mercoledì 4 settembre 2024

Hitler

Ancora un libro su Hitler? E perché, con tutti quelli che ci sono, leggere oggi proprio questo, che non contiene nuovi documenti e non è neppure il testo di riferimento consigliato dalla comunità scientifica, ma semplicemente il frutto di un confronto fra due storici – o, come dicono loro, di «un’evasione» rispetto alle rispettive traiettorie di ricerca più che una ricostruzione biografica minuto per minuto della vita del Fuhrer? Se l’ho cominciato con la speranza, rivelatasi poi fondata, di trovarvi una sintesi convincente ancorché non semplicistica da impiegare a fini didattici, ciò che più mi ha dato da riflettere, scorrendolo, è stato tuttavia il suo carattere dichiaratamente problematico, quasi fosse un guanto di autosfida lanciato a se stessi da due studiosi che, non credendo più al principio «secondo cui le grandi figure, comprese le più cupe, fanno la storia incarnando le proprie idee nella realtà», dovrebbero perciò retrocedere l’indagine biografica su Hitler a tema «minore» rispetto all’esame delle «forze che si sprigionano dalla vertiginosa mutazione di quei sistemi economici, sociali e cognitivi che costituiscono l’Europa» tra Otto e Novecento e di cui Hitler sarebbe stato solo «un catalizzatore» o «un condensato», ma che ciò nonostante non possono fare a meno di considerare quel tema un ostacolo «insidioso e complesso», proprio perché pone invece in modo drammatico la questione dell’incidenza delle azioni di un singolo individuo sui meccanismi che mettono in movimento la storia.

Proviamo allora a ripercorrere gli anni di apprendistato di questo montanaro non particolarmente brillante, ma convinto assai presto dalla madre a interpretare la sua solitudine come sinonimo di genialità incompresa; seguiamolo mentre si perde letteralmente nella febbrile Vienna tardoasburgica, crocevia di tutte le principali avanguardie filosofiche e artistiche d’inizio secolo, di cui egli non capisce sostanzialmente nulla, perché non sarà mai altro che un mediocre pittore di bozzetti; immaginiamolo mentre stordisce i suoi compagni di dormitorio con sproloqui zeppi di luoghi comuni razzisti estrapolati da una pubblicistica di grana grossa equiparabile agli odierni editoriali dei giornali di Angelucci. «Cosa fa nelle sue giornate? Nulla o quasi». Quest’«uomo dei progetti irrealizzati» sarebbe probabilmente stato fagocitato dalla modernità incalzante e reso inoffensivo prima di poter nuocere veramente a qualcuno se nel frattempo non fosse scoppiata la Grande Guerra, che costituì «la matrice e l’orizzonte di riferimento insuperabile» per lui come per gran parte dei suoi coetanei mandati a morire nelle trincee. È infatti proprio l’esperienza della trincea, dove tutto si riduce basicamente a una questione di vita o di morte, a determinare il suo «approccio straordinariamente angosciato verso il mondo» e a convincerlo che solo una comunità compatta e coesa intorno al suo capo come un manipolo di soldati sta riunito intorno al suo ufficiale avrebbe avuto qualche chance di reggere l’urto della cospirazione globale ordita per annientare la Germania in quanto tale da quel camaleontico nemico, l’Ebreo, capace di presentarsi ora con le fattezze del rivoluzionario bolscevico, ora con quelle opposte del magnate capitalista, e le cui macchinazioni sottobanco sono l’unica possibile spiegazione razionale (per lo meno secondo i criteri razionali distorti tipici della mente complottista) all’inopinata sconfitta dell’altrimenti invincibile esercito tedesco. Nulla di tutto questo è veramente originale negli anni di Weimar, giacché il vittimismo è da sempre un collante potente fra gli sconfitti e già durante la guerra i soldati tedeschi si erano abituati a considerare la loro come «una battaglia difensiva, che protegge il territorio e la popolazione del loro paese, persino quando combattono a Verdun o nella Somme, ovvero essendo penetrati ben dentro il territorio francese» (per una beffa della storia, è il medesimo ragionamento che oggi spinge i falchi di Israele a giustificare il carnaio di Gaza). Lo stesso famosissimo putsch della birreria di Monaco, per come fu dilettantisticamente condotto, lascia pensare che, qualunque fosse l’idea che avevano di se stessi, i primi nazisti fossero solo degli sprovveduti non troppo diversi dagli sciamani che quattro anni fa hanno preso d’assalto Capitol Hill.

