenzio «megafonato»; la «misteriosa, femminile platitudine» osservata «con occhi da stupratori», e così via). Per Fenoglio farsi partigiano è stato il suo modo di diventare - anche fisicamente - uomo, da crisalide imberbe e irrisolta quale prima si sentiva. Ma cosa può voler dire questo per me, per noi, per quel dibattito pubblico che dovrebbe essere libero confronto di menti pensanti ma si degrada con sin troppa disinvoltura in caciara non appena approccia questi temi?
Sorpreso come tutti dall’armistizio e gettato nell’angoscia cui espone la scelta (a cui sa dare un nome grazie alle lezioni kierkegaardiane dell’amatissimo professor Chiodi), superato qualche tentennamento iniziale, Johnny parte infine «verso le somme colline» per unirsi a coloro che, da una città di fondovalle come Alba, gli erano da subito apparsi come mitologici «arcangeli». Questa ascensione laica non ha però nulla di ideologico: alla visione di quell’altro suo professore, Cocito, che pure pagherà tragicamente la sua militanza, e per il quale la vita del partigiano «è tutta e solo fatta di casi estremi», oppune da subito un’idea alternativa, sebbene sulle prime ancora nebulosa. Quando prende la sua decisione, in antitesi a tutti quelli che andranno a cercare la bella morte, avverte infatti semplicemente «com’è grande un uomo quando è nella sua normale dimensione umana. E nel momento in cui partì si sentì investito – nor death itself would have been divestiture – in nome dell’autentico popolo d’Italia, ad opporsi in ogni modo al fascismo, a giudicare ed eseguire, a decidere militarmente e civilmente. Era inebriante tanta somma di potere, ma infinitamente più inebriante la coscienza dell’uso legittimo che ne avrebbe fatto». Chiarissima è in lui la consapevolezza che quelli che è più probabile che salveranno la loro pelle, perché avranno avuto il buon senso di rannicchiarsi come topi nel proprio buco ad aspettare che passi la nuttata, non potranno dire alla fine d’essere veramente sopravvissuti, per il semplice fatto che con quella fuga avranno implicitamente dimostrato che in realtà mai non fur vivi.
Nonostante queste premesse, il primo impatto con le bande partigiane non fu esattamente dei migliori. A Murazzano, Johnny si aggrega infatti a un gruppo di garibaldini, solo perché in quelli si imbatte per primi; potrebbe anche stargli bene («io sono qui per i fascisti, unicamente. Tutto il resto è cosa di dopo»), se non lo disturbasse il fatto che i morti della compagnia – e quindi lui pure, potenzialmente – vengano avvolti nella bandiera rossa e considerati ipso facto come dei morti “comunisti”, qualunque sia la loro reale posizione politica, perché i loro cadaveri possano essere fatti pesare a tranci, sul tavolo delle trattative, quando serviranno per rivendicare quote di potere, al momento della ricostruzione. È anzitutto per un sussulto d’onestà intellettuale e per una questione di «stile» che, alla prima occasione buona, Johnny si sposta perciò altrove, alla ricerca di quelli che gli somigliano di più, variamente noti come azzurri o badogliani o autonomi. A dire il vero, pure lì finisce per sentirsi «un altro uccello in questo stormo» di conservatori, in gran parte di estrazione militare, che «si sarebbero tutti dichiarati per Re Carlo nel 1681 e, due secoli dopo, si sarebbero arruolati sotto le bandiere del Dixieland»; in quel nuovo ambiente, tuttavia, trova «almeno un comune linguaggio esteriore, una comune affinità di rapporti e di sottintesi, un poterci stare insieme non soltanto nella non necessitante battaglia, ma più e principalmente nei lunghi periodi di attesa e di riposo». Sul piano strettamente operativo, non mancano le riserve. «Io in fatto di critica non scherzo», riconosce Johnny, che in un momento di sconforto di fronte all’ennesima manifestazione di pericoloso dilettantismo arriva a definire lui e i suoi compagni «un branco di marmocchi irresponsabili», forse memore delle rimostranze di mamma e papà, ai quali i partigiani ammirati dal figlio erano apparsi come degli incoscienti bambini che si erano messi in testa di giocare alla guerra contro gli imbattibili tedeschi. «I partigiani erano quelli che erano, il fiore e la feccia, come sempre succede in tutte le formazioni volontarie». Ma questo disincanto non gli fa mai perdere di vista il punto nodale: «prendiamo il più disciplinato esercito del mondo: l’inglese od il tedesco, a tua scelta. Infliggigli un 8 settembre e sparpaglialo sulle montagne. Ebbene, essi non si dimostrerebbero migliori di noi. – Possiamo dunque gridare sempre Viva Noi! – Sempre, Pierre, fino alla fine della storia umana. Se penso, se mi figuro d’aver perso quest’occasione, per paura, per comodità o per qualunque altro motivo, mi vengono i brividi freddi».
