lunedì 10 luglio 2023

Dante

L’ho già detto, lo sappiamo tutti, che non è per niente la stessa cosa leggere Barbero o ascoltarlo, ma il fatto che le sue performances dal vivo siano letteralmente fuori scala non deve indurci a pensare che i suoi libri vadano considerati come meri cumuli di carta straccia. Una volta entrato in questo ordine di idee, superato lo scoglio della prima volta, la seconda è venuta quasi da sé, anche perché la mia fissa sugli anniversari ha travolto facilmente ogni snobismo di fronte all’evidente marchettone per il settecentenario dantesco del 2021.

Della vita di Dante, per la verità, sappiamo bene o male tutto quello che si può sapere, comprese quali sono le cose – tantissime – che non sappiamo affatto e che difficilmente potremo mai sapere, perciò da un nuovo libro su Dante non ti aspetti tanto che metta per l’ennesima volta in fila gli eventi, ma che ti offra un’inedita chiave di lettura per interpretarli, a maggior ragione se il testo in questione, per quanto scritto da un noto divulgatore, ha l’ambizione di non essere meramente divulgativo, e se costui è uno storico a tutto tondo, e non uno storico della letteratura o un critico letterario, perché è probabile che il suo occhio possa aiutarci a vedere meglio qualcosa che altri magari non hanno adeguatamente sottolineato (e viceversa, ovviamente: perciò qualcuno potrebbe non trovare qui quello che s’aspetta). Non per nulla il libro non comincia il giorno della nascita di Dante, ma l’11 giugno 1289, quando di anni Dante ne aveva già ventiquattro e, schierato nella prima fila dell’esercito fiorentino, attendeva tremando l’inizio dello scontro contro gli odiati aretini nella piana di Campaldino. Scrive infatti Barbero che «per raccontare chi era Dante bisogna porre innanzitutto il problema, fondamentale, della sua condizione sociale» - non direi per un rigurgito di materialismo storico, ma perché per Dante si tratta davvero di «una questione importantissima, da cui dipendevano la sua collocazione nella società fiorentina e i rapporti con i suoi migliori amici» - e per comprendere la posizione sociale di un uomo del Medioevo (e non solo) occorre spesso partire proprio dalla posizione da lui occupata in battaglia.

E qui, però, cominciano le complicazioni. Perché, se «fuori d’Italia, quelli che combattevano a cavallo erano tutti nobili», in una città come Firenze «chiunque appartenesse a una famiglia ricca e fosse disposto a spendere molto poteva pagarsi l’addobbamento, e diventare un cavaliere a pieno titolo», imitando stili e vezzi di chi cavaliere lo era davvero da generazioni (e assumendosene anche gli oneri, come Dante scopre appunto sulla sua pelle quando viene arruolato). E dunque lui da che parte sta? É un nobile o non lo è? E se non lo è, che cos’è? Una parte consistente del libro prova appunto a rispondere a questa domanda – ed è qui, soprattutto, che viene fuori l’imprinting del medievista e la sua consuetudine a scartabellare atti duecenteschi di compravendita, rogiti, testamenti e fideiussioni. Ora, pur riconoscendo che «la considerazione più importante suggerita da queste carte è ancor sempre che non ne capiamo davvero niente: perché la cosa più importante, e cioè i motivi per cui questi soldi passavano di mano in mano, non è mai espressa», quel che se ne può concludere è che la famiglia di Dante – che aveva un cognome (gli “Alighieri”, ovviamente) e «avere un cognome significava appartenere a (...) una famiglia conosciuta e influente» - si collocava senz’altro nello strato superiore della società fiorentina del tempo, senza però essere davvero tra quelle più in vista, tanto che, pur essendo tradizionalmente guelfa, non fu messa al bando dopo la vittoria ghibellina a Montaperti, motivo per cui Dante stesso poté tranquillamente nascere a Firenze nel 1265. Gli Alighieri erano sostanzialmente «uomini d’affari, con le mani in pasta in tutte le occasioni in cui c’era da guadagnare qualcosa», e in virtù di questi affari avevano col tempo acquisito un patrimonio tale da permettere infine al loro ultimo rampollo di «vivere di rendita, perseguendo occupazioni aristocratiche» - ma non erano cavalieri. E questa condizione ambigua (“mezzana”, si sarebbe detto allora) segnò dall’inizio alla fine la vita e la riflessione di Dante, che non per nulla espresse «idee contraddittorie circa la nobiltà (…): diverse a seconda del momento, tanto da far pensare a un’evoluzione delle sue idee in proposito, e ancora di più a seconda che stesse affrontando la questione in termini teorici, oppure parlando molto concretamente di sé e della propria famiglia».

Se da un lato, infatti, egli cerca di retrodatare lo status raggiunto da sé e dai suoi inventandosi tramite il richiamo a Cacciaguida una genealogia nobilitante che non lo facesse apparire come un parvenu, dall’altra, però, polemizza apertamente con l’idea della nobiltà di sangue e, per una parte almeno della sua vita, si propone anche di elaborare un’immagine diversa di nobiltà, legata a valori spirituali e intellettuali. É proprio grazie alla letteratura, del resto, che lui stesso riesce a stringere rapporti duraturi con aristocratici “veri”, come i Donati o i Cavalcanti («Dante, se fosse stato solamente il figlio di Alighiero, l’avrebbero magari fatto sedere fra gli invitati più oscuri, ma siccome scambiava sonetti con loro, dava del tu ai figli dei cavalieri»), dai quali, però, lo separerà la politica, quando egli si schiererà apertamente con quella componente moderata della parte popolana sufficientemente ricca per essere inorridita «dalla dittatura della gente dappoco» e perciò «ben poco disposta a seguire il popolo minuto nella sua indiscriminata ostilità contro i grandi», ma altrettanto terrorizzata dalle violenze incontrollate dei magnati e pronta a scacciarli in caso di eccessi. Da questa scelta cominceranno tutte le sue sventure personali, ma forse sarebbe meglio dire la sua grande fortuna, perché sarà solo dopo l’esilio, e proprio grazie ad esso, che Dante potrà costruirsi quell’immagine di profeta universale che, com’è noto, non potrebbe mai funzionare nella tua patria, dove tutti sanno benissimo “chi fuor li maggior tui” (e al malizioso orecchio fiorentino dire “il figlio dell’Alighieri” sarà suonato più o meno come dire “il figlio del carpentiere”).

Questa attenzione al retrobottega non ridimensiona affatto la grandezza di Dante, così come non lo fanno le oscillazioni, i pentimenti, i cambi di marcia, i cortocircuiti, le autoindulgenze a cui si abbandona soprattutto quando dovrà affrontare la difficilissima condizione di ramingo. Sono semmai proprio queste piccinerie, i pregiudizi, certe meschinità che contraddistinguono l’uomo del suo tempo a rendere ancora più affascinante il suo sforzo eroico d’etternarsi.

(finito il 14 settembre 2021)

Ho parlato di


Alessandro Barbero
Dante
(Gedi 2021)

362 pp. | 13,90 €

(ed. or.: Laterza, 2020)

Nessun commento:

Posta un commento