Eppure è questa «la loro grande fortuna», che «non vengono presi sul serio». Alla fine del 1932, quando, nonostante la travolgente avanzata elettorale, «il bilancio politico nazista è assolutamente disastroso» e perfino i leader, Hitler e Goebbels, «sono convinti di aver perso il treno della storia», sarà solo la cieca certezza nutrita dalle élites conservatrici, immemori di quanto era già accaduto con Napoleone III, di poter manipolare l’imbecille di turno a spianare a quest’ultimo la via del cancellierato. Non sembra esserci nessun disegno a lungo termine, nessuna meditata strategia nella resistibile ascesa del nazismo. Sin da quando, agli inizi della sua avventura politica, Hitler aveva minacciato di dimettersi dalla guida di un partito ancora microscopico – al punto che, se nessuno glielo avesse impedito, «sarebbe tornato alla sua marginalità» -, nella sua condotta si manifesta semplicemente «il cristallizzarsi del comportamento oltranzista, intransigente, radicale, che non fa concessioni, di un uomo che fa a braccio di ferro fino a rompersi la mano pur di non cedere», non già per titanica coerenza, ma con la stessa ottusa protervia di un bambino capriccioso (e ne conosciamo tutti a iosa di colleghi o amici che alla fine ottengono sempre quello che vogliono semplicemente perché non hai voglia di litigare con loro). Sarà più la coda di paglia di Francia e Inghilterra che non la sua lungimiranza a consentirgli di dominare le relazioni internazionali, finché una nuova guerra, dopo che la prima l’aveva tenuto a battesimo, ne farà emergere la condizione di totale alienazione. Allora, «quest’uomo che non ha mai saputo dialogare, che si è sempre chiuso in monologhi arzigogolati e torrenziali, che sa soltanto innervosirsi o esaltarsi da solo nella sua torre d’avorio, che non ha mai avuto uno scambio con gli altri, si isola sempre più dalla realtà e non accetta che essa contraddica le sue predizioni», fino alla decisione estrema di anticipare il Ragnarok per sé e per tutta la Germania, «convinto che se il Terzo Reich non poteva vincere la guerra, se il Reich millenario era irraggiungibile, almeno una morte millenaria era alla portata del suo gesto suicida: un mito della memoria che sorgesse dal ricordo di questo gesto eroico, di questa epopea razziale, di una guerra di civiltà contro il giudaismo e il bolscevismo».

E tale Hitler è per l’appunto rimasto nell’immaginario neonazista e persino in quello dei suoi avversari, personificazione a seconda dei casi di una volontà superiore o di suprema crudeltà, caso apparentemente unico e irraggiungibile, quando sarebbe invece bastato un nulla per scalzarlo via dal corso degli eventi – perché poi nella storia accade sempre così, che ciò che a posteriori appare sempre un destino inevitabile sia in realtà appeso spesso al tenuissimo filo delle circostanze. Probabilmente l’energia accumulata nel sottosuolo sociale di inizio Novecento avrebbe comunque prodotto, presto o tardi, un terremoto devastante quanto la seconda guerra mondiale, ma Hitler, di per sé, è solo una variabile tra le tante. «Contro la prefabbricazione del mito – ambizione estrema di Hitler e di Goebbels – il lavoro dello storico può aiutare a vincere un’ultima volta il nazismo. Da una parte ristabilendo la verità contro i negazionismi di ogni risma che imperversano ancor oggi tentando di negare o di minimizzare i crimini nazisti. Dall’altra smontando meticolosamente il mito nazista e mostrando fino a che punto quest’uomo non fosse onnipotente, né fosse il genio che ha preteso di essere. () É forse anche questa una delle missioni degli storici: decostruire con pazienza i miti». Non esistono insomma geni del male, ma questo è assai poco rassicurante e richiede estrema circospezione, perché vuol dire che anche il più squinternato sostenitore dell’idea che il mondo stia andando al contrario, a determinate condizioni, potrebbe essere in grado di provocare l’apocalisse.

(finito il 10 aprile 2022)

Ho parlato di


Johann Chapoutot | Christian Ingrao
Hitler
(Laterza 2021)

trad. di L. Falaschi

152 pp. | 16 €

(ed. or.: Hitler, 2018)

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