domenica 6 ottobre 2024

A margine dei meridiani

Dopotutto, con le migliaia di pagine che ha scritto, era davvero solo questione di tempo prima che mi reimbattessi di nuovo in Simenon – ma se la prima volta, tantissimi anni fa, fu per assecondare una mia curiosità personale evidentemente non rimasta troppo soddisfatta, se poi ne è seguito un così prolungato distacco, devo invece il possesso di questo libro alla porzione di mappa che, violando la tradizionale monocromia pastello delle copertine Adelphi e sposandosi con un meraviglioso titolo, ha prontamente evocato in mia moglie, quando l’ha scelto per regalarmelo, le ossessioni cartografiche a cui ormai l’ho abituata. A scanso di equivoci, va detto che qui Simenon non indossa il suo abito più noto di giallista, bensì quello di giornalista, inviato nientemeno che agli antipodi per spedire da laggiù quelle che egli stesso definisce come delle «semplici cartoline (…) senza pretese» - e sono in effetti brevi reportages, cronachette, ritratti di indigeni e altri singolari viaggiatori raccolti con la stessa curiosità con cui Darwin, un secolo prima, aveva raccolto più o meno da quelle stesse parti ossa d’armadillo e fringuelli – con cui fissare nella memoria spunti che avrebbero potuto eventualmente stimolare in seguito l’ispirazione letteraria e nel frattempo divertire i lettori dei giornali francesi, proiettandoli nel giro di poche battute in quei vastissimi spazi oceanici e polinesiani già percorsi dagli avventurieri di Stevenson e di Conrad, dove la vita scorre a tutt’altra velocità e nessuno sembra seriamente interessarsi ai prodromi sempre più minacciosi di una guerra incombente e che pure sarebbe poi stata definita “mondiale” (sono tutti testi risalenti agli anni ‘30).

Non si tratta però di puro escapismo, giacché una qualche morale, al fondo, la si trova. «Per me, vedete, il giro del mondo non è un viaggio nello spazio. Lo spazio, i fiori di loto, i banani, i coccodrilli, le latitudini e le longitudini, tutto questo non conta! Andando in giro in questo modo, si fa invece, senza volerlo, un terribile, spossante, deprimente viaggio nel tempo. In Sudamerica ho visto bestiacce terrificanti come l’Apocalisse, che vi riportano ai tempi del diluvio universale. (…) Ma non importa! Vengo al punto! Ho visto degli uomini! Tutti gli uomini da Adamo fino ai giorni nostri. E vi assicuro che è questa la cosa triste! È questa la cosa che butta giù! Forse adesso capite perché non leggo mai i telegrammi in cui si parla del signor Flandin o del signor Hitler. Gli uomini che ho visto erano uomini veri, uomini sanguigni, che combattono, che crepano senza ragione e che… (…) Noi invece ce ne andiamo a spasso per il mondo con i nostri bei completi, i cachi, i coltellini, i giornali e la radio. (…) Facciamo finta di crederci i più forti, i più furbi. (…) Ci occupiamo di politica, ma l’avrete letto, l’altro giorno, che la spagnola ha causato non so quanti morti più della guerra». Ci sono, insomma, molte più cose anche solo in terra di quante ne possa sognare la nostra fantasia euroumanisticocentrica. E se ne può avere la controprova anche senza andare necessariamente così lontano, sebbene in terre forse ancor più difficili da raggiungere, come attesta il primo pezzo di questa antologia, resoconto di un viaggio in Lapponia durante l’inverno del ‘33: qui, nell’«immensa notte del Nord» si prova una «solitudine fredda. È un mondo estraneo al nostro, un mondo preistorico», dove – chioso io – si può essere travolti dalla sensazione che, nonostante la sua maggiore ospitalità, anche il resto del mondo non sia stato fatto apposta per noi.