Insomma si combatte, si rischia, si attende, si uccide e si è uccisi, si assaltano convogli, si tiene duro durante i rastrellamenti, si tendono agguati, ci si perde e ci si ritrova, si realizza il maldestro colpo di mano su Alba e poi si ripiega quando si capisce che quella posizione è indifendibile – e così via, tra alti e bassi, per due lunghissimi anni di guerriglia su e giù per le coste di Langhe. Più volte si lascia intendere che «nell’immensa linea della guerra mondiale», ai partigiani è assegnato appena «qualche metro di sterile terra d’alta collina», un mondo «lillipuziano» fatto di casali, anfratti, borri e sterrati, del tutto irrilevante per le sorti di un conflitto che sarà deciso altrove. Non per nulla, durante l’interminabile, glaciale, inverno del ‘44, quando l’avanzata alleata si è ingolfata sulla linea gotica e la guerra appare come sospesa, molti prendono in parola l’ordine insensato di smobilitare dato dal generale Alexander e ritornano alla chetichella alle proprie abitazioni, sperando di non dare troppo nell’occhio. Johnny, invece, raggiunta una cresta da cui possa vedere casa sua, «pensò che forse un partigiano sarebbe stato come lui ritto sull’ultima collina, guardando la città e pensando lo stesso di lui e della sua notizia, la sera del giorno della sua morte. Ecco l’importante: che ne restasse sempre uno». Perché si tratti pure di una misera zolla di terra, finche i piedi di un partigiano vi resteranno ben piantati e quella zolla rimarrà libera, vorrà dire che la notte non avrà ancora prevalso sul mondo. Questa è appunto l’ultima tentazione a cui lo sottopone il suo personale Satana sotto forma di mugnaio carico di tutto il buon senso degli uomini di mondo: «al disgelo gli Alleati si muoveranno e allora daranno il gran colpo, quello buono. E vinceranno senza di voi. Non ti offendere, ma voi partigiani siete di gran lunga la parte meno importante in tutto il gioco, converrai con me. E allora perché crepare in attesa di una vittoria che verrà lo stesso, senza e all’infuori di voi». Ne vale davvero la pena? «Da’ retta a me, Johnny. La tua parte l’hai fatta e la tua coscienza è senz’altro a posto. Dunque smetti tutto e scendi in pianura». La risposta di Johnny non potrebbe essere più netta: «– Mi sono impegnato a dir di no fino in fondo, e questa sarebbe una maniera di dir sì. – No che non lo è! – gridò il mugnaio. – Lo è, lo è una maniera di dir di sì». E riprendendo da solo la via della collina, sferzato da un vento polare, ribadisce con orgoglio: «io sono il passero che non cascherà mai. Io sono quell’unico passero!».
Da tempo quegli stessi che stanno surretiziamente cercando di presentare l’adesione alla Repubblica Sociale come il vero atto parsifaliano di resistenza ai poteri forti della tecnica e della modernità, stanno provando a far passare anche il messaggio che i partigiani fossero tutti comunisti. Qualcuno invece era partigiano semplicemente perché non ne poteva più della meschinità, dell’ignoranza, delle chiassate e delle prepotenze fasciste – e soprattutto del tentativo di presentarle come l’autentico risveglio dello Spirito. Al cuore dell’antifascismo «integrale, assoluto, indubitabile» di Johnny-Fenoglio non c’è il progetto di trasformare il paese in una repubblica sovietica, ma una «armata, potente rivendicazione del gusto e della misura contro il tragico carnevale fascista», che dopo la roboante messinscena dell’Impero aveva assunto il volto truce e assai più veritiero dei capetti di Salò e che oggi è tristemente ricomparso nel ghigno di qualche sottosegretario a cui non par vero di poter dare una parvenza di orizzonte simbolico condiviso al suo solitario vittimismo. Che brutta sorpresa avrebbero però costoro se, potendo comparire di fronte ai loro beneamati idoli della X Mas, fattisi avanti belli contenti sventolando il tricolore e intonando l’inno di Mameli, venissero crivellati di colpi senza pietà, perché proprio quelli erano in realtà i segni di riconoscimento degli odiati nemici - che loro consideravano banditi, ma che, prima ancora che partigiani, amavano invece pensare a se stessi come patrioti, come i veri patrioti. Quanto abbiano le idee poco chiare gli attuali gerarchi lo dimostra del resto il modo in cui periodicamente si scorticano le mani per applaudire i plutocrati difensori dello Stato minimo che abitualmente invitano alle loro festicciole. Il carnevale è, insomma, ripreso in grande stile: se questi mi fanno un po’ meno schifo degli originali è solo perché, finora, hanno avuto la fortuna di fare meno danni.
(finito il 1 maggio 2022)
Ho parlato di
Il partigiano Johnny
(Mondolibri 2003 su lic. Einaudi 1994)
530 pp. || ?? €
(ed. or.: 1968)