Chi sembra aver capito tutto sono proprio gli abitanti di Tahiti, i quali vivono come se non fossero mai usciti dall’Eden: o fanno l’amore, scrive Simenon, o non fanno niente. La loro «occupazione principale è starsene seduti sulla soglia di casa, a gambe larghe, e guardare la gente che passa. (…) Se ne infischiano di tutto e probabilmente anche di voi». Era almeno dai tempi di Gauguin che questa ostentata inerzia, unita alla loro disinvoltura sessuale, continuava a sedurre e però anche a inquietare terribilmente gli occidentali approdati su quelle coste, che nei nativi finivano per vedere se stessi come attraverso uno specchio e per enigmi. E non furono così pochi quelli che, attratti da tali sirene primordiali, decisero sul serio di gettarsi dal treno in corsa della civiltà moderna per immergersi in quella che immaginavano sarebbe potuta essere una sorta di utopia naturistica e libertaria all’altro capo del mondo. Nel più romanzesco contributo della raccolta, Simenon prova ad esempio a ricostruire la misteriosa e tragica vicenda di una squinternata colonia stabilitasi sull’isola di Floreana, alle Galapagos, e composta da improbabili personaggi che sembrano usciti da un libro di Vonnegut, tra cui una sedicente baronessa coi suoi due amanti e un chirurgo tedesco sostenitore di teorie mediche alternative a quelle di scuola. La storia finì malissimo, con morti, gente sparita nel nulla e quel tanto di torbido in grado di generare una certa risonanza sulla stampa europea dell’epoca. Simenon osserva che «da romanziere, la storia delle Galapagos, non l’avrei inventata, per paura di far sorridere i miei lettori»; poi, però, per quanto metta le mani avanti sostenendo di non voler fare «il Maigret della situazione», abbozza, forse per esigenze di contratto, una sua possibile versione dei fatti, quella che gli sembra più plausibile e che avrebbe potuto tranquillamente costituire la spina dorsale di un possibile racconto.

Nella maggior parte dei casi abbiamo però a che fare con brevi aneddoti o al massimo bozzetti, la materia ancora grezza nella quale lo scrittore di razza sa però fiutare i vissuti cui saprà eventualmente dare maggior respiro quando se ne presenterà l’occasione. Lungo queste rotte remote si muovono infatti uomini e donne così pittoreschi da essere già quasi dei prototipi di personaggi (anche se la cosa più sorprendente, a lungo andare, è che tutte queste diventano facce note, profili riconoscibili), che si tratti di trafficanti di quart’ordine, «miliardari blasé» con i loro yacht di lusso, pacchianissimi turisti yankee o – fenomeno, dati i tempi, relativamente nuovo – intere troupe cinematografiche impegnate, non si sa con quanta consapevolezza, a rappresentare l’esotico nel modo in cui ci si è convinti che l’esotico debba essere rappresentato secondo i parametri stabiliti a Hollywood, ovvero falsificando e travisando sistematicamente la realtà: «sono pressoché dei crimini, dei crimini contro la verità e persino contro la bellezza!», sbotta Simenon, che soggiorna a Tahiti quando è ancora fresco il ricordo della complicata produzione del Tabù di Friedrich Wilhelm Murnau. E non per nulla è proprio il caldo languore di Tahiti a costituire, pare, la sola eccezione alla regola che egli ha infine tratto dal suo girovagare: «viaggiare significa sempre rimanere scottati; si distruggono le proprie illusioni. Senza esagerare, forse potremmo dire che si viaggia per compilare l’elenco dei paesi in cui non si avrà più voglia di mettere piede».

Anch’io in effetti conservo nel cuore un luogo che sembra uscito proprio da uno di questi diari e dove per un verso tornerei domani mattina, ma che d’altra parte non so se vorrei veramente rivedere, per non intaccare l’immagine magica che di esso mi si è sedimentata nella memoria: intendo dire Aguas Calientes, intricatissima cittadina sorta per ragioni turistiche alle pendici di Machu Picchu, in mezzo alla giungla, dove si arriva solo in treno o in battello, aggirandomi tra i cui mercatini, per l’unica volta forse nella mia vita, ho veramente avuto la netta impressione di essere finito dentro una storia di spie. E anche se Simenon confessa di non amare molto quel genere di intrecci, non si prova forse un inevitabile moto di empatia quando, a proposito di Panama e di altri analoghi «crocevia del mondo», constatando che «non conservano a lungo la loro innocenza», sembra rimpiangere l’epoca in cui luoghi come quelli erano solo lo scenario di epici racconti d’evasione (o almeno tali sembravano) e non lo sfondo delle cronache dei reporter di guerra?

(finito il 13 aprile 2022)

Ho parlato di


Georges Simenon
A margine dei meridiani
(Adelphi 2021)

trad. di G. Girimonti Greco e F. Scala

223 pp. | 16